Zoosemiotica 2.0 a Palermo / La nonna dei cani

30 Novembre 2016

E poi dicono che la chiacchiera conviviale è tempo perso. Poco tempo fa, a un pranzo domenicale, conversavo con una signora di mezz’età sulle vacanze estive appena trascorse. “Lasciamo perdere”, mi dice, “oramai sono diventata la nonna dei cani”. Vista la mia espressione interrogativa, spiega che i suoi due figli, precari, convivono con le rispettive fidanzate ma non osano far figli; sicché hanno preso, ognuno, una coppia di cagnoni di non so quale pregiatissima razza. Che amano alla follia. E che durante le ferie e i sabato sera vengono, manco a dirlo, depositati a casa dei genitori. Cioè della mia dirimpettaia di tavola, che ama immensamente i suoi gioielli latini e tutto ciò che essi emanano, al punto da sacrificare le proprie meritate vacanze per accudire quei quadrupedi decisamente invadenti ma tanto, tanto cari. Praticamente iscritti, come da tempo accade in USA, nello stato di famiglia. 

 

Dopo un primo momento di ilarità e un secondo di compassione, si apre una voragine al tempo stesso narrativa ed ermeneutica. Ecco il piccolo racconto di un’esperienza personale che si fa spia di una molteplicità di fenomeni sociali emergenti, da un lato, e di impreviste conseguenze filosofiche, dall’altro. Che significa “nonna dei cani”? A tutta prima può sembrare un’espressione banale, se non irriverente verso le nonne e verso i cani. Così la situazione che descrive, interpretabile come una piccola follia locale, una degenerazione idiosincratica. A pensarci un po’, invece, si apre tutto un mondo, una vera e propria condizione antropologica, un terremoto psicologico. 

Da una parte, la nonna dei cani si staglia sullo sfondo di noti macrofenomeni di natura economica (la crisi finanziaria, la disoccupazione crescente, il precariato diffuso) e delle loro conseguenze sociali (il rifiuto del matrimonio, la forzata rinuncia ai figli). La cosa interessante, d’altra parte, è che in qualche modo ne costituisce la replica, diciamo così, da bricolage diffuso. Come è noto, dinnanzi ai problemi globali, spesso si sviluppano risposte in qualche modo creative, sicuramente non previste in anticipo, gravide di ulteriori processi non banalmente metaforici. Si operano cioè, come in ogni metafora che si rispetti, sostituzioni che sono spostamenti, traduzioni che degenerano in tradimenti. I cani prendono il posto dei bimbi senza comunque esserlo. La relazione affettiva con l’animale è la trasfigurazione parziale – e probabilmente dolorosa – di quella genitoriale.

 

A sua volta, la nonna non è più nonna allo stesso modo, pur continuando a esistere come ruolo parentale, funzione pedagogica, aiuto quotidiano. E perfino i cani sono, ammettiamolo, un po’ meno cani di prima, avendo occupato il posto che era tradizionalmente dei fanciulli, contribuendo alla progressiva (de)generazione di una famiglia strana, nuova, fonte di ulteriori cambiamenti a catena. Per esempio, tutto l’universo dei gesti d’ogni giorno, del tran tran quotidiano, delle fatiche famigliari, mancando i bimbi, tracolla e però, a suo modo, si alleggerisce: niente più eroici cambi di pannolino o biberon notturni; il pediatra amico diviene un fidato veterinario; mentre il latte in polvere, le camerette coloratissime e i giocattoli gommosi lasciano spazio a gustosi croccantini, cucce oltremodo comode, guinzagli che non stringono il collo percarità… Per dirla con Bruno Latour, un collettivo viene riversato in un altro, con tutto quel che inevitabilmente comporta una traduzione in termini di perdite e di guadagni, di fedeltà e infedeltà. Un collettivo, e cioè un insieme articolato di attori che osiamo definire sociale e che tuttavia include, costitutivamente, umani e non umani, uomini e bestie e spazi e cose, sentimenti e ideologie, istituzioni e processi: ossia, in fondo, relazioni reciproche. Dal senso comune, ingenuamente ontologico, ossessivamente naturalistico, passiamo così a una visione sistemica, strutturale, semiotica del mondo.

 

Non ci sono uomini da un lato e animali dall’altro che, poi, entrano in rapporto fra loro, un rapporto che è quasi sempre di subordinazione gerarchica, dove il primo è padrone e il secondo succube. Molto diversamente, c’è una specifica relazione tra forze in gioco che tende a produrre precisi attori sociali, delineando le rispettive fragili identità: da una parte una nuova forma di genitore, privato suo malgrado dei figli possibili, che rivolge i propri affetti repressi verso un cane; dall’altra una nuova forma di cane che, fortunosamente incaricato di esser segno di figli economicamente non gestibili, si trova a vivere passioni fortissime, a condividere spazi tanto inediti quanto inaspettatamente comodi. Così l’uomo non è più il padrone del cane ma un suo quasi-padre; e il cane non è bestia addomesticata o amico fedele ma una specie di figlio, un avatar di bebè. Per non parlare della nonna, che non solo non è la padrona del cane ma nemmeno la sua mamma; semmai appunto una quasi-nonna che ha col cane relazioni affettivamente conseguenti (per esempio, possiamo immaginare, lo vizierà oltremodo, mettendo in crisi la più rigorosa educazione genitoriale).

 

 

Stiamo attenti, non siamo di fronte al tipico antropomorfismo del folklore tradizionale, della letteratura fiabesca o dei fumetti disneyani: non c’è un mondo di animali che reinterpreta un mondo di uomini; non c’è l’animale stereotipo che si comporta come lo stereotipo umano corrispondente. Né tantomeno questa storia ha a che vedere con il tema classico delle figure ibride, metà uomo e metà animale. Quel che riscontriamo, piuttosto, è una complessa articolazione di relazioni sociali e affettive che genera una forma inedita di parentela, una parentela in cui anche l’animale ha i suoi ruoli, a seconda del soggetto con cui, appunto, entra in relazione parentale: sarà adorato figlio rispetto ai genitori, diciamo così, adottivi; caro nipote rispetto alla nonna adottiva; sospettoso fratello rispetto agli altri animali di famiglia (cani, gatti, tartarughe, uccellini?); e, perché no, cugino, cognato, genero… Il che, per alcuni versi, potrà far sorridere certi irriducibili cinici, o far urlare allo scandalo molti benpensanti vetero-umanisti. Per altri versi, è un esempio estremamente interessante di una condizione socio-antropologica relativamente originale (in USA, s’è accennato, va così da molto tempo), che va presa in considerazione, interpretata, discussa. Un’interpretazione possibile, minoritaria ma convincente, potrebbe per esempio indicare la diffusione crescente nella nostra società di un animismo diffuso, che convive, per nulla stranamente, con quel suo opposto dialettico che è il naturalismo.

 

L’animismo, secondo l’insegnamento dell’antropologo Philippe Descola (il suo Oltre natura e cultura è stato da poco tradotto in Italia da Seid), è quella posizione ontologica che pensa gli umani e i non umani in continuità psicologica e in discontinuità fisica; l’opposto appunto del naturalismo, che pensa umani e non umani simili fisicamente ma diversissimi cognitivamente. Introdurre l’animale nelle relazioni di parentela è per l’animista non una conseguenza imprevista ma una necessità etnica: sia esso l’achuar amazzonico (che guarda alle scimmie come ai parenti acquisiti) o l’attivista che difende le poche foche rimaste negli oceani (il quale pensa in termini scientifici ma agisce secondo principi fortemente animisti). L’animismo presente nella nostra cultura – quella stessa che conduce alla crescente diffusione di animalismo, vegetarianismo, veganesimo etc. – è fenomeno inedito e al tempo stesso prevedibile. Inaudito se visto da vicino, con gli strumenti dell’opinionista mediatico o dello psicologo comportamentale; scontato se osservato da lontano, con gli occhi dell’antropologo che prova, per dovere professionale, ad analizzare le diverse etnie umane a partire dai milioni di anni in cui si sono diffuse nel pianeta. Presentando somiglianze profonde e flebili differenze di superficie.

 

In un modo come nell’altro, la relazione con l’animale richiede oggi un supplemento di riflessione, che deve per forza di cose coinvolgere studiosi di varia estrazione disciplinare, scrittori, attivisti, giornalisti, etologi, veterinari, come anche, evidentemente, politici e amministratori, aziende e lobbisti, esperti di marketing e comunicatori. Gli animal studies sono oggi una realtà epistemologica in crescita. Pensatori di ogni ordine e grado vi sono impegnati. Vale la pena coinvolgere in essi anche i semiologi, che da sempre, con la cosiddetta zoosemiotica, hanno lavorato sui linguaggi e sulle forme di comunicazione degli animali, e che oggi possono passare a una specie di zoosemiotica 2.0, più strettamente impegnata nell’analisi della cultura sociale del nostro tempo. Ci proveremo a Palermo, l’1 e il 2 dicembre prossimi, con un grosso convegno su “Forme e politiche dell’animalità”, dove si dialogherà e si litigherà parecchio, per portare avanti una ricerca che si preannuncia complessa e annosa ma d’estremo impatto. Cani e gatti, nel frattempo, avranno di meglio da fare. La mia simpatica compagna di pranzi domenicali ha invece promesso di esserci.

 

Zoosemiotics 2.0. Da domani a Palermo, Museo Internazionale delle Marionette (1-2 dicembre 2016).

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