Speciale

Le manifestazioni a Roma / La violenza illustrata

17 Ottobre 2011

Fumo. La densa colonna nera che macchia il cielo di Roma al tramonto, la sera del 15 ottobre, condensa in un segno lugubre il senso di una giornata dominata dalla repentina inversione dell’entusiasmo in smarrimento. La piazza affollata, gli slogan, la musica, gli striscioni, insomma tutta la sostanza e il “colore” immancabile dei cortei, sono stati subito risucchiati e spenti dalle notizie degli scontri e delle violenze. Di più: cancellati. La sensazione, per chi era dentro il corteo, e per tutti gli altri, è beffarda, paradossale: ciò che si sta ancora facendo è come già passato, estinto, o revocato, mentre ciò che deve ancora accadere e forse non è accaduto affatto ­– il sangue dei feriti, le devastazioni, il fallimento politico, certo – si proietta all’indietro come un insaziabile fantasma postumo.

 

 

Così, la scena del corteo, pure così fitta di corpi e di voci, ha finito per inabissarsi prima ancora di apparire, cioè di rappresentarsi, e le sue ragioni politiche e “testimoniali” – la volontà, appunto, di restituire parola e visibilità a chi deve essere, nelle contingenze della “crisi”, muto e invisibile – sono state travolte dall’irrompere di un altro soggetto, dispotico, violento, un soggetto senza identità che si coagula nella distruzione fine a se stessa, nel vivre sa vie anarchico e nihilista (“Impazzire!” gridano i muri): gli estranei, i Neri. L’immaginario della violenza, più ancora che le sue rade impronte concrete –vetrine infrante, macchine bruciate, botti, fumo –, si è insomma impadronito della scena, distorcendola sino a farla assomigliare da subito a ciò che in effetti essa sarebbe stata solo dopo il disperdersi della manifestazione e il rientro mesto o rabbioso dei tanti. Presto, tanto, e anzi subito, i commenti e gli infiniti replay televisivi, i nastri dei notiziari, le “dirette” ­– i moltiplicatori industriali della paura - si sarebbero ripresi il loro spazio e lo spettacolo, per la maggioranza, sarebbe proseguito indisturbato.

 

 

In un sabato di ottobre, a Roma, il simulacro è sembrato davvero, imprevedibilmente, aver fagocitato la realtà. O meglio, nella luce trasparente di un pomeriggio di inizio autunno, la realtà si è mostrata già come frutto preventivo e impenetrabile dell’immaginario: tutti sapevano, tutti temevano. Anche la polizia, c’è da credere. E naturalmente poi, nelle gallery sul web, nei blog, sui social network ecc. ecc. le discussioni e i video e i documenti e i post e i commenti, i commenti soprattutto: ma del corteo in sé, anzitutto, sulla troppo tipica, anche se “irregolare”, sequenza di facce e strade e cartelli e gesti, pure riprese senza sosta da tutti e con ogni device immaginabile, resta poco, o così sembra, almeno, cancellato retroattivamente anche se continua a essere visibile. Cancellato, cioè, nella sua ambizione a non essere un semplice prima – prima degli scontri, della dispersione, prima della fine ­– ma a proporsi come il tutto che non può più essere. Come avvelenate da una tossina invisibile, quelle immagini, ancora slogan, ancora striscioni e magliette e cartelli, portano ormai dentro di sé il marchio di ciò che non è ancora avvenuto,ci interessano perciò che rivelano, alla nostra morbosa curiosità scopica, al nostro intimo e perverso bisogno di rassicurazione, dell’innocenza inconsapevole prima della catastrofe.

 

Perché, come sempre capita, il vero soggetto della fotografia, ciò che davvero sembra esistere per essere fotografato (Sontag dixit), è ancora una volta la violenza, la scandalosa bellezza della violenza e della devastazione. La bellezza di cui i Neri, previdenti, hanno intuito il potere, e che catturano in immagine, per primi, mentre la fanno accadere. Bellezza di morte, certamente, cioè immonda, ma anche, inevitabilmente, attesa e ricercata per la sua capacità di cristallizzare in uno spettacolo l’osceno eccesso di godimento, quel ventre pieno e subito svuotato che è il componente primario dell’esperienza sociale contemporanea. Mentre certifichiamo razionalmente, e politicamente, la nostra diversità e opposizione alla violenza, non possiamo così che offrire il nostro consenso ottico al suo spettacolo e subire dunque la potenza di choc delle immagini. Choc, come sappiamo, il cui valore euristico è divenuto diametralmente opposto a quello – liberante – preteso dalla modernità, convertito com’è in uno strumento di riaffermazione dell’esistenza, o meglio dell’inesistenza del mondo intorno a noi. Oggi abbiamo vissuto?

 

 

Guardare queste fotografie, dopo averle immaginate da dentro il corteo, e anche senza essere stati a Roma, un sabato di ottobre, fa l’effetto di un film già visto, dell’immagine appesa da qualche parte nella memoria, ripetuta, e ferma, dimenticata e ritrovata. È questa la condizione politica ancor prima che psichica e individuale, come sostiene da tempo Slavoj Žižek, in cui si realizza la tirannia dell’immaginario sulla vita. Nella loro vuotezza e disponibilità proiettiva, le immagini, come un cinema mentale, testimoniano dunque il circolo vizioso in cui siamo tutti catturati e ripropongono anche, in forma criptata, e feroce, e ottusa, l’interrogativo di fondo di questa epoca: come spezzare la spirale perversa  tra godimento e subalternità? Come sottrarre potere, e statuto mitico, e fascinazione, alla morte? Come attraversare l’immaginario, o usarlo, alla fine, per vedere più rettamente il mondo?


 

 

 

 

 

 

 

 

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