Recensione Camera: Capolavori della fotografia moderna 1900-1940 / L’occhio della fotografia

6 Aprile 2022

Trovarsi di fronte a quella parentesi della storia della fotografia che comprende i primi decenni del Novecento porta con sé inevitabilmente un senso di quieta nostalgia, come rimettere i piedi in un mare che non si toccava più da tanto tempo. Quel lieve brivido del “ritorno a casa”, di felice nostos, è ciò che sottilmente comunica la mostra attualmente visitabile presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia, a Torino. Questo vale per fotografi e non: ci si trova infatti di fronte a un corposo insieme di circa 230 immagini raccolte a partire dalla fine degli anni ‘70 dal collezionista Thomas Walther e risalenti a quello che viene considerato il periodo d’oro della fotografia.

 

L’epoca in questione è emozionante, infatti, soprattutto per un motivo: è costituita da una moltitudine di rivoluzioni minime, e questa collezione, consapevolmente o no, le ingloba tutte nel naturale flusso con cui si manifestarono di decennio in decennio.

È stata la prima volta che ho potuto vedere dal vivo immagini di autori ormai caduti nell’oblio, o che, peggio ancora, nell’oblio sono sempre restati, e in cui ora ci si può imbattere solo dopo accurate ricerche, o addirittura solo casualmente. 

 

Per iniziare a fare qualche nome e per approfondire brevemente il significato di quelle “rivoluzioni minime”, il primo autore che andrò a citare è Anton Giulio Bragaglia, di cui in mostra si può vedere, in una delle ultime sale, un ritratto del 1911 scattato al fratello Arturo dal titolo il fumatore il cerino la sigaretta.

 

Opera di Anton Giulio Bragaglia,


In breve, Anton Giulio Bragaglia è stato il primo a teorizzare in un libretto di una cinquantina di pagine, Fotodinamismo futurista, ora rintracciabile solo in poche biblioteche italiane, la tecnica del mosso. Il periodo in cui lo fece era un tempo in cui la fotografia non solo non la contemplava, bensì veniva etichettata come errore, niente più di uno scarto. Una delle prime piccole grandi rivoluzioni in fotografia è stata per l’appunto l’inclusione e la teorizzazione del mosso, tematica sulla quale ormai nessuno avrà da dire più niente e che di sicuro non farebbe vacillare l’opinione pubblica come invece fece in passato.

Nel ritratto si vede il soggetto compiere il gesto del portarsi alla bocca la sigaretta, lasciando impressionata la scia del gesto sulla lastra e impastando tutto il corpo che stava compiendo quell’atto. Partendo da questo dato non risulta un caso che Bragaglia si sia avvicinato anche al cinema, campo in cui è addirittura, e di gran lunga, più noto. 

 

Il cinema è l’altro grande filone delle opere esposte di sicuro interesse per lo spettatore: risulta evidente la reciproca influenza che le due arti hanno esercitato nei primi decenni del XX secolo, epoca in cui la forte spinta alla sperimentazione tecnica e formale ha dato vita non solo alle opere in mostra, ma anche ai capolavori del cinema espressionista tedesco e surrealista francese. Il percorso di visita non a caso inizia proprio con alcuni estratti di filmati realizzati nel periodo in questione, in cui è possibile avvicinarsi ancora di più al contesto ideologico con cui venivano affrontati i nuovi mezzi di espressione a pellicola. 

Esiste un saggio scritto da Coke Van Deren compreso nel volume Avanguardia fotografica in Germania 19191939, in cui viene suggerita una chiave di lettura a cui non ho potuto fare a meno di tornare guardando la mostra.

 

Alla domanda Perché la fotografia ha avuto una diffusione così vasta, in quel periodo? Togliendo il fatto che il quesito riguardava specificatamente il fenomeno circoscritto al territorio tedesco, la risposta veniva fatta risalire a due motivi: uscendo da un conflitto disastroso, approcciarsi a una qualsiasi novità tecnica e artistica infonde l’impressione di appropriarsi di un nuovo futuro, lasciando alle spalle il trauma del passato; in secondo luogo perché la fotografia porta con sé sia un contatto con la realtà materiale sia, soprattutto, la spinta a superarla e a trasformarla, implicando nella filosofia intrinseca di questa arte una certa speranza di rinnovamento. 

Questa propulsione è ciò che permea le fotografie in mostra ed è uno degli elementi che fa intravedere la visione generale con cui Thomas Walther ha scelto le opere per la propria collezione. È fondamentale, infatti, come anche dichiara il direttore di Camera, Walter Guadagnini, tenere conto che dietro a questa mostra ci sono l’occhio e la mente di un uomo solo, indubbiamente guidato da un disegno personale. 

Altri elementi che si può pensare abbiano guidato le intenzioni del collezionista sono quelli dell’umano e della forma. 

 

La prima sala, soprattutto, è ricca di ritratti e autoritratti in cui è visibile nell’immagine l’attrezzatura con cui sono stati eseguiti, rendendo di volta in volta la macchina fotografica soggetto e firma di un tempo. Si prenda l’autoritratto di Edward Steichen del 1917 o il ritratto a Jean Cocteau scattato da Germaine Krull nel 1929, o ancora il ritratto di Edward Weston a opera di Tina Modotti: la scelta delle immagini racconta dell’esistenza di un dialogo fitto tra i principali attori della fotografia e della cultura del tempo.

 

Autoritratto di Edward Steichen.

 

Ritratto a Jean Cocteau scattato da Germaine Krull.

 

Opera di Tina Modotti.

 

Questo aspetto, più sottilmente, è rintracciabile in un altro esempio in mostra, ovvero nella “Vortografia di Ezra Pound” di Alvin Langdon Coburn del 1916–17: il vorticismo, movimento poetico fondato in quegli stessi anni da Ezra Pound (ideatore prima ancora dell’imagismo, che già preannunciava il mescolarsi dei campi della cultura e della percezione), viene in quest’opera tradotto in immagine, creando una connessione semantica tra letteratura e fotografia. 

 

Opera di Alvin Langdon Coburn.


Man mano che si procede ci si addentra però anche in un discorso di contesto storico, camminando nelle città in fase di trasformazione architettonica, improntate sempre più all’aumento di densità di popolazione e all’innovazione industriale e tecnologica. 

Guardando l’immagine “Metropoli – la mia città natale” di Paul Citroen del 1923, collage psichedelico di più vedute urbane fitte di palazzi e grattacieli, senza che ci sia tra loro un minimo spiraglio e in cui ci si chiede chi, come e quanti esseri umani potrebbero districarsi in un mondo così architettato, è difficile non pensare a Metropolis, il film capolavoro di Fritz Lang o a Intolerance di David Griffith, entrambi di pochi anni prima, caratterizzati entrambi dalle medesime visioni cacofoniche urbane. 


Proprio l’aspetto “cacofonico”, quindi “dissonante” ci fa entrare con qualche intuizione in più nella sala “Sinfonia di una grande città”: la semantica musicale dei primi decenni del Novecento si stava infatti spostando sempre di più verso le sperimentazioni dodecafoniche di Schoenberg e pian piano verso l’improvvisazione jazz, prima negli Stati Uniti e poi verso l’Europa. Alfred Stieglitz intitola Musica sequenza di dieci fotografie di nuvole una sua serie di immagini studiate a comporre una sorta di suite visiva, mentre lo stesso nome della sala è preso dal titolo di un video di Walter Ruttmann del 1927 di cui è visibile un estratto all’inizio della visita.

 

Opera di Alfred Stieglitz.


L’intero percorso si può definire come un insieme di intuizioni totalmente felici a cui tutta la fotografia e il cinema successivi, in un modo o nell’altro, sono tornati, e in cui la stessa primordiale sperimentazione tecnica ha portato dei tentativi di forma al gradino di risultati effettivi. 

L’immagine Pochi secondi prima di atterrare di Will Ruge, parte di una serie di immagini scattate durante un volo in paracadute e che rappresenta i piedi del fotografo sospesi a una discreta altezza sui palazzi della città in cui sta per scendere, si lega quasi subito alla celebre scena del film 8 ½ di Fellini, in cui, in un contesto onirico, un piede fluttuante è legato a una lunga corda tenuta a terra da altri uomini. 

 

O ancora, l’immagine “Bombe incendiarie aeree” di un fotografo ignoto scattata tra il 1917 e il 1918, che ritrae una veduta dall’alto in cui si stagliano nette le scie fumose delle bombe lanciate su una città, crea un collegamento con intuizioni formali più recenti come quelle di Paolo Pellegrin, celebre reporter contemporaneo, che ha voluto allo stesso modo immortalare l’angoscioso effetto astratto, quasi pittorico, del lancio mortale di alcuni ordigni.

Oltre al naturale affetto che suscita il poter fruire delle stampe vintage di ogni autore e nel ritrovare, come si diceva all’inizio, quei porti sicuri che tanto hanno dato al nostro immaginario storico e fotografico, come i nudi distorti di Kertész o l’approccio costruttivista affine al Bauhaus di Laszlo Moholy-Nagy, la mostra fa compiere allo spettatore come un rito di discesa verso l’incontro diretto con gli avi di un’arte, ormai così apparentemente lontani da riuscire a masticare a fatica il loro linguaggio naturale.
Per gli occhi della fotografia contemporanea, questa mostra è essenziale: aiuta a riappropriarsi sì di una grammatica che risulta ora affascinante anche se obsoleta, ma soprattutto di un approccio ideologico nei confronti della fotografia, slegandola per un momento dal destino ormai conferitole che la vede gettata nel bacino mediatico dell’espressione veloce. Questo approccio è in primo luogo quello di vedere la fotografia come veicolo di idee e le idee come immagini, fenomeno possibile tramite il rilevamento e la rivelazione delle metafore nascoste nel mondo materiale. Un criterio passato può così potenzialmente dare luce per un metodo futuro auspicabile o semplicemente possibile. 

La realtà – o parte di essa – viene registrata per poter essere letta e percepita, utopicamente compresa, fiduciosamente ricordata o trasformata. 

La mostra e la stessa collezione lasciano così aperto il cerchio come il primo movimento di un concerto fa emergere il tema originario su cui è stato architettato il resto della musica, quello a cui naturalmente tornerà sempre, rendendoci in grado di catturarne ancora i riverberi.

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