Ivo Andrić, girovago con il passaporto falso

9 Ottobre 2022

“Il volto sotto la maschera è un volto meraviglioso, il suo rango è molto più elevato di quanto è scritto sul passaporto, ma a che serve? Gli uomini non amano il suo continuo esitare né il suo mascherarsi e lo considerano sospetto e ambiguo. E una volta nato, il dubbio non conosce limiti”.

Ivo Andrić affida a un monologo di Goya sull’arte e il destino umano la sua visione poetica e il suo procedimento creativo, paragona l’abilità ritrattistica del pittore a quella dello scrittore, entrambi capaci di eseguire l’“operazione diabolica: estrapolare il personaggio da tutto quanto lo circonda e lo lega agli uomini e all’ambiente”. In Conversazione con Goya (contenuto nel Meridiano Mondadori curato da Dunja Badnjević e Predrag Matvejević), un testo del 1935, Andrić si identifica con il lato oscuro della visione di Goya, lo sente affine perché anche lui conosce “la paura della paura”.

Diplomatico a Madrid, una delle sedi che più ha amato, lo scrittore diffidente e solitario, quasi un personaggio delle spy story di Eric Ambler, si recava regolarmente al Museo del Prado per studiare il pittore spagnolo celebrato a cent’anni dalla sua morte, nel 1928, da una mostra che dura sei mesi.

Questo e molto altro ci racconta la biografia, fondata su raccolte di testimonianze e ricerche infinite negli archivi, che gli ha dedicato lo studioso tedesco Michael Martens, esperto dei Balcani, in Im Brand der Welten. Ein europäisches lebenNell’incendio dei mondi. Una vita europea (2019). La vita e l’opera di Ivo Andrić (1892-1975) è raccontata attraverso i documenti, il suo ruolo pubblico e la sua dimensione privata, sempre estranei e lontani l’uno dall’altro, sono collocati all’interno della sua epoca storica. Un’obiettività che la figura dello scrittore bosniaco non ha mai conosciuto, né durante la sua esistenza né tantomeno post mortem. Anche per questo il libro di Martens, tradotto e pubblicato a Zagabria, Belgrado e Sarajevo, è stato oggetto, in ognuna delle tre capitali, di numerose seppur differenti critiche. Andrić “reale” non interessa, lo schieramento nazionalista, come scrive Miljenko Jergović nella postfazione al libro, ne ha fatto “l’archetipo del nemico, una figura satanica”, come se le sue pagine fossero colpevoli della violenza passata e futura della storia bosniaca. Certo, durante il conflitto degli anni Novanta, per chi non conosceva quel mondo, leggere Il ponte sulla Drina è stato un modo per scoprirlo. E il valore simbolico dei luoghi narrati da Andrić si tramanda ancora (cfr. Un tetto e due scuole. Memorie jugoslave di Andrea Caria, in uscita per tab edizioni). 

L’infanzia di Andrić, tra Travnik e Višegrad, è definita dal bisogno e dalla miseria, da una situazione famigliare precaria (la diffamazione è arrivata a mettere in dubbio la data di nascita del 9 ottobre e il padre biologico). In questa regione, attribuita agli Asburgo al congresso di Berlino nel 1878, dopo quattro secoli di dominio ottomano, il passato turco è ancora vivo. Le componenti serba, bosniaca e croata hanno percentuali storicamente variabili, ma nessuna è in maggioranza – e sarà così fino a oggi. È questo il paesaggio, linguisticamente misto e sincretico religiosamente, che circonda Andrić bambino. Le canzoni, tradizioni e leggende con le quali è cresciuto saranno il materiale per i suoi romanzi e racconti. Come scrive Mertens, Andrić trasformerà la Bosnia in parole. 

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Qualcosa delle sue difficili origini ritorna in Litigando con il mondo, (a cura di Božidar Stanišić, trad. di Alice Parmeggiani, Bottega Errante 2012), i cui protagonisti sono bambini e adolescenti: “Si tratta di quei piccoli, invisibili, ma fatali, avvenimenti che spesso spezzano le anime di quei piccoli uomini che noi chiamiamo bambini, e che gli adulti assorti nelle loro preoccupazioni, hanno superato così facilmente o non hanno assolutamente notato”.

La descrizione della paura si presenta come una confessione. “Si tratta della paura infantile, che – a seconda di come sia stato il primo contatto di un bambino con la società e le sue leggi – negli anni successivi, con lo sviluppo intellettivo e una corretta educazione, svanisce, oppure, al contrario gli rimane dentro, cresce assieme a lui, gli riempie, gli spezza e gli annienta l’anima, avvelena la sua vita come una malattia nascosta e un grave peso”.

A Sarajevo, insieme a tutta la sua generazione, Andrić partecipa alle proteste contro la monarchia, è un militante dell’associazione progressista serbo-croata, allo scoppio della guerra verrà arrestato (cfr. Destini incrociati/ Da Sarajevo a Sarajevo in doppiozero del 3 settembre 2019). Rimarrà legato all’ideale di un’unione degli slavi del sud, sarà un servitore devoto e fedele, nella prima Jugoslavia come diplomatico, nella seconda come intellettuale pubblico. Lo spazio comune jugoslavo, per quanto imperfetto nell’equilibro instabile tra i suoi centri e le sue periferie, gli appare comunque una soluzione politica migliore di altre. Ha sempre evitato schieramenti e proteste: le ingiustizie sono finite nei suoi libri. Non doveva perdere tempo, voleva poter continuare a scrivere ed essere pubblicato. 

Martens ricostruisce in modo dettagliato la sua carriera diplomatica, dove “la vita è folle, immorale e di poco buon gusto”, che tra le due guerre lo porterà in giro per l’Europa. Nel 1939 la sua figura ha un ruolo fondamentale nella trattativa sul filo del rasoio tra la Germania di Hitler e il Regno di Jugoslavia. Ivo Andrić è ancora a Berlino a sostenere la neutralità del suo paese, quando a Belgrado i manifestanti scandiscono “meglio la guerra che il patto” e un colpo di stato rovescia le alleanze favorevoli ai tedeschi che iniziano bombardamenti punitivi su Belgrado. Cercherà di salvare il personale dell’ambasciata, ma molti finiranno nelle mani della Gestapo. Per sé rifiuterà il viaggio nella sicura Svizzera e deciderà di tornare a Belgrado, un gesto che gli renderà possibile la conversione, nella Jugoslavia di Tito, nel compagno Ivo. Ma nei suoi appunti su quel periodo, durante il quale ebbe scambi con Ernst Jünger e Carl Schmitt, confessa la sensazione di non aver potuto porre rimedio a quanto è avvenuto: “rimane solo il pentimento e la vergogna”.

Nella Belgrado occupata, sparito dalla scena pubblica, isolato nel suo appartamento, tra migliaia di libri, Andrić è felice: può essere solo scrittore. Lavorare all’economia della frase, scolpire le parole dove “scorre una linfa invisibile che le muove come un sole interiore”.

Dopo la liberazione, nel 1945, in pochi mesi pubblica Il ponte sulla Drina, La cronaca di Travnik e La signorina. Il terzo romanzo sarà meno letto e meno noto, eppure la figura di Rajka Radaković si presenta come alter ego dell’autore. “Ogni vera grande passione richiede la solitudine e l’anonimato. (…) In quegli anni Belgrado era l’ambiente adatto per chi volesse rimanere isolato nella folla e invisibile nel suo scorrere fluttuante” (La signorina, trad. di Dunja Badnjević e Manuela Orazi, Bottega Errante 2022). Nell’estraneità della protagonista al mondo esterno e alla dimensione degli affetti – lo scrittore si sposerà a 64 anni –, nel carattere fanatico della sua avidità, è possibile riconoscere aspetti della personalità di Andrić. 

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E sarà proprio La signorina a ispirare uno degli ultimi racconti di Danilo Kiš – che riconosce la sua filiazione letteraria, mentre Andrić stima molto il giovane Kiš. Nel racconto Il debito (in Il liuto e le cicatrici a cura di Mirjana Miočinović, trad. di Dunja Badnjević, Adelphi 2014), Andrić è sul letto di morte: “Osservava sé stesso con gli occhi altrui, facendo il bilancio della propria vita così come sarebbe apparsa ad altri, gente sconosciuta. Lasciava la raccolta completa delle opere, biografia inclusa, e la sua lingua, intrecciate con la storia del popolo a cui apparteneva: questo gli avrebbe garantito ciò che chiamano immortalità. (…) Aveva eliminato tutto ciò che avrebbe potuto comprometterlo agli occhi dei posteri: ogni accenno personale, ogni episodio privato, per restare, agli occhi delle generazioni future, un’astrazione, sempre più uno scrittore e sempre meno un uomo fatto di sangue e carne”.

Andrić e Kiš, in bilico tra paura e fermezza, sospesi tra l’homo poeticus e l’homo balcanicus, affrontano entrambi con l’icasticità del dettaglio la condensazione di vite immaginarie descritte “in modo del tutto obiettivo e imparziale” e perciò capaci di rappresentare la storia universale.

Nato croato, lo scrittore si dichiarerà poi culturalmente serbo, avrà molte cariche politiche e nel 1961, annus mirabilis di “un piccolo paese tra i mondi” – viene rilasciato Milovan Đilas, nasce il movimento dei non allineati guidato da Tito –, riceve il premio Nobel.

Dopo la sua morte appare finalmente in pubblico l’io interiore, “il volto sotto la maschera”. Da quando aveva 18 anni, lo scrittore tiene un diario. Dal 1915 al 1974 compila più di cinquanta quaderni, il più grande, il libro nero, di oltre 500 pagine. Lo chiama “il mio granaio, la mia soffitta, la mia cantina, in cui è accatastato in ordine e senza ordine tutto ciò che ho raccolto e racimolato nei libri e nei giornali”. Sono pagine accumulate nei decenni, nell’esilio asburgico durante la prima guerra mondiale, a Roma e in Austria negli anni Venti, durante gli attacchi aerei a Berlino durante la seconda guerra, nei viaggi dalla Cina a Stoccolma.  

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Segni lungo il cammino. Prose meditative, un grande successo editoriale, è il suo testo stilisticamente più originale, summa filosofica e poetica della sua esistenza, inseguita dalla lotta con il tempo e dall’invecchiamento. “In questo libro caleidoscopico, scrive Martens, al quale lavora fino agli ultimi mesi di vita, confluiscono le sue letture, gli studi d’ambiente, ritratti, aforismi, dialoghi colti al volo, impressioni di viaggio, schizzi e osservazioni sulla quotidianità” (in italiano alcuni frammenti si trovano nel Meridiano e nella raccolta di racconti In volo sopra il mare e altre storie di viaggio, prefazione di Božidar Stanišić, trad. di Elisa Copetti, Bottega Errante 2017). 

E c’è sempre la sua compagna di vita: la paura.  “Vivere nella paura, nel rimorso e nell’eterna paura della paura; non riuscire a chiudere occhio, né a respirare a pieni polmoni e, nonostante tutto ciò, lavorare, ridere e conversare, per gli uomini come me significa vivere, riuscire nella vita”.

L’ultima volta che esce di casa per andare in ospedale, è già sul pianerottolo, si gira e torna indietro. Si porta via un tascabile: Marco Aurelio, Colloqui con se stesso

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