Il loto dai mille petali

30 Luglio 2023

Non si danno scorciatoie per la buddhità. Elsa Morante, che pure si era misurata sul serio con i testi della sapienza orientale e con la disciplina di yogi e bodhisattva, ne prende atto in un verso della canzone La sera domenicale, nel libro del 1968 Il mondo salvato dai ragazzini. La dimensione allucinata di un trip via LSD (come suggerito dalle iniziali del titolo) non porta all’Illuminazione: il dolore, evocato nel polisindeto dell’esordio nelle sue forme più amare, alla fine del viaggio psichedelico è ancora tutto lì: «Nessun cielo ulteriore si scopre. Non s’apre il loto dai mille petali». Il riferimento è al sahasrārachakra, il fiore di loto dai mille petali (sahasrā = mille) del settimo chakra della corona, collocato sopra la testa: chi lo sperimenta vive una profonda connessione col divino che è in tutte le cose, e lo vede ovunque nei suoi molteplici aspetti. Ma vi si può accedere solo con un esercizio costante, con meditazione perseverante, massima concentrazione.

Il loto (Nelumbo nucifera) è – senza forse – il fiore più carico di alte valenze simboliche al mondo, legato alla spiritualità orientale nell’immaginario collettivo di miliardi di persone, è il fiore del Risveglio, perciò sacro e venerato. Il suo radicarsi nel fondo fangoso di laghi e stagni per innalzarsi e fiorire in tutta la sua pura grazia a pelo d’acqua, per induisti e buddisti di tutte le scuole è metafora del percorso interiore verso l’illuminazione attraverso la graduale liberazione dalle passioni e dalle sofferenze inflitte, a noi mortali, dalla ruota del saṃsāra (il ciclo di vita morte e rinascita). E nella Bhagavadgītā (V, 10), il Canto del beato Signore, centro nevralgico della grande epopea indiana del Mahābhārata, si legge: «Colui che, deponendo i propri atti nel Brahman, abbandona ogni attaccamento, quando agisce non è toccato dal male più di quanto non lo sia la foglia di loto dall’acqua». 

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Tra le scritture del buddismo Mahāyāna (Grande veicolo) – la tradizione buddista che con quella zen ha più interessato Morante – ha un posto di assoluto rilievo il Sutra del loto della buona legge o della vera dottrina (Saddharmapuṇḍarīkasūtra), titolo che è di per sé sintesi di tutto l’insegnamento del Buddha ivi esposta. L’Illuminato è infatti ritratto spesso nella posizione del loto (padmasana) o seduto sopra una sua corolla. Innumerevoli sono poi le leggende indù che vedono il fiore protagonista, connesso a miti di creazione e di fertilità o, come nella religione dell’antico Egitto, all’idea di resurrezione anche per la capacità dei semi di vegetare dopo centinaia d’anni. 

Il loto compare inoltre in molte raffigurazioni nelle mani di Brahma, Vishnu, Shiva e altre divinità, e ad esse è offerto in dono. Così, di mano in mano, di offerta in offerta, ha accompagnato l’espansione della religiosità indiana in Cina, in Giappone e in tutta l’Asia orientale ed è stato immortalato in tali e tante opere poetiche che dura fatica la scelta. 

Vi propongo questa poesia di Tagore, originario di Calcutta (1861-1941) giusto per partire dalla culla della spiritualità orientale, che bene allude alla simbologia del loto:

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Il giorno in cui il loto fiorì,
ahimè, la mia mente vagava distratta
e non me ne accorsi.
Vuoto rimase il mio canestro,
il fiore rimase negletto.

Solo, di tanto in tanto,
scendeva in me la tristezza;
dal sonno mi destavo all’improvviso,
e sentivo la dolce traccia d’una strana
fragranza nel vento del sud.

Quella vaga dolcezza
mi faceva soffrire
e mi pareva che fosse
l’ardente soffio dell’estate
che cercava il suo compimento.

Allora non sapevo che era
tanto vicino, che era mio,
e che questa perfetta dolcezza
era sbocciata
nel profondo del mio stesso cuore.

Con un gran salto all’indietro temporale e spaziale, ecco due Note del guanciale di Sei Shōnagon (966-1025), la poetessa del periodo Heian, dama di compagnia alla corte dell’imperatrice Teishi, che con i suoi elenchi di cose piacevoli o sgradite, i suoi “mi piace” o “non mi piace”, ci ha consegnato un raffinato codice estetico. 

Nella postilla numero 34 stabilisce una giusta priorità:

Mi stavo recando al tempio dell’Illuminazione per ascoltare la predica degli otto giorni per il «ritorno della retta via», quando mi giunse il biglietto: «Torna presto, perché ho nostalgia di te». Allora, sul rovescio di una foglia di loto, vergai questa poesia:

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La rugiada sui fiori di loto, di cui vado in cerca,
potrò forse abbandonarla per ritornare nel mondo fluttuante?

La predica si rivelò preziosa e molto interessante, e così decisi di fermarmi al tempio, dimentica [...] del disappunto di chi m’attendeva a casa.

In quest’altra, la numero 66, ci ricorda perché il loto è fiore venerabile:

Il loto è la più nobile di tutte le piante: è infatti simbolo della «legge meravigliosa» del buddhismo e i suoi fiori sono offerti sugli altari a Buddha, mentre i frutti sono riuniti in rosari, che i fedeli sgranano ripetendo la preghiera della salvezza. È stupendo vederlo fiorire rosso nel mezzo di uno stagno verdeggiante, quando sulle rive non sono ancora sbocciati altri fiori: si comprende allora perché nelle poesie esso sia chiamato «rosso ventaglio».

Per provare un simile sentimento di meraviglia basta raggiungere i laghi che circondano Mantova o il lago di Comabbio in provincia di Varese. Tra luglio e agosto il loto è in piena fioritura e lo spettacolo offerto da quest’erbacea acquatica è imperdibile. Bella lo è in tutte le sue parti visibili: le ampie foglie a coppa, d’un verde glauco e ceroso su cui la pioggia scivola in perle, si innalzano sullo specchio d’acqua per parecchi centimetri su robusti piccioli; eretti al di sopra delle foglie, i fiori solitari profumano d’anice, hanno grandi corolle di petali ovali e concavi, tinti all’esterno di rosa sfumante nel porpora, più tenui, quasi bianchi nel verso interno, sono inseriti a spirale sul cono del vistoso ricettacolo circondato da gialli stami nei cui alveoli sono allogati tondi carpelli. I frutti, commestibili, sono nocule legnose ricche di fecola. Meno attraente è il rizoma che s’allunga nel fango, ma ha un sapore dolce, si può consumare crudo o cotto, e vi si si ottiene una farina digeribile dai diversi usi. 

Introdotta con sconsiderata leggerezza negli anni Venti del secolo scorso la pianta prolifera con non pochi danni al delicato ecosistema lacustre. A differenze delle popolazioni delle zone d’origine che del loto usano tutto – persino gli stami per aromatizzare il tè e le foglie come mense o involucro per i cibi – non pare che i lombardi l’abbiano apprezzato come risorsa alimentare. Ma oggi, che anche nelle cucine occidentali il rizoma di fior di loto è trendy e se non hai nel piatto almeno una rondella di renkon (così in giapponese) non sei à la page, qualche milanese intraprendente potrebbe controllarne l’espansione con un tornaconto economico.

Però, da qui a diventar dei lotofagi ce ne corre. Anche perché non si sa se il loto dell’oblio della mitica popolazione citata da Omero dell’Iliade (XI, 82-104) fosse proprio il Nelumbo nocifera. Più probabile che, secondo la descrizione di Erodoto, si trattasse del giuggiolo (Ziziphus vulgaris). Ad ogni modo il termine lotus nella nomenclatura scientifica designa pure l’albero di Sant’Andrea, il Diospyros lotus e, per giunta, il famoso botanico del Cinquecento Pietro Mattioli lo assegnò anche al Bagolaro (Celtis australis). Insomma, gran confusione sotto il cielo della botanica antica. Quel che è certo è che se mangiate del fior di loto non perderete la memoria, vi gioverà invece come antiemorragico e tonico renale.

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