Influencer: l’industria dell’autenticità

20 Giugno 2024

Quel mostro del tennis che è Jannik Sinner, fra i pochi eroi positivi del nostro tempo, è un perfetto prototipo dell’italianità contemporanea. Funziona per rovesciamenti. Innanzitutto, ha un nome non tradizionalmente italiano, dunque una provenienza geografica di confine, con tutti gli annessi e i connessi dell’essere ai bordi, costitutivamente ibrido (come del resto chi coordina il principale partito d’opposizione nel nostro Paese). L’Italia c’è se sta al limite. In secondo luogo, è l’italiano anti-italiano per eccellenza quanto a carattere e personalità: il suo viso non lascia trasparire una benché minima emozione, se sta perdendo ha la faccia di bronzo, se sta vincendo idem. Un bravo ragazzo di provincia che esibisce il suo essere meccanismo perfettamente oliato, potente, implacabile, vincente sempre e comunque. L’opposto simmetrico di quel che era qualche decennio fa quel fustone di Adriano Panatta: fosco, ondivago, bravo ma perennemente in bilico fra la terra e il cielo, il bel gesto sportivo e il lasciarsi andare agli astratti furori del loser locale. Come se non bastasse, non sarà un caso se Jannik Sinner, questo ragazzone bianchissimo di carnagione e rossiccio di capelli, sia stato assoldato come testimonial di una nota marca di pasta. Italia uguale pasta, si sa. Ma qui non si capisce bene se è Sinner a testimoniarlo o, viceversa, se è la pasta ad attestare la (comunque) perfetta italianità dello sportivo.

Forse, a essere in crisi in questa vicenda non è né Sinner né la pasta ma ciò che li tiene, in quell’euforico annuncio, dubbiamente insieme: ossia la categoria del testimonial, figura che si contende il trono della comunicazione promozionale con tutta una serie di protagonisti ormai non più emergenti ma perfettamente consolidati nei media vecchi e, soprattutto, nuovi: l’opinion leader, il trend setter, il creator digitale, lo status symbol, il blogger, l’influencer e tutti quei personaggi pubblici che agiscono nei media, ma anche off line, determinando forme di imitazione del proprio atteggiamento, e in particolare del comportamento d’acquisto. Come dice la sociologa americana Emily Hund in un bel libro appena tradotto da Einaudi (L’industria degli influencer, pp. 237, € 22) il valore primario su cui tutti costoro fondano la loro fortuna, o quanto meno provano a farlo, è quello dell’autenticità, della veridicità delle loro condotte, di una specie di sincerità intrinseca a partire da cui catturare masse di seguaci, come dire numeri sempre più alti di follower adoranti. 

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“L’industria degli influencer – scrive Emily Hund – è un ecosistema complesso, che comprende gli influencer e coloro che aspirano a diventarlo, gli operatori del marketing e i tecnologi, i marchi e gli sponsor, le aziende di social media e una serie di altri soggetti, tra cui i talent manager e i cacciatori di tendenze”. Tutti, pur con differenti obiettivi e competenze, mirano alla stessa cosa: costruire socialmente l’autenticità, qualsiasi cosa questa parola voglia dire. Il significato del termine cambia, e anche con una certa frequenza. Quel che resta fisso è il suo valore sociale, per non dire economico. Non è un caso che il web, anche soltanto a una prima occhiata, sia zeppo di pagine che spiegano come si fa a diventare influencer, istruzioni per l’uso sapiente di una veridicità tanto artificiale quanto pagante.

L’essere fedeli a se stessi diviene un imperativo categorico che è un asset strategico, dove quel che conta è che a questa autenticità si creda e non che sia effettivamente tale. L’influencer è un personaggio perfettamente costruito per sembrare non costruito, un autentico per mestiere che deve meticolosamente cancellare il lavoro necessario a produrlo. Riuscendo altresì, cosa tanto complessa quanto stressante, a mantenere costante nel tempo la sua figura di puro, tanto perfetto agli occhi dei più quanto impuro a quelli della mamma. Uno stile di vita pianificato alla perfezione. In tal modo, quale che sia la piattaforma mediatica adoperata per donarsi ai propri follower, a lavorare è alla fin fine il medium più antico del mondo, che è, come spesso si dimentica, il passaparola, la leggenda post-metropolitana. In fondo, potrebbe dire il solito bonaccione, siamo tutti un po’ influencer e siamo tutti variamente influenzati da qualcun altro: ottimo modo per confondere tutto con tutto, finendo per legittimare, e naturalizzare ciò che, magari, sarebbe il caso di comprendere un po’ meglio.

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Ugo Tognazzi, spot panna Chef, 1980.

Proviamo a fare delle distinzioni. E torniamo al testimonial, spesso inteso come una specie di antenato dell’influencer, anche se, a veder meglio, forse è proprio il suo opposto dialettico. Il testimonial è come si sa un mezzuccio, un ripiego che si adopera quando nella pubblicità mancano buone idee. È qualcuno, famoso di per sé, che dona (si fa per dire) la propria notorietà al prodotto, attestandone l’infinita bontà e la convenienza. Una versione degradata dell’argomento d’autorità: ipse dixit dunque compro. Fra i primi testimonial c’è stato in Italia Benito Mussolini: preso il potere prestò il faccione per l’annuncio di un amaro che celebrava la marcia su Roma, e più volte si erse a garante di questo o quell’italico prodotto. Per non parlare di Marinetti e dei suoi poemi industriali, che prestò la sua dichiarazione assassina sul chiaro di luna a un’azienda tedesca di lampadine. Sino ad arrivare a un altro ventennio tutto italiano, quello di Carosello, dove le restrizioni di legge sulla pubblicità hanno indirettamente affinato la tecnica del testimonial: i vari Tognazzi, Vianello, Chiari, Campanini, Dapporto, Arigliano, Cerri, Mina, Morandi si esibivano in scenette più o meno spiritose lasciando al cosiddetto codino il compito prosaico di reclamizzare il prodotto di turno. E quando l’aggressività degli spot della neotelevisione ha mandato in soffitta la scenetta caroselliana, il testimonial non è affatto sparito, pronto a riempire ogni carenza di creatività, e magari pigiando il facile pedale dell’erotismo: come quando una marca di calze è ricorsa alla gambe nostrane della Oxa o alla seduzione già globalizzata della Basinger.

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Sophia Loren, spot Parmacotto (1992).

Così, il mondo della pubblicità è stracolmo di testimonial d’ogni tipo. Attori, cantanti, soubrette, presentatori, veline, calciatori e sportivi vari, protagonisti di reality show, uomini politici si prestano a reclamizzare questo o quel prodotto, senza tema di cadere nel ridicolo, e godendo del surplus di celebrità che la pubblicità attribuisce loro. Il rischio, per le aziende, è sempre lo stesso: quello del vampirismo, che fa sparire dalla memoria il prodotto a tutto vantaggio di chi lo pubblicizza. Ricordiamo ancora la Loren che con dubbio gusto urlava “Accattetivillo!”. Ma cosa voleva venderci? È rimasto impresso nella mente “Oui, je suis Catherine Denevue”, ma di che cosa si trattava? Con buona pace dello star system, che, fuor di paradosso, usa beni e servizi come testimonial dei personaggi di spettacolo che deve promuovere. Da cui tutta una serie di trovate, come il testimonial reciproco (Michael Jordan e Nike), il proprietario d’azienda che diviene testimonial di se stesso (Rana), il testimonial anonimo che racconta le proprie esperienze di consumo, perfino il testimonial oggetto (come la lampada Arco nella pubblicità del design). Quel che resta costante è l’idea della dimostrazione, della documentazione, della prova, non dunque dell’autenticità ma dell’autentificazione.

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Gli influencer sono imparagonabili. Laddove il testimonial è un personaggio che traghetta la propria notorietà su qualcos’altro, l’influencer è – o per meglio dire si presenta come – una persona che non traghetta proprio nulla e che anzi pone se stesso come prova tautologica di se stesso. Così, se il testimonial è un segno (cioè una cosa che sta per un’altra), l’influencer non rinvia a nulla, non è un segno ma direttamente una cosa, dunque un segno che nega di esserlo per presentarsi come cosa. Ancora: se il testimonial fa pubblicità, l’influencer si limita a vivere e a consumare, proponendosi come modello esemplare di un vissuto che non lo trascende. Laddove il testimonial è un professionista che si diletta, l’influencer è un dilettante per professione. Insomma: se il testimonial parla in nome di un brand, l’influencer è lui stesso un brand, una marca che, semmai, fa cobranding. Fra Supreme che marchia Gucci e la Ferragni che marchia Balocco non c’è alcuna differenza formale.

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Da qui tutta la questione, alquanto delicata, dell’influenzare. Che ricorda molto la vecchia storia delle manipolazioni occulte, ma che forse è soltanto una specie di degradazione della figura mitica dell’eroe che, al di sopra dei comuni mortali, funziona come icona da imitare alla meno peggio. Una degradazione che, ovviamente, trova riscontro e amplificazione nei social, luogo dove, come spiega un’altra sociologia, Gabriella Taddeo, in un testo recente (Social. L’industria delle relazioni, Einaudi, pp. 206, € 21), l’importanza di essere unici equivale a quella di essere come tutti – a partire da una generica empatia tanto sfuggente quanto pericolosa. Così, la figura dell’influencer ha senso se e solo se la si inserisce in una rete complessa di rapporti entro cui si crea qualcosa come una fiducia, ovvero una fede. Catturato il pubblico per via mistica tutto diviene possibile: l’influenza si estende a dismisura, andando ben oltre il mondo del marketing e dei consumi per investire idee e valori, visioni del mondo e stili di vita. E accade che droga, sesso e rock’n roll, prima spensierata farsa, ritornino con le vesti di una cupa tragedia. Evviva Jannik Sinner.

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