Cavalli e Morante / La vita meravigliosa

6 Ottobre 2020

Nella nuova raccolta di poesie di Patrizia Cavalli, Vita meravigliosa (Einaudi, €11, pp.119), Con Elsa in Paradiso ricorda Elsa Morante e la sua promessa di portarla in paradiso. Una delle cose che Elsa Morante diceva sempre agli amici a questo proposito era: Se pensi che andrai in Paradiso, andrai in Paradiso, ma se hai qualche dubbio, allora c’è qualche dubbio! Come sempre, in queste sue battute icastiche, che lei dispensava con un sorriso che era il massimo della pedagogia che concedesse, c’era una solidissima visione del mondo: gli umani, singolarmente, avvertono il proprio destino ed è nella verità di questo avvertire se stessi la retta via, il percorso dantesco. Questo è il Paradiso, ed è due cose: un dopo, il compito compiuto, e certo non possiamo chiedere di meglio, ma è naturalmente anche il presente e il passato, in cui il compito è stato annunciato e viene compiuto. Il lavoro di essere quello che si è. Nei personaggi di Elsa Morante è una condizione dolorosa, legata alla propria sessualità, sempre sofferta, ma più in generale per lei radicata nel destino, il sortilegio attraverso cui si articola la nostra natura, un’indole personale che nel disvelarsi descrive il cammino-calvario che ognuno percorre. Personaggi e umani, non fa differenza. Essere quel che si è significa aderire alle proprie intuizioni, non potersi adeguare a un esterno perché sempre qualcosa resiste. Tradirsi è quindi più grave di tradire altri, introduce non solo confusione su se stessi, ma il male del mondo. 

 

Nello stesso tono scherzoso che nella raccolta viene evocato in questa poesia, Elsa prendeva in giro Patrizia Cavalli dicendole: non potresti chiamarti Plebea Somari? Credo che così l’abbia molto aiutata a trovare i modi, il tono, a scegliere il proprio ambito. Paradossalmente, pur non appartenendo a nessuna accademia, Elsa era una grande educatrice. A Patrizia Cavalli insegnava in quel modo a non cercare compromessi con gli aspetti demagogici della sua generazione, gli appelli al popolo che nel ’68, ma immagino anche prima e certamente dopo, deviano il talento di poeti, artisti e degli umani in generale, che spesso cercano una legittimazione del tormento che ho cercato di indicare, quello di essere se stessi, nella politica e quindi, in epoca democratica, nel consenso, che altro non è che l’opinione degli altri. Perché qualunque poeta, scrittore, qualunque umano non può che essere un dissidente, attraverso le sue parole il mondo mostra gli anelli che non tengono, le fratture tra le epoche storiche, i generi, non c’è un conformismo possibile, solo passività. 

 

Cercare conferma negli altri è quindi per Elsa Morante corruzione, significa non ascoltare la propria voce, perdere intimità con se stessi e proiettarsi all’esterno (la fama, il denaro, il consenso appunto), dove non è possibile non perdersi. La prima raccolta di Patrizia Cavalli si intitola Le mie poesie non salveranno il mondo, e ha già il tono polemico con le mosche cocchiere del ’68 che riappare in un icastico ritratto della femminista in quest’ultima raccolta: O femminista, sogno del potere/ parli di donne e diventi generale,/ formi il tuo esercito con le spaventate/ che spaventi di più e ti sono grate. Come Elsa Morante anche Patrizia Cavalli ironizza sull’idea che l’essere donna sia cristallizzabile in un ruolo sindacale. Il genere o i generi cui si aderisce, non solo nelle proprie scelte erotiche ma nell’ascoltare le voci che ci abitano profondamente, non si riducono a un’identità.

 

 

Arturo Gerace, il protagonista di L’isola di Arturo, non esisterebbe e non ci sarebbe il libro più bello della Morante. Naturalmente c’è intelligenza nel capire cosa si agiti nel nostro tempo, le idee e la politica; piuttosto, quello che è aristocraticamente superiore all’ideologia è che il comprendere il mondo possa tradursi in posizioni che poi divengono principi e alla fine slogan che non portano lontano. Diventano trincee da conversazione, cose da dire a tavola o in assemblea. Forse c’era in Elsa Morante una presa di distanza da Dacia Maraini, per cui Alberto Moravia si era separato da lei, un senso di superiorità alle semplificazioni che è lo stesso che Anna Arendt sente di fronte all’ebraismo quando viene confuso con il sionismo. Essere ebrea non si riduce a un’adesione politica. 

 

Anche qui, Patrizia Cavalli segue le tracce che a me pare Elsa Morante le preparava: una vocazione aristocratica. Lasciarsi alle spalle Plebea Somari. Come in Marcel Proust, o piuttosto nei primi volumi della Recherche (i migliori, diciamo fino a La prisonnière), l’aristocrazia, i Guermantes e Charlus, vengono contrapposti al destino dei borghesi, sempre spinti dalla necessità di promozione sociale a dimostrare se stessi, che è una forma di adeguamento al mondo esterno, perché gli aristocratici sono semplicemente quello che sono. Mentre i Verdurin sono obbligati a percorrere i gradini dello snobismo per diventare buona società, imitando gli altri e se stessi, gli aristocratici appaiono al giovane Je che racconta liberi da questa maledizione, che poi crollerà nell’episodio delle scarpe rosse quando Swann dirà la ragione (il cancro) per cui non potrà unirsi alla ricca, allegra e colta compagnia che sta partendo per un viaggio in Italia. Lì, anche negli aristocratici, si mostra la miseria della superficialità. 

 

Non solo le poesie di Patrizia Cavalli, nulla salva il mondo. Neppure i ragazzini di Elsa. A me pare anche piuttosto sfuocata l’intenzione della quarta di copertina del volume di avvicinare Patrizia alla tradizione mistica duecentesca. Per fortuna è lei stessa a schermirsi da questa strada nella bellissima poesia a pagina 9. Quando occupata da poveri pensieri/ la puzza di fritto, il freddo/ dov’è la mia anima? Non ha senso tentare di ricontestualizzarla in un ambito così distante da lei, non c’è qui né la visione né la fiducia nel mondo oltre se stessi. Chissà se sarebbe possibile farlo oggi: non ci sono Giotto o Dante, Jacopone o Francesco d’Assisi. Inevitabilmente, quando si lascia il tono scherzoso di Elsa e Patrizia nel parlare di Dio e Paradiso, ci si ritrova in una retorica che confina con il kitsch, come succede talvolta in certi toni mistici di Pasolini (il finale di Accattone), o nell’atteggiamento creaturale che purtroppo incrina a volte anche la bella prosa di Elsa Morante (per fortuna solo in La Storia) o Anna Maria Ortese. Molto più schietto e profondo nella Morante, meno spaventato, lo scherzo e il gioco di chi va in paradiso, i magnifici ricordi infantili recentemente ripubblicati da Einaudi o l’affettuosa curiosità che aveva per i presepi. Altrimenti ci si consegna al clero, a una gerarchia di conservatori della fede quasi che Dio fosse un’istituzione che vive in Vaticano e non il divino che innerva il mondo. 

 

Se mai, dove mi piacerebbe che Patrizia incontrasse un orizzonte più ampio, è nel ribaltare la poesia che è stata messa in copertina: Cosa non devo fare/ per togliermi di torno/ la mia nemica mente: ostilità perenne/ alla felice colpa di esser quel che sono,/ il mio felice niente. Al contrario, Patrizia Cavalli è Patrizia Cavalli, non Plebea Somari, quello che dà e ha dato nella sua poesia, quindi il contrario del niente. Per riprendere la battuta di Elsa, non deve permettersi dubbi se vuole andare con lei in paradiso. Ma lì, anzi qui, il paradiso già apre alcuni ingressi e questo libro ne mostra delle prospettive.

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