Artpod / Julian Schnabel, "Man of Sorrow (The King)", 1983

14 Aprile 2022
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Una perenne tensione conoscitiva sul mondo che tuttavia sempre si ostina a negarsi; se ne colgono dei brani, se ne sentono degli odori, ma mai se ne afferra il noumeno. Questa è la condizione umana, che un autore come Julian Schnabel sembra recepire e fare sua in assoluto. La sua è una ricerca di evidente stampo filosofico, e lo stesso oscillare tra pittura e cinema lo verifica. D’istinto mi viene da pensare a Paul Valéry, un autore anch’egli con una sensibilità che, con altri strumenti, ha lavorato costantemente esposta sul fronte del confine (tra i linguaggi, le discipline, le strutture cognitive).

 

Schnabel come Valéry coglie il moto ondoso dell’umano, recepisce il “Tout va sous terre et rentre dans le jeu!” di Il cimitero marino.

Man of Sorrow è un’emersione/immersione da/in un qualche buio di una figura che manifesta tutta la sua fragilità in perfetta contraddizione con la sua entità simbolica: il potente – The King doveva infatti essere il titolo originario dell’opera –, che al debole riparo di un sipario sembra abbandonarsi e cedere sotto un carico di dolore che immediatamente lo identifica al Vir Dolorum biblico, al Cristo sofferente per l’umanità (dove per esprime causa e/o fine). E qui è evidente il rinvio all’Uomo dei dolori – Ecce Homo di Dürer (1493). Ma c’è anche un sentimento “inferiore”, quello della malinconia, che sempre circonda e premette il dolore; di nuovo si pensa a Dürer, a Melancholia I (1514), ma anche alla riflessione primaria sul tema di Robert Burton, all’Anatomia della malinconia del 1621. 

 

La massa visiva di Man of Sorrow è il corpo-a-corpo a cui Schnabel ci ha abituato: "Uso qualunque strumento mi consenta di tradurre i miei impulsi in un'evidenza fisica", dice. Qui la quantità è anzitutto il nero del velluto che assorbe nel buio il dolore del potente e lo sguardo nostro. Proprio questo supporto, per la sua “innaturale” vocazione alla pittura, rende il dipinto un “quasi psichico”, un’evanescenza concettuale di cui l’immagine è un puro traballante supporto. Siamo lontani, si fa per dire, dai Plate painting, quei famosi piatti rotti che Schnabel appiccica alle grandi tele e fanno da supporto, anzi da “molecola”, ai ritratti squillanti in cui il ragionamento pare affidato proprio alla capacità del paradigma oggettivo del piatto di dimensionare lo spazio. Qui invece è la grana grossa del velluto con le sue particelle nere che si incarica di produrre la dinamica tra chi-guarda-che-cosa. L’espressione del “povero re” c’è, i tratti fisiognomici caratteristici del “dolore” ci sono, la tristezza si vede, ma, come dire, sfugge, si ritira, è fuori controllo, qualcuno presto la nasconderà di nuovo sciogliendo quel drappeggio.

 

Come spesso in Schnabel il pre-linguismo gioca con l’oltre-linguismo, la matericità del mondo, il non-linguistico, per osmosi, filtra e in qualche modo si ricongiunge alla matericità primordiale, pre-linguistica, saltando il passaggio “grammaticale” della razionalità condivisa. Materia e pulsioni, una quota enorme di realtà, messe insieme alla ricerca di capire di più il mondo.

È un’onda, si diceva, che va e viene: il noumeno si fa sentire, manda segnali della sua esistenza, e – diremmo lacanianamente – si affida, di volta in volta, ai diversi significanti, più o meno definiti, più o meno duri, e così, lavorandoli con tutta la forza possibile, concreta e astratta, l’artista li “sistema” discorsivamente producendo comprensione. L’area di ricerca di un autore come Schnabel è il limite, il suo lavoro si dà dove i significanti ce la fanno appena a buttar fuori il senso. 

Si è scritto di una sua “fabulazione barbarica” (Danilo Eccher), a me pare utilissima questa osservazione, e la spingerei a un estremo più azzardato parlando per Schnabel di vera “violenza artistica” dove la violenza, massimo atto di distruzione, in un culmine di potenza conoscitiva, si rivolge all’uncanny umano.    

 

Legge Roberto Magnani del Teatro delle Albe. 

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