Lettera a Marco Rossi Doria
Gentile Marco Rossi Doria,
conosco la sua storia, leggo costantemente i suoi interventi e come docente della secondaria superiore e collaboratore di doppiozero per le tematiche della scuola e dell’educazione ho sottoscritto e sostenuto le sue iniziative rilanciando le sue riflessioni. Proprio su queste pagine abbiamo salutato il suo ingresso al Miur come una delle poche buone notizie da anni e lo abbiamo considerato come una garanzia e una dichiarazione di intenti condivisibili e beneauguranti per un nuovo corso.
Di fatto lei è un simbolo di quanto di meglio la scuola italiana abbia prodotto e continui a proporre nel tempo e nelle difficoltà che ad ogni tempo sono correlate.
Sono convinto che, alla luce dell’appartenenza a una stessa visione educativa, sociale e politica della scuola, lei potrà comprendere criticità e dubbi che le sottopongo, non tanto in qualità di dipendente di uno stesso servizio che chiede chiarimenti al suo dirigente quanto nella forma di uno scambio di opinioni tra persone che collaborano allo stesso progetto.
Dopo aver letto il recente intervento su La stampa del 24 giugno, ci sono alcune cose che non mi convincono. La sua analisi sociale è assolutamente realistica e condivisibile, così come lo è il richiamo a un nuovo patto sociale per la scuola. Partire dalle esperienze di Barbiana o del progetto Chanche come riferimento ideale è indiscutibilmente importante, nobile e chiaro nella misura in cui il mestiere dell’insegnante è particolare e delicato: avendo a che fare con minori che si stanno formando è soprattutto una ‘professione’ (un evento in cui si professa qualcosa) e non una semplice erogazione di ore di servizio, cosa che meno che mai potrebbe valere per la scuola. Non può esserci successo formativo dei discenti senza motivazione e partecipazione ideale a un progetto pedagogico ed educativo da parte dei docenti, i quali sono chiamati a investire in termini umani, professionali ed emotivi in maniera maggiore tanto più gravi sono i problemi che incontrano.
Richiamare esperienze forti ed emergenziali di motivazione può essere di supporto morale a chi è già impegnato in tal senso, ma non costruisce nuova partecipazione. Inoltre è vero che sostenendo la parte più debole del Paese si difende la democrazia; è l’obiettivo minimo e irrinunciabile oltre il quale puntare più in alto; perché nel frattempo anche le scuole che hanno funzionato producendo mobilità sociale verso l’alto, pur se non hanno problemi come quelli della scuola primaria in diverse aree disagiate, sono avviate verso un declino lento e progressivo nella primaria quanto nella secondaria, per tacere dell’Università che meriterebbe un discorso più ampio.
Tra i libri recenti sull’argomento mi limito a ricordare La scuola è di tutti di Girolamo De Michele (Minimum Fax, Roma, 2010) che documenta con lucidità lo stato delle cose.
La maggioranza dei docenti italiani appartiene a una generazione storicamente nutrita di ideali che nel frattempo hanno esaurito, per dinamiche storiche di lungo periodo, la loro spinta propulsiva. Non si può ignorare che la categoria ha un’età media elevata se rapportata alle esigenze sempre più complesse delle nuove generazioni di studenti; e che è sistematicamente oggetto di politiche giuslavoriste e di campagne stampa che la hanno sfiduciata, demotivata, depressa.
Nel frattempo la generazione dei trenta-quarantenni (a cui appartengo), che ha vissuto una diversa stagione formativa nel riflusso ideologico e che ha accettato regole differenti, astruse e persino punitive, è stata tradita nelle aspettative e sta vivendo il precariato in modo drammatico. Se già la precarietà lavorativa ha creato problemi sociali, il suo effetto sulla professione docente è oltremodo nefasto perché si riflette immediatamente sulla qualità dell’insegnamento. Molti colleghi in conclusione della carriera stanno accettando con difficoltà la riforma delle pensioni, ma i miei coetanei stanno peggio: una generazione mal retribuita e in condizioni critiche, che ha poi subito ulteriori contrazioni (in quello che è stato il più grande licenziamento di massa nella storia italiana) non può non serbare rancore, sfiducia e risentimento verso l’istituzione a cui un giorno ha deciso di dedicare la propria attività professionale. A parità di condizioni economiche e di disagio, in altri lavori almeno non si rischia l’esaurimento di risorse emotive e non si vive un tale sentimento di delusione e frustrazione.
In queste condizioni richiamare ulteriormente spirito di abnegazione e impegno non può bastare e, se anche è auspicabile, non è realistico nella misura in cui le mancanze di un’istituzione non possono essere colmate dalla buona volontà individuale, dallo spirito di missione o dal volontariato.
In questo momento storico per perorare la causa di un nuovo patto sociale per la scuola bisogna affermare che essa è un bene prioritario del Paese. Che nessun, anche grave, problema economico può giustificare i tagli indiscriminati fatti alla pubblica istruzione. Che la miglior garanzia per evitare il disastro politico di una società è la scuola. Che di fronte all’emergenza educativa servono condizioni elementari, sensate e realistiche per fare un lavoro complesso.
In altri termini serve investire economicamente sull’insegnamento, in stipendi, assunzioni e risorse per invertire la rotta che la riforma ha messo in atto, recuperando invece la riflessione precedente.
Ecco alcune cose che andrebbero fatte se si crede che il futuro dell’Italia dipenda dall’istruzione dei suoi cittadini. Nell’immediato: promuovere l’immagine del lavoro dell’insegnante come intellettuale e funzionario pubblico. Eliminare l’idea che il sapere sia addestramento a superare prove. Aumentare gli stipendi dei docenti. Ripristinare gli organici funzionali e le compresenze e smetterla con l’ossessione del completamento cattedre di diciotto ore. Abbassare il numero di allievi per classe a venti studenti a fronte delle nuove richieste educative. Ritornare alla programmazione individuale e alle offerte formative con modalità meno rigide rispetto alle indicazioni ministeriali. Aprire una riflessione sui contenuti minimi e condivisi delle discipline incentrando i programmi sul Novecento e riformulando canoni oramai consunti. Incentivare l’informatizzazione e la formazione multimediale del personale segnato dal digital divide rispetto agli studenti. Migliorare biblioteche e risorse informatiche (pc e Lim, aule multimediali). Abbassare l’età pensionabile riconoscendo la delicatezza del ruolo del docente. Fare in modo che gli insegnanti si dedichino alla ricerca e alla formazione incentivando part-time e congedi. Aprire un osservatorio sulla sindrome del Burn Out tra i lavoratori per prevenire il crescente disagio della categoria.
E poi, ancora: organizzare nuove immissioni in ruolo ed eliminare il precariato. Stabilire regole chiare e canali realistici per la formazione dei futuri insegnanti. Affrontare le esigenze dei nuovi studenti migranti con appositi progetti in vista di una reale inclusione. Tutelare la diversa abilità in un’ottica non solo custodialista. Trovare forme di riconoscimento del merito condivise e premianti. Rilanciare una vera autonomia didattica con criteri di uniformità territoriale. Eliminare la logica della certificazione della qualità secondo modelli tratti dal mondo dell’industria e ispirati all’impossibile misurazione oggettiva basata sui test. Semplificare la burocrazia interna e potenziare le segreterie senza che i lavori gravino sui docenti. Monitorare gli edifici scolastici dal punto di vista della sicurezza e della vivibilità. Sostenere l’apertura delle scuole al territorio con la promozione di attività pomeridiane. Rivedere statuto e responsabilità del personale Ata considerandolo a tutti gli effetti personale educativo. Aumentare le risorse e le agevolazioni alle scuole tanto più difficile è il contesto socio-culturale in si trovano.
Il tutto all’interno di un processo costituente che ridia centralità ai lavoratori della scuola, agli studenti e alle famiglie e li includa nei processi decisionali, ad esempio convocando gli Stati generali della scuola e della conoscenza, per un ritorno della partecipazione.
Sono dettagli pratici che permetterebbero di arginare la situazione critica, in alcuni casi in tempi brevi. Il costo è oneroso e immagino le resistenze di fronte a questo “volere tutto” in un momento come questo.Eppure, sottosegretario, tanto più grave è la crisi attuale tanto più devono essere radicali i provvedimenti. Gli ideali della sua generazione non sono diversi e quello che è stato fatto nella scuola a partire dagli anni settanta è stato straordinario e altrettanto utopico.
Si potrebbe obiettare che allora non mancavano i soldi per stanziare fondi: la risposta diventa però politica. Scegliere ora di togliere i soldi ai servizi pubblici, tra cui l’istruzione, è una scelta politica e non una conseguenza necessaria della crisi economica. Il continuo (e inspiegabile) finanziamento alla scuola privata non è che un esempio, per non dire delle inaudite e antistoriche spese militari o dell’interminabile capitolo della cattiva gestione del denaro pubblico. Un governo non può invocare la rinascita del Paese e nel frattempo agire in modo contraddittorio minando il patto sociale in un settore strategico come l’istruzione. In altre parole, non può essere la scuola a fare le spese della crisi.
Siamo in molti a desiderare che lei si faccia portatore di queste istanze. Lei non è solamente un maestro, un intellettuale e una coscienza critica del settore in cui ha lavorato. Ha accettato consapevolmente la sfida di entrare in un Ministero che sta sostanzialmente avallando la politica di smantellamento della scuola pubblica iniziata da altri governi. I segnali di cambiamento sono troppo deboli. Non vogliamo che la sua immagine sia usata in modo propagandistico. Sarebbe interessante sapere quali difficoltà ostacolano il suo lavoro al Ministero e sapere in quale modo docenti, studenti e famiglie possano sostenere un reale cambiamento dell’istituzione scolastica.
Nelle sale cinematografiche in questi giorni è uscito The detachment, un film estremo sulla realtà americana che però indica chiaramente dove va la scuola nel mondo contemporaneo. Se la colpa non è della scuola, il malessere si avvita nella scuola e gli uomini e le donne che ci lavorano devono essere nelle condizioni di tenere testa alle sollecitazioni del presente. Il volto segnato di Adrien Brody che legge La caduta della casa degli Usher di Poe nell’aula vuota di una scuola in rovina potrebbe essere il nostro.
Con immutata stima e speranza, un augurio di buon lavoro.