Io, Calvino e il fantastico (con una lettera inedita)

5 Settembre 2023

Si può sentirsi orfani a vent’anni. No, non dei propri genitori. Perché mamma Novella e papà Renato, alla fine degli anni Settanta, stavano ancora benone. E giravano per casa accompagnati dal loro codazzo di brontolii, suggerimenti, reprimende, da elargire al figlio.

Io, quando ho iniziato a lavorare alla mia tesi di laurea, mi sentivo orfano di altre persone. Soprattutto di due tra gli scrittori che amavo di più, e che non ero mai riuscito a incontrare di persona. Anche perché Dino Buzzati era morto in una livida giornata milanese il 28 gennaio del 1972; Tommaso Landolfi pochi anni dopo: l’8 luglio del 1979. Proprio mentre stavo abbozzando l’introduzione critica del mio ponderoso elaborato universitario. Che, alla fine, avrebbe contato 442 pagine.

Insomma, mi ero ritrovato orfano di Buzzati e Landolfi proprio quando dovevo discutere con il relatore della tesi, il professor Giuseppe Petronio, famoso storico della letteratura italiana e autore di un manuale usatissimo nelle scuole e nelle università come L’attività letteraria in Italia, se avesse senso dedicare almeno tre anni di lavoro al percorso critico e storico che gli avevo proposto, sotto il titolo Aspetti del fantastico nella letteratura italiana del Novecento: Buzzati, Landolfi, Calvino.

“Che problema c’è – mi dicevano gli amici – ti restano i libri. Anche se Buzzati e Landolfi non ci sono più, devi basarti su quello che hanno scritto”. Avrei dovuto accontentarmi delle loro opere, delle parole, dello sguardo personalissimo e immaginifico che li aveva portati a trasfigurare la realtà in tante pagine letterarie. 

In fondo, lo diceva Marcel Proust, “i dati della vita non contano per l’artista, non sono per lui che un’occasione di mettere a nudo il suo genio”.

Tutto vero. Ma dentro di me, già allora, cresceva la curiosità di sbirciare “sotto ‘l velame de li versi strani”, come cantava Dante nel suo Purgatorio. Non mi accontentavo, insomma, di quello che stava dentro i libri, i saggi, le dichiarazioni di poetica. Io sognavo di fare come Yves Panafieu, lo studioso francese che aveva trascorso pomeriggi interi a interrogare, ascoltare, sollecitare Buzzati. E che, poi, aveva messo assieme quello straordinario, fluviale libro-intervista che è Dino Buzzati: un autoritratto pubblicato da Mondadori nel 1973 e, purtroppo, mai più ristampato.

Avrei voluto bombardare di domande i miei due spiriti guida letterari. Attraversare la loro vita, le opere scritte, passandole al setaccio con i denti strettissimi del pettine che si usa per controllare se tra i capelli dei bambini si annidano pidocchi. Mi sarebbe piaciuto ascoltarli mentre negavano la possibilità di rinchiudere la narrativa fantastica, il genere letterario più anarcoide in assoluto, dentro le categorie rigide, e per me inefficaci, che Tzvetan Todorov aveva dettato nel suo saggio La letteratura fantastica (Garzanti 1977).

E allora? Mi restava soltanto Italo Calvino, che proprio nel 1979 aveva appena pubblicato con Einaudi lo straordinario romanzo intitolato Se una notte d’inverno un viaggiatore (Einaudi). Un labirintico viaggio nelle infinite possibilità della letteratura che Petronio stesso mi aveva persuaso a non etichettare come opera postmoderna. Dal momento che “se la modernità siamo noi, che la stiamo ancora attraversando, come possiamo accettare il concetto che qualche scrittore sia già ‘post’ rispetto al nostro tempo?”.

Il mio relatore e maestro non era favorevole al fatto che io provassi a scrivere una lettera a Calvino. “C’è già così tanto materiale su cui lavorare”, ripeteva. Assecondando, con quelle parole, la mia timidezza e la ritrosia a far perdere tempo a uno scrittore famoso. E sempre impegnato in mille progetti.

Però, Calvino era l’autore che aveva riempito la mia adolescenza di storie e sogni con le Fiabe italiane, la trilogia dei Nostri antenati, Marcovaldo. E che negli anni dei turbamenti ideologici, trascorsi al Liceo classico “Francesco Petrarca” di Trieste, mi aveva insegnato come la letteratura può ribellarsi, ragionando, a una società che si ostina a non vedere La nuvola di smog, a non fermare La speculazione edilizia. E che chiude gli occhi davanti ai meschini maneggi elettorali raccontati nella Giornata di uno scrutatore.

Lo sentivo vicinissimo, Calvino, quasi un amico conosciuto tramite i libri. Troppo forte era la tentazione di scrivergli. Così, cercando di tenere a bada l’emozione, decisi il 18 novembre 1980 di inviargli in via Umberto Biancamano 1 a Torino, sede della casa editrice Einaudi, poche righe in cui gli raccontavo della mia tesi e gli chiedevo cosa pensasse della letteratura fantastica. 

A dire il vero, non ero riuscito a trattenermi dal bombardarlo di domande. Come, ad esempio, se ancora condividesse le parole messe a punto in quel piccolo saggio intitolato Definizioni di territorio: il fantastico” pubblicato in francese su “Le Monde” il 15 agosto 1970. E poi ripreso, in italiano, nel volume Una pietra sopra (Einaudi, 1980).

Non mi aspettavo nessuna risposta. 

Infatti, dopo un paio di settimane, nella cassetta della posta non c’era ancora niente. 

Alla fine di dicembre, di ritorno a casa dall’università, una busta stava ad aspettarmi sul tavolo della cameretta. Conteneva una lettera, che non avevo coraggio di leggere, spedita da via Biancamano 1 a Torino, mentre la voce della mamma mi incalzava: “Ti ha risposto Calvino?”.

Quella piccola missiva, oggi, è pubblicata nel volume delle “Lettere” di Italo Calvino raccolte in un volume dei Meridiani (Mondadori, 2000), a cura di Luca Baranelli. 

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Lo so, è scontato e pure retorico dirlo, ma io mi emoziono sempre a rileggerla: “Caro Mezzena, ricevo la sua del 18 novembre. Non ho tempo di tornare su quell’intervista. Per una tesi di laurea bisogna lavorare su quel che c’è di edito, senza aggiungere altra carta alla molta già in circolazione. Per l’ultima domanda: un mio articolo su Buzzati è uscito il 1° novembre scorso su ‘la Repubblica’. Su Landolfi non ricordo di avere pubblicato nulla, ma lo apprezzo moltissimo ed ero suo amico. Cordialmente e con molti auguri, Italo Calvino”.

Aveva ragione Petronio: per una tesi di laurea bisogna lavorare su quel che c’è di edito. Eppure, le parole di Calvino avevano spalancato davanti a me traiettorie interessantissime. 

L’autore delle Città invisibili, infatti, ammetteva quanto Buzzati fosse stato importante nel suo percorso letterario. In “Quel deserto che ho attraversato anch’io”, pubblicato su “la Repubblica”, confessava: “Ero nell’età in cui Poe regnava nel mio Pantheon (e forse non è stato mai detronizzato) così come aveva regnato in quello di Buzzati; e Buzzati indicava che la strada di Poe la si poteva ritrovare lì a due passi, così come Poe m’apriva dietro a Buzzati prospettive dilatate. Devo dire che lo stampo dei racconti buzzatiani, preciso come un meccanismo che si tende dal principio alla fine in crescendo d’attesa, di premonizioni, d’angoscia, di paura, diventando un crescendo d’irrealtà, diede forma al mio modo di concepire una narrazione. Tanto che quando appena finita la guerra mi misi a scrivere storie che passavano per neorealiste, era l’insorgere d’angoscia, di paura, d’irrealtà delle situazioni buzzatiane che operava in me come modelli. In seguito scrittori più problematici e più densi di coscienza intellettuale ebbero su di me un ascendente che sembrava mettere in ombra quella prima lezione, ma si trattava d’altro tipo di influenze”.

Mi sembrava di sognare. Io, giovane laureando, avevo proposto una tesi di laurea indicando tre autori che mi sembravano viaggiare su traiettorie personalissime. Eppure riconoscevo in loro uno stigma, una cifra comune, che li portava a sfondare gli angusti confini del reale per immaginare un altrove. 

E adesso? Calvino stesso rivelava che tra i suoi punti di riferimento c’era stato sicuramente Buzzati. Che avevano un antenato letterario in comune: quel gran genio di Edgar Allan Poe. E che dietro il romanzo di debutto Il sentiero dei nidi di ragno, dietro i racconti di Ultimo viene il corvo, a leggerli bene, si può scorgere l’ombra dello scrittore nato a San Pellegrino di Belluno.

Per quanto riguarda Landolfi, poi, parlava di amicizia e di grande apprezzamento per quello che aveva scritto. Così, tre anni più tardi, decisi di approfondire quel legame tra i due scrittori inviando a Calvino un’altra lettera. 

Era il 1983, avevo iniziato a collaborare con il quotidiano “Il Piccolo”, dove poi sarei stato assunto come praticante giornalista nel febbraio del 1985. Ventidue mesi dopo ero già professionista.

Mi era arrivata voce che Calvino stesse lavorando a un volume-omaggio dedicato a Landolfi. Lui, sempre da via Biancamano, rispose rapidissimo il 13 ottobre con questa lettera autografa, che è rimasta inedita: “Egregio Dottor Mezzena Lona, ricevo la sua del 10. La segnalazione che Lei ha ricevuto è un curioso caso di deformazione del messaggio. Il volume che Rizzoli deve pubblicare è ‘Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino’. Quanto a ‘Parole in agitazione’ è il titolo d’un pezzo di Landolfi che in un primo momento la casa Rizzoli proponeva come titolo del volume. Per ogni altra informazione, più che a me è meglio che Lei si rivolga all’ufficio stampa della Rizzoli. Credo che il libro deva uscire entro l’anno. Cordialmente suo Italo Calvino”.

Nella nota finale all’antologia edita da Rizzoli, intitolata “L’esattezza e il caso”, Calvino dichiarava tutta la sua ammirazione per “l’agilità, il brio, la ricchezza senza pari delle risorse verbali” di Landolfi, “tali da garantirgli una scrittura comunicativa al massimo grado” che non poteva non “catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore”.

Era, questo delle Più belle pagine, il tentativo di scrollare di dosso allo scrittore di Pico Farnese la fama di “autore per pochi”. Nonostante lo sforzo di Calvino, però, soltanto parecchi anni dopo il Landolfi di libri preziosi e sulfurei, come Dialogo dei massimi sistemi e Racconto d’autunno, avrebbe incontrato una stagione di tardivi e meritatissimi successi entrando a far parte delle collane Adelphi.

Ogni storia che si rispetti nasconde in sé un piccolo mistero. Così, a ripensarci, ricordo bene che alla prima lettera di risposta inviatami da Calvino era acclusa una nota, che non riesco più a trovare, in cui lo scrittore indicava alcuni romanzi che secondo lui, in quel preciso momento, potevano risultare paradigmatici delle diverse anime del fantastico. 

Sono sicuro di non sbagliare. Erano Flatlandia (tradotto da Masolino D’Amico nel 1966 per Adelphi, accompagnato da un testo di Giorgio Manganelli) del narratore e teologo britannico Edwin Abbott Abbott, che Calvino definiva “un romanzo dell’Ottocento di fanta-geometria”; il pirotecnico capolavoro di Bruno Schulz Le botteghe color cannella, che Calvino stesso aveva accompagnato nell’edizione Einaudi del 1970 (con traduzione di Anna Vivanti Salmon e uno strepitoso saggio introduttivo di Angelo Maria Ripellino), scrivendo una nota sul retro di copertina; infine, la raccolta di racconti Nessuno accendeva le lampade dell’uruguaiano Felisberto Hernández (Einaudi 1974; poi La Nuova Frontiera 2012). Un misterioso gioiello letterario in cui convivono bambole troppo umane, pianisti squattrinati come l’autore stesso e personaggi che cercano il proprio io nell’oscurità del mistero di vivere.

Adesso mi chiedo: è mai esistita quella nota di Calvino? Oppure la memoria mi sta tradendo e io confondo la lettera dello scrittore con quanto lui pubblicò su “Le Monde”? E se tutta questa mia elucubrazione fosse semplicemente una storia in cui si cerca e ci si perde come nel finale di Il castello dei destini incrociati?

Vero è che, io, Abbott, Schulz e Hernández li ho scoperti, letti, amati, grazie a Calvino. E anche per questo, non smetterò mai di essergli grato.

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