Ligustro, Montale permettendo
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri acanti.
Io per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Nella poesia di Montale il ligustro s’affaccia qui, sulla soglia degli Ossi di seppia insieme a bossi e acanti, e lì rimane. Vietato gli è l’accesso al paesaggio d’anima del poeta e – ne consegue – di figurare quale emblema della sua filosofia esistenziale. D’accordo: bossi e acanti possono essere considerate essenze aristocratiche dai fausti trascorsi in nobiliari giardini e su fregi classici. Ma il ligustro, che persino nel nome ha del ligustico e nell’aggettivo scientifico nulla ha di patrizio (Ligustrum vulgaris), che è spontaneo in tutta la penisola e colonizza facilmente terreni aridi, non stonerebbe tra quei «fossi erbosi» e lungo le «viuzze che seguono i ciglioni».
Nella prosa del 1950 Seconda maniera di Marmeladov (in Farfalla di Dinardi, 1973) occasionata da un detestato dipinto di casa con cipressi e covoni di paglia, Montale torna a ribadire tale poetica dimessa, aggiungendo un’altra pianta al triplice elenco dei suoi disamori botanico-letterari, e qualche deroga ai poco amati «alberi umanistici»: «Odio i cipressi e detesto i covoni, tutti gli alberi umanistici a eccezione della quercia, dell’alloro e del salice, mi lasciano peggio che indifferente [...] La natura mi dice qualcosa quando è incolta e negletta».
Glossano i commentatori che anche a discapito del ligustro giochi l’esser pianta della tradizione letteraria, e che il nostro Eusebio ce l’abbia con Carducci, Pascoli e D’Annunzio. E sia. Però, vien da chiedersi perché non bandire anche mirti e sicomori e – quanto a preziosismi lessicali – melangoli e diospiri, tutti accolti nel giardino di carta di Montale oltre che in quelli dei deprecati «poeti laureati»?
Vero è che nella nostra storia letteraria non si contano le occorrenze del fior di ligustro per indicare il pallore del viso o il candore dell’incarnato, spesso in coppia con il roseo delle gote, secondo un consolidato e antico ideale di bellezza. Lo cita Ariosto, proprio accostato all’acanto, alla morte di Brandimarte: «Orlando, fatto al corpo più vicino, / senza parlar stette a mirarlo alquanto / pallido come colto al mattutino, / è da sera il ligustro o il molle acanto» (Orlando Furioso, XLIII, 169). E il Marino in uno degli idilli della Sampogna (1620) vi si sofferma con inusitata immagine: «canuto ligustro, / che qual minuta stella, / imbiancando de l’orto il verde tetto, / emulo del celeste, / segnava in esso un bel sentier di latte, / fatto stella cadente, / precipitò dal suo fiorito cielo». Ricorre anche in Petrarca, Sannazaro, Boiardo, Tasso, Poliziano, Ciro di Pers, Foscolo, Parini e via e via. E sì, certo, pure in Carducci, per esempio in questi versi di Su i campi di Marengo: «E il conte palatino Ditpoldo, a cui la bionda / chioma per l’agil collo rose e ligustri inonda».
Tuttavia, nella poesia di D’Annunzio non si trova un ligustro nemmeno a pagarlo, e in Pascoli occorre in quattro testi ma sempre col nome popolare toscano di “ulivella” ben rispondente alla famiglia d’appartenenza, le Oleaceae.
Ecco una delle poesie famigliari, il rispetto pubblicato nelle Poesie varie curate da Maria e intitolato All’Ida assente, dove Giovannino, come con arguzia scrive Cesare Garboli, indossa «per casa, il vestito vecchio ma buono», e dove la rima “rondinella/ulivella” lo lega alla più matura Con gli angioli («Erano in fiore i lilla e l’ulivelle»):
O mia raminga, o rondinella mia,
ma dove l’hai murato il tuo nidino,
che al dolce suono dell’Avemaria
non ti sento zillar nel mio giardino?
Son fiorite le rose, o rondinella,
nevica a terra il fior dell’ulivella:
tanto amore sbocciò nei miei pensieri!
tanti baci sfiorirono! non c’eri.
Vi chiederete perché parlar di ligustri in fiore a gennaio, quando le corolle tetramere e imbutiformi, con il loro soave profumo, sono ormai solo un ricordo. Gioca in me la suggestione di quel “nevica a terra il fior dell’ulivella” che in Pascoli fa il paio con il più noto “il vento soffia e nevica la frasca” di Lavandare (in Myricae, sezione Ultima passeggiata). È immagine che ben rende il fitto tappeto delle bianche micro corolle sparse a terra che, così, continuano a dar spettacolo fino al loro ultimo respiro.
E poi, è bene riparare alla negligenza poetica che non si cura dei frutti. Raccolte in grappoli copiosi le piccole bacche tonde trascorrono dal verde brillante al nero profondo della maturità. Tossiche per gli umani sono assai gradite agli uccelli nel magro inverno e arredano lo spoglio giardino insieme alle belle foglie opposte, lanceolate, d’un lucido verde, persistenti se il clima non è inclemente.
Ve ne sono più di cinquanta specie, anche con foglia variegata, ma le più usate nei viali e nei parchi cittadini, nella non raccomandabile forma ad alberello, sono il Ligustrum japonicum e il Ligustrum lucidum, entrambe asiatiche d’origine, sempreverdi e dall’abbondante fioritura in panicoli piramidali. Io preferisco il più comune ligustro nostrano, dal più gradevole portamento arbustivo e docile alla potatura, perciò buono a far siepe. Il mio non l’ho nemmeno dovuto piantare, me l’han regalato gli uccelli: io mi godo l’olezzo estivo e loro, in questo mese dedicato a Giano, ne saccheggiano le bacche.