La patria è casa d'altri

17 Marzo 2011

Un quarto di secolo dopo, le riflessioni di Levi sulla parola “patria” ci appaiono lucide e precise, forse soltanto più lontane da noi. Il cielo osservato è sempre lo stesso ma gli astri sembrano più lontani. “Patria”, parola recente del nostro vocabolario, è sempre più desueta. Personalmente non credo di averla mai scritta, se non con ironia e sarcasmo quando ero più giovane. La sento usare solo in televisione e mi sembra sempre posticcia e forzata. (Non parlerò neanche dell’uso reazionario e nazionalistico di questa parola…). Più viene detta con solennità più ne percepiamo il silenzio emotivo. Sembra una parola buona soltanto per la guerra, e non soltanto nella nostra lingua. Ho una foto di mio nonno, in partenza per la prima guerra mondiale, e forse lui è l’unico della mia famiglia ad essersi battuto per la Patria (era monarchico…). Nella seconda guerra i miei zii e mio padre hanno combattuto per qualcosa di diverso: per la loro idea, di patria. Io non appartengo a una patria, neanche in formato minore manzoniano. Semplicemente perché ho cambiato troppe città e non ho mai messo radici. Ogni luogo è per me “casa d’altri”. Sin da ragazzo ho imparato che posso essere ovunque esattamente così come sono sempre stato: dormo le mie solite ore, mi adatto sin dalla prima colazione a ogni tipo di alimentazione. Sentir parlare altre lingue, anche incomprensibili, non mi spaventa: “non sono altro che lingue…” mi dico. Provo nostalgia struggente per luoghi lontanissimi dall’Italia e non per questo meno miei. Soffro quando un amico di lingua inglese o francese sta male, esattamente come soffro per quelli di lingua italiana. Non combatterei mai per amore di patria, ma solo per convinzione profonda e malvolentieri. In astratto potrei anche combattere per un’altra patria, o meglio ancora per un altro paese. Ecco, mi rendo conto che il mio vocabolario ha abolito tacitamente una parola in fondo mai accettata.

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