Leggere: il futuro e noi

10 Aprile 2012

Da qualche settimana il “Guardian”, il prestigioso quotidiano inglese, ha inaugurato una sua pagina Facebook. Non è la solita pagina FB, che promuove la fidelizzazione al giornale attraverso i social network, bensì una vera e propria pagina del quotidiano che contiene notizie e articoli del giorno. Apri e vedi il menù di quella mattinata con i pezzi principali. Se ne clicchi uno, i tuoi amici di FB riceveranno istantaneamente la notizia che stai leggendo proprio quel pezzo, e chi vorrà potrà a sua volta cliccarlo. Si tratta di un passo ulteriore verso il trasferimento del quotidiano stesso, o almeno di sue parti significative, nelle pagine di FB, sposandone in pieno la logica di funzionamento.

 

“The Guardian” è un quotidiano molto letto sul Continente, e spesso capita che una notizia pubblicata lì diventi il giorno successivo un pezzo su un giornale italiano; perciò suppongo che ben presto i quotidiani italiani, in particolare i loro supplementi culturali, più facili da trasferire nella logica FB, adotteranno la strategia del social network, e migreranno lì sopra. Del resto, la crisi dei quotidiani si è fatta sempre più grave. L’attuale congiuntura economica ha molto diminuito la pubblicità sulla carta, mentre quella nel web aumenta, anche se non ancora a ritmi esponenziali. Il web possiede un sistema efficacissimo per gli inserzionisti: si può visualizzare quanti clic riceve ogni pagina, quanto tempo viene letto un singolo articolo e da chi (informazioni preziose che valgono parecchio per i pubblicitari e non solo loro).  Si tratta di un sistema molto più perfezionato rispetto alla tradizionale pubblicità su carta: tanti clic ci dicono quanto vale un giornale, un articolo e anche un singolo autore su FB. Probabile che in un tempo relativamente breve chi oggi scrive sui quotidiani – giornalista o collaboratore – sarà compensato in proporzione ai clic che riceve dai lettori. La logica del social network è implacabile: la quantità diventa sovrana. Da questo cambiamento derivano varie conseguenze, alcune positive (il feedback è rapidissimo, come ha mostrato più di una situazione, compresi i movimenti di opposizione) e alcune negative.

 

Il mercato è diventato sempre più un referendum su chi sopravvive e chi si estingue; come mi ha fatto notate un economista: comprando un prodotto piuttosto che un altro, io decido chi è degno di perpetuarsi e chi invece deve chiudere bottega. Un processo che non sembra più arrestabile, e chi non accetta questa sfida, anche sul piano culturale, finisce fuori gioco (fuori dalla Storia, dice qualcuno). Che fare? Non credo che la soluzione sia quella del luddismo rispetto alle nuove tecnologie e ai social network, e neppure l’astensione tout court. In un altro momento della storia dell’umanità, davanti alla prima e seconda industrializzazione, la risposta migliore è stata quella dell’organizzazione (operaia e sindacale), della lotta tra Lavoro e Capitale; distruggere i telai meccanici era certamente eroico e romantico ma perdente. Perciò la prima cosa da imparare è fare meglio quello che si è sempre fatto, con più convinzione e con obiettivi diversi da quelli imposti da questa trasformazione post-post-industriale. Pensare positivo è la regola aurea. Non tutto è perduto.

 

Cosa diventeranno i giornali, e in particolare i quotidiani, ancora nessuno lo sa. Le trasformazioni sono guidate dagli interessi economici, ma come nella teoria della percolation, la strada del futuro è segnata da fatti stocastici, da percorsi imprevedibili, come quelli di un liquido che cola dentro uno strado ghiaioso e deve trovare, tra sasso e sasso, la strada per arrivare in fondo. I sassi, nonostante tutto, li mettiamo ancora noi, sia che ci chiamiamo Steve Jobs e Bill Joy, o Mario Rossi e Maria Bianchi. Il futuro è ancora tutto da giocare. Questa, ovviamente, è una convinzione personale e anche una petizione di principio, ma sfido chiunque a dire come andranno le cose. Tuttavia, dato che è sempre bene aprire gli occhi e le orecchie  e ascoltare i ragionamenti degli altri, vagliarli per capire cosa perderemo e cosa guadagneremo con la trasformazione dei giornali in pagine FB – qui naturalmente il problema assume un aspetto molto personale, dato che ci campo con questo tipo di collaborazioni alle pagine di quotidiani e settimanali – compulso quotidianamente siti web e la carta stampata (dove, nonostante tutto, i pareri, forse perché ancora a pagamento, continuano a essere assai interessanti).

 

Domenica 8 aprile, giorno di Pasqua, sono apparsi due interessanti articoli. Il primo, apparso sul “Domenicale” del “il Sole-24 ore”, a firma di Roberto Casati, s’intitola I predatori del web minaccia per i libri. Casati è un filosofo che si è occupato di “oggetti” curiosi come l’ombra o i buchi, parla di epistemologia e ragiona sul contemporaneo. Nel suo pezzo in racconta come library.ru, un sito di ebook piratati e condivisi, abbia realizzato attraverso la presenza di 400mila titoli un guadagno di otto milioni di dollari. Come? Non certo cedendo i volumi in lettura, ma vendendo i suoi utenti ad agenti pubblicitari, quelli di cui si diceva più sopra. La pubblicità è sempre meno guidata dalle d’immagini e dagli slogan e sempre più di statistiche ed elaborazioni alfanumeriche (o almeno le statistiche orientano le immagini e le parole).

 

Dell’ampio articolo di Casati, che lavora in Francia, in un centro di ricerche, e insegna in giro per il mondo, pubblica libri in varie lingue, m’interessano un paio di cose. Prima di tutto il ragionamento sulla produzione saggistica. Il filosofo sostiene a ragione che il valore economico dei libri scaricabili nell’ambito dei saggi è molto scarso; l‘ebook acquistato da un solo “condivisore di contenuti” vale zero; può essere infatti duplicato, imprestato e ceduto; il che significa che in questo caso il valore economico per l’autore stesso è quasi nullo. Facendo riferimento al suo caso di autore, Casati mostra come vi sia una netta divergenza tra lui e il suo editore: se il libro è scaricabile gratuitamente l’editore non ricaverà nulla, mentre Casati, essendo membro di una corporazione universitaria, e funzionario statale, vivrà di altro (lo stipendio è dato dallo Stato); usufruisce inoltre di un indotto ulteriore: inviti, viaggi, conferenze, consulenze, ecc.

 

L’altro aspetto riguarda il valore che la saggistica ha assunto sin qui nella nostra società democratica. Giustamente Casati ricorda che questo tipo di pubblicazione non è molto vecchia, diciamo quattro secoli o poco più (si pensi ai saggi di Francis Bacon che, dopo Montaigne, hanno inventato il genere nella nostra civiltà occidentale), e come abbia altresì costituito uno dei pilastri della democrazia. Al riguardo, Casati si esprime in un modo preciso: “è uno dei pilastri delle società democratiche come le conosciamo, che sono tutte basate su un livello comparativamente alto di conoscenze diffuse e di analisi complesse che permettono decisioni comparativamente razionali”. Aggiunge anche un particolare assai interessante per chi, come me, scrive saggi: il saggio è il risultato di una interrelazione tra l’autore e la casa editrice, tra chi scrive e chi ne segue il lavoro – l’editor ad esempio. Se gli editori spariscono, come si scriveranno i libri, meglio o peggio?

 

L’altro articolo è comparso su “La Domenica” inserto di “La Repubblica” a firma di Hans Maguns Enzensberger, uno dei più brillanti apocalittici integrati del Vecchio Continente. S’intitola Sorvegliati e contenti. Descrive il nostro mondo in cui le fosche previsioni di Orwell, enunciate in 1984, si sono realizzate senza bisogno di regimi dittatoriali, campi di concentramento e torture. Descrive una cosa che vediamo tutti perfettamente: le autorità statali dipendono sempre più dai poteri economici, ovvero dalle corporation dell’informatica. Meglio: gli stati e le corporation (Google, Microsoft, Apple, Amazon Facebook) procedono di pari passo stringendo a tenaglia le libertà dei cittadini. Non c’è bisogno più di Gestapo o Kgb, bastano le telecamere installate ovunque, il controllo automatizzato di telefoni e della posta elettronica, le immagini satellitari ad alta definizione, il riconoscimento biometrico dei volti, le banche dati.

 

Enzensberger fa due esempi precisi: il denaro elettronico, che sostituisce il denaro contante, mettendo nelle mani degli istituti di credito, e degli apparati statali, dati capillari su ciascuno di noi; e poi il copyright. Proprio questo è il tema m’interessa. Noi sappiamo – ne ha scritto Michel Foucault – che la nozione di Autore è il frutto delle strategie di controllo, dello sviluppo della censura sui prodotti intellettuali a stampa; come contropartita a questo sono nati, quasi contemporaneamente, i diritti d’autore, esigibili e controllabili attraverso una precisa legislazione, in Inghilterra e in Francia. Vale la pena di ricordare come a liberare Diderot dalle prigioni del re di Francia, dove era finito per via di un suo romanzo impertinente e pornografico, ci pensarono gli editori della Encyclopédie, che si erano esposti economicamente e rischiavano, a causa dell’interruzione, di far fallimento. Lo scrittore tedesco scrive che il copyright è una conquista recente, del XIX secolo; fino a quel momento la lettura era un privilegio di pochi, poi all’improvviso il romanzo diventò un prodotto di massa e così gli scrittori si resero conto che la letteratura poteva essere una fonte di guadagno sostanzioso. Purtroppo non è durato molto. Oggi il libro stampato, “denominato print, è diventato un prodotto fine serie per le maggiori casi editrici” che considererebbero il copyright un ostacolo  “con grande giubilo delle avanguardie digitali”.

 

Eccoci qui al punto, che si connette con il passaggio del “Guardian” alla pagina FB di nuovo tipo. Con il suo corrosivo umorismo Enzensberger sostiene che per gli allegri pirati del digitale, che oggi dettano la parola d’ordine stop al copyright!, l’obbligo di pagare un contenuto “per ciò che l’industria informatica definisce un content, è comunque assurdo. D’ora in poi gli autori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi a lavorare gratis; in compenso potranno twittare, chattare, bloggare a piacimento”. In margine a questo lo scrittore tedesco fa un’osservazione interessante, che vorrei sottoporre al mio amico economista, spirito caustico pure lui, che lavora, forse non a caso, in una grande istituzione statale: il tempo di decadimento delle tecniche a nostra disposizione varia da tre a cinque anni, il medesimo ritmo dei cicli economici dei grandi gruppi informatici, mentre un testo su pergamena o su carta deacidificata si legge anche a distanza di cinque secoli.

 

Secondo Enzensberger, grazie alla nostra servitù volontaria, abbiamo in effetti evitato spargimenti di sangue, dittature e un Grande Fratello orwelliano che ci tortura per ottenere ciò che vuole: la nostra sottomissione. Ce l’ha già, senza colpo ferire. In questo quadro la scomparsa dell’autore, tutto sommato indipendente dal potere economico, non sarà un altro colpo alla democrazia così come l’abbiamo conosciuta sin qui? Il mercato con i suoi feedback, che sostituisce di fatto il vecchio sistema politico fondato su rappresentati e rappresentanti, è davvero un passo in avanti? Oppure non abbiamo in questo modo rinunciato di fatto alla complessa dialettica cui eravamo abituati? Meglio decidere noi con un clic chi merita di essere premiato e chi invece deve sparire dal mercato?

 

Leggendo questi due articoli mi sono posto altre domande, alcune molto generali, altre invece pratiche, e che mi riguardano da vicino. Essere a favore dell’abolizione del copyright, come sostengono Michele Boldrin e David Levine in un recente libro, Abolire la proprietà intellettuale, di cui parla Casati, tradotto da Laterza (il titolo originale è in effetti Against intellectual monopoly)? Cosa fare quando i supplementi culturali passeranno si FB? Strapparsi le vesti? Denunciare il complotto capitalistico-digitale? Francamente non ho una risposta a queste domande. Per il momento registro il cambio di passo imposto dal “Guardian” e mi preparo alle probabili imitazioni italiane. Ho dalla mia un impiego statale (seppur recente, e quindi non retribuito al massimo delle sue potenzialità di carriera basata sull’anzianità), una certa dose di fantasia (ho già pensato a cosa scrivere, e come, nel caso della versione FB di “Tuttolibri”, giornale cui collaboro) e anche qualche altra idea tipo “guerriglia semiologica”, come l’aveva definita decenni fa Umberto Eco. Ma i problemi restano, e come!

 

Il principale riguarda questo stesso sito, www.doppiozero.com, dove ora leggete questa mia riflessione (più domande che risposte) che è in Creative Commons, e potrete riprodurre a vostro piacimento, ma sempre citando la fonte e senza ricavarne un profitto economico. Come potrà sopravvivere un’iniziativa completamente gratuita? Con il contributo dei singoli lettori che entrano a far parte di una community, e comprano la tessera per scaricare i volumi della libreria (alcuni gratis) in cambio del servizio che stiamo rendendo all’intera comunità dei lettori? Oppure vendendo spazi pubblicitari? O ancora creando delle application con cui vendere i contenuti stessi del sito? In altre parole dobbiamo commercializzare questo stesso lavoro culturale e fino a che punto? È l’unico destino possibile?

 

Non sono infatti più sicuro che l’abolizione del copyright sia la giusta soluzione (e non solo per motivi strettamente personali, ma politici) e che, mentre il libro di cultura – il saggio –  vale sempre meno, FB si quota in borsa e strappa cifre con molti zeri, e contemporaneamente gli Appstore per tablet, smartphone, computer e smart tv fanno ottimi incassi, i social games crescono di numero e valore; tutte cose raccontate quattro pagine dopo l’articolo di Enzensberger nello stesso quotidiano  di domenica. Il game designer della Walt Disney, Warren Spector, in quelle pagine, dichiara: “Siamo nel caos e nessuno sa cosa sta per succedere, ma sappiamo che sarà una rivoluzione”. Penso sia venuto il tempo che i produttori intellettuali si organizzino come hanno fatto i nostri bisnonni e nonni (l’hanno già scritto autorevolmente altri). Il progresso sarà meraviglioso, certo, ma non può essere contro di noi. E poi la rivoluzione non la possiamo lasciar fare a un designer della Walt Disney. Non credete?

 

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