Inconscio digitale: ovunque e da nessuna parte
“L’inconscio digitale inteso psicoanaliticamente non è in Internet, nei Social Media o nelle più o meno sicure ed affidabili banche dati delle Big Tech ma è dentro di noi ed opera secondo le stesse modalità del nostro tradizionale inconscio, inducendoci cioè a proiettare sul digitale, senza che ce ne rendiamo conto, le nostre emozioni più riposte, i nostri pensieri più inaccessibili e i nostri più inconfessabili desideri.” Così scrive Giuliano Castigliego in Inconscio digitale e sostenibilità. Per una psicopatologia della vita quotidiana digitale [Digital Transformation Institute, Roma 2023].
Quale sia l’utilità di un’analisi e di una definizione dell’inconscio digitale è il tema che attraversa tutto il libro: “Il concetto di “inconscio digitale” è, a mio avviso, un utile strumento interpretativo per comprendere meglio cosa avviene nei nostri scambi in Internet e sui social, per non cadere nella trappola moralistica della vergogna, dello svergognamento e della gogna mediatica ma anche per evitare di rimanere intrappolati in una maschera narcisistica appariscente e affascinante che però tradisce la nostra vera identità.”
Conoscere per governare, insomma, e cercare di rendere sostenibile una rivoluzione tecnologica che, come sempre, ma questa volta in maniera più intensa e pervasiva, attiva il gap tra tecnica e valori, tra quel che come umani produciamo, e la nostra capacità di utilizzarlo per noi e non contro di noi.
Ancora una volta possiamo constatare che il posto dove cercare è dentro noi, anche se continueremo ad esternalizzare, come fa chi sostiene che dentro noi non c’è nulla da cercare e che tutto è nelle cose, compresa la nostra mente che considera quelle cose [vedi Marco Trainito su R. Manzotti, S. Rossi, IO & IA. Mente, cervello & GPT, Rubbettino, 2023].
Albio Tibullo nel primo secolo si era posto il problema in modo chiaro:
“Chi fu il primo che inventò le spaventose armi? Da quel momento furono stragi, guerre. Si aprì la via più breve alla crudele morte. Il misero, tuttavia, non ne ha colpa. Siamo noi che usiamo malamente quel che egli ci diede per difenderci dalle feroci belve.” (An nihil ille miser meruit. Nos ad mala nostra vertimus, in saevas quod dedit ille feras) [Tibullo, Condanna della guerra ed elogio della pace I, 10, vv. 1-24].
Giuliano Castigliego cerca, con estensione di argomenti e vertici narrativi di particolare rilevanza, di comprendere perché procediamo così, soprattutto rispetto al nostro stesso pensiero e ai suoi prodotti tecnologici. Secondo l’autore è la melanconia un luogo dove guardare: “Il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia, indistruttibile […] L’esistenza umana, la vita dell’intelletto, significa un’esperienza di questa malinconia e la capacità vitale di superarla”. Si pone, col digitale e con l’incidenza che ha sulle nostre dimensioni inconsce, un esteso problema di sostenibilità. Riguarda in maniera particolare qualcosa che da sempre è presente nell’esperienza umana. Se le app, ad esempio, sono modi nuovi di fare cose molto vecchie, e se tra memoria e oblio si colloca una particolare forma di rimozione, quella digitale, a rendere particolarmente impegnativa la nostra capacità di fare i conti con le tecnologie digitali, e con l’angoscia che ce ne deriva, riguarda molto probabilmente il fatto che in questo caso sono in gioco fattori come il pensiero e il linguaggio. Ritenuti i vertici della distinzione umana, è per noi particolarmente inquietante avvertire che è messa in discussione la nostra unicità in ragione della quale ci siamo collocati sopra le parti nel processo evolutivo. Quel sentimento di perdita richiede un’elaborazione particolare che esige i suoi tempi. “L’erba, dice un proverbio tedesco, non cresce più alla svelta se la si tira”, scrive a un certo punto Giuliano Castigliego, affrontando i temi di una psicopatologia della vita quotidiana digitale sostenibile. Solo da un’adeguata elaborazione del nostro rapporto con il digitale e delle dinamiche del nostro mondo interno che emergono da quel rapporto, può scaturire un’emancipazione che ci porti a governare il digitale e a valorizzarne le potenzialità. Si tratta di una proposta verso la consapevolezza che attraversa tutto il libro. Questa consapevolezza spetta a noi, ci dice Castigliego. Tutti abbiamo la possibilità di svolgere una parte attiva nella trasformazione digitale in corso. Stefano Epifani sostiene che “la tecnologia digitale è forse lo strumento più potente del quale l’uomo disponga e l’alleato più importante per produrre un cambiamento positivo”. È però necessario che questo cambiamento venga accompagnato da “una consapevolezza che, da individuale, diventi condivisa e sociale e, da sociale, si trasformi in azione politica.” Quel che per ora rende particolarmente difficile la conquista di consapevolezza dipende dall’evidenza che la trasformazione digitale agisce sul senso delle cose, sulla percezione di valore da parte delle persone, sulle catene del valore di intere industrie. Non è un semplice cambiamento del modo in cui fare le cose, ridefinisce piuttosto cosa abbia senso fare e cosa, in un mutato scenario di contesto, non ha più senso. Abbiamo avuto presto evidenza dell’azione dell’inconscio digitale e dei suoi effetti, anche se la maggior parte di quegli effetti ci risulta difficilmente riconducibile a una spiegazione lineare. Il fenomeno del contagio emotivo di massa via social network, il fatto cioè che “gli stati emotivi possono essere trasmessi agli altri tramite contagio emotivo inducendo le persone a provare le stesse emozioni senza averne consapevolezza” e senza bisogno di contatto personale, mostra che il contagio emotivo sociale offline e online è di fondamentale importanza non solo e non tanto per comportamenti da stadio, ma soprattutto per complessi fenomeni di adattamento, aggregazione e omologazione di massa dalle conseguenze spesso drammatiche.
Non solo la dimensione pubblica delle nostre vite è trasformata anche a livello inconscio, ma anche il rapporto di ognuna/o di noi con sé stessa/o. La rivoluzione digitale cambia radicalmente anche la condizione dello stare solo e dunque il suo senso. Avvalendosi di un’analisi del pensiero di Pascal, Castigliego indaga questa dimensione. Secondo Pascal: “Gli uomini, non avendo potuto sanare la morte, la miseria, l’ignoranza, per rendersi felici hanno escogitato di non pensarci”. Di fronte però all’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale pare che nulla ci possa consolare, nemmeno il digitale. Esso si aggiunge solo con poderosa capacità tecnologica e pervasività psicologica agli altri svariati mezzi che il genere umano ha già individuato per non pensare alla nostra “condizione debole e mortale” e fuggire da noi stessi. Attraverso queste dinamiche proiettive e difensive, nel nostro rapporto con il digitale entrano in gioco le nostre emozioni.
Da manifestazioni biopsichiche dei nostri corpi in relazione ai contesti della nostra vita, le emozioni non possono non emergere ed essere a loro volta influenzate dal digitale. Come opportunamente sostiene Castigliego: “La prima domanda da porci non è dunque se le emozioni permeino o meno il digitale ma se ne siamo consapevoli, tanto di quelle che percepiamo quanto di quelle che suscitiamo. La risposta potrebbe sembrare scontata ma non lo è.” La nostra vita onlife è permeata dalle emozioni come ogni altra esperienza di vita, ma come accade tutto questo? Se abbiamo conosciuto l’impegno e l’angoscia dell’attesa, che esigeva un ascolto e un controllo delle emozioni, oggi l’eccitazione di narrare noi stessi, congiunta all’accelerazione insita nel networking, ci inducono all’azione irriflessa, tanto che la sospirata viralità del messaggio è l’esatto contrario della riflessione meditata. Presi dall’eccitante desiderio di raccontare agli altri noi stessi, la nostra vita, le nostre opinioni, le nostre passioni, rischiamo di non ascoltare, né tanto meno comprendere, non solo le parole altrui, ma anche le nostre emozioni più profonde e più vere. È senz’altro positivo che le emozioni vengano oggi espresse onlife in modo molto più aperto che in passato, secondo Castigliego. Il rischio è tuttavia quello di comunicare le emozioni ancor prima di averle percepite e soprattutto comprese.
Il che non vuole affatto dire che non sia possibile percepire ed esprimere consapevolmente le nostre emozioni e i nostri sentimenti sui social network. Il sito HONY60 Humans of New York rappresenta anzi un ottimo esempio di come la narrazione della propria storia per immagini e parole sui social media abbia consentito di promuovere comportamenti funzionali al processo di riconoscimento e di comprensione delle emozioni altrui, all’alfabetizzazione emotiva appunto. Il suo autore, Brendon Stanton, ha deciso di fare un censimento fotografico di New York, ha chiesto ai passanti di poterli fotografare, ha pubblicato le foto organizzandole secondo i quartieri e accanto ad ognuna ha postato una didascalia con uno stralcio della conversazione avuta con il soggetto della fotografia. Il problema che rende difficile il rapporto con le nostre e le altrui emozioni non riguarda dunque i social ma la mancata consapevolezza delle emozioni stesse. Ciò accade non solo per la ricerca dell’altro, ma anche per l’odio nei confronti dell’altro. Castigliego riporta opportunamente gli esiti di uno studio Unesco sull’odio onlife. Nel “Countering Online Hate Speech” [2015], infatti, l’Unesco individua quattro differenze sostanziali tra l’odio offline e l’odio online. La prima è la permanenza dell’odio online, ossia la possibilità che “rimanga “attivo” per lunghi periodi di tempo e in diversi formati. La seconda differenza è il ritorno imprevedibile delle espressioni di odio che, anche se sono rimosse da un luogo possono riapparire altrove. La terza differenza è l’importanza che assume online l’anonimato: di per sé un diritto che consente in certe condizioni di fare emergere verità che, chi si trova in condizioni di svantaggio, potrebbe aver timore di comunicare, l’uso di pseudonimi e nomi falsi possono rendere le persone meno consapevoli del valore delle proprie parole e ingenerare più o meno fondate aspettative di irresponsabilità e impunità. La quarta differenza è la transnazionalità, che aumenta l’effetto dell’hate speech e rende più complicato individuare i meccanismi legali per combatterlo. È necessario, quindi, tenere conto del livello di propagazione del contagio, fino a esiti che si propongono incontrollabili. Come accade anche nell’amore, ad essere cercata è comunque la fisicità, seppur mediante le incertezze delle emozioni. Non solo le emozioni, ma anche la memoria, l’oblio e la fantasia, sono passati al vaglio della speculazione di Castigliego, fino a creare una mappa estesa degli ambiti in cui il digitale diviene pervasivo, agendo sia a livello consapevole che inconscio.
In realtà, quello che abbiamo fatto è stato portare con noi sul nuovo continente digitale il nostro inconscio, che ha trovato in questa terra di confine onlife, tra sogno e realtà, fertile terreno di coltura. Sul digitale abbiamo riversato tutte le nostre proiezioni, di purificazione e redenzione ma anche di piacere e di aggressività, così che da paradiso terrestre il digitale è divenuto un nuovo paradiso perduto, sul quale non abbiamo più il controllo – ammesso e non concesso che all’inizio l’avessimo mai avuto. “Non solo “l’Io non è padrone in casa propria” come ci aveva dolorosamente rivelato Freud più di cento anni fa e come le neuroscienze oggi ci confermano”, scrive Castigliego, “ma non lo è più nemmeno nel digitale, la sua creazione per antonomasia, che è andata incontro a una progressiva, inconsapevole trasformazione, quella che dal porre al centro il contenuto è passata a porre al centro la relazione. Si potrebbe affermare che così come i blog stanno al contenuto i social network site stanno alla relazione”.
Il digitale ha accolto dunque le nostre speranze di pura razionalità e le nostre fantasie di onnipotenza ma è anche divenuto ricettacolo dei nostri impulsi e delle nostre angosce, propagatore di quelle tendenze alla chiusura ideologica, al riduzionismo e alla disinformazione (post truth) che era nato per combattere. Sarebbe d’altro canto singolare che la creazione (il digitale) non rispecchiasse le caratteristiche del suo creatore (l’essere umano). Anziché gridare allo scandalo e addossare al digitale ogni sorta di mali (ci renderebbe stupidi, immemori, schiavi etc.) è più opportuno sottoporre il digitale a un’analisi critica che si avvalga anche dei concetti psicoanalitici per meglio comprendere quanto i nostri impulsi e le nostre emozioni influenzano il nostro rapporto con il digitale stesso e viceversa. Per questo appare legittimo e quanto mai utile parlare di inconscio digitale in senso psicoanalitico, precisando peraltro che l’inconscio continua ad operare dentro di noi anche se ha trovato nel digitale un ulteriore ambito di espressione accanto al sogno, agli atti mancati e ai sintomi. Anziché attribuire le distorsioni del digitale alla malevolenza dei cattivi di turno (che certo non mancano) si tratta di scrivere, insieme, una nuova psicopatologia della vita quotidiana digitale che ci aiuti a comprendere meglio il nostro rapporto con il digitale. In un’accezione di inconscio forse più junghiana, l’inconscio digitale potrebbe indicare tutte le proiezioni collettive che riversiamo sul digitale e che a loro volta influenzano il nostro quotidiano. Nel nostro rapporto onlife con il digitale entriamo infatti in contatto con parti consce ma anche inconsce nostre e altrui (individuali e collettive) che a loro volta esercitano una maggiore o minore influenza su di noi. A seconda della sintonia che riusciamo a percepire e ad instaurare con queste parti riceviamo anche minori o maggiori stimoli non solo cognitivi ma anche emozionali che possono tradursi in nuove modalità d’approccio al mondo e a noi stessi. “La trasformazione digitale non si limita ad agire a livello di processo, ma agisce letteralmente a livello di senso: ha il potere, infatti, di cambiare il senso delle cose. Una vera e propria rivoluzione di senso che basandosi sulla mutata percezione del concetto di valore […] produce un cambiamento profondo in ogni aspetto della vita”, come sostiene Stefano Epifani in Sostenibilità digitale.