Luchino by Testori
Sulla copertina rosso fuoco si leggono il nome dell'autore, “Giovanni Testori”, il titolo, “Luchino”, e – oltre al nome dell'editore, ovvero Feltrinelli – si precisa che il libro è “A cura di Giovanni Agosti”. È un volume massiccio, di oltre 400 pagine, ma il ritratto che Giovanni Testori ha dedicato a Luchino Visconti ne occupa solo una piccola parte, una novantina di pagine, che per circa metà sono fotografie.
L'omaggio di Testori al regista, che avrebbe forse dovuto uscire da Feltrinelli nel 1972, è riemerso vent'anni fa ma arriva in libreria solo ora. Come è accaduto per le Prove di autobiografia di Luca Ronconi, un altro testo perduto e ritrovato, il materiale offre a Giovanni Agosti l'occasione per provare a “chiudere conti” con un maestro del Novecento, stratificando intorno al nucleo centrale una complessa architettura, che compone un dittico: nel 2019 Prove di autobiografia, l'incompiuto libro-intervista commissionato da Franco Quadri a Maria Grazia Gregori per Ubulibri e recuperato dall'Archivio Ronconi; ora questa intensa e rapsodica psicobiografia di Visconti. A questo punto nella trinità dei registi teatrali italiani con cui Agosti deve “chiudere i conti” sembra mancare solo Giorgio Strehler.
Nel volume pubblicato da Feltrinelli, Luchino è preceduto da una prefazione di una trentina di pagine, Luchino e Giovanni (o il conte e lo scrivano), dove si accenna anche al loro complesso rapporto. I due si conoscevano bene. Visconti usò i romanzi di Testori al cinema per Rocco e i suoi fratelli (1960) e poco dopo allestì in teatro la sua Arialda, creando nei due casi grande scandalo e complicando la relazione tra i due artisti.
Per guidarci alla lettura dell'omaggio testoriano a Luchino, Agosti ha stilato 150 pagine di fitte note, in un fuoco d'artificio che – a partire da una parola, da un luogo, da un personaggio – allarga ogni volta lo sguardo alla biografia di Visconti, alla famiglia, alle case-museo, ai cavalli e ai cani, ai molti amici e nemici, alle ossessioni e alle passioni culturali (e figurative), al contesto politico e culturale. Senza dimenticare gli affondi nella vita e nelle opere di Testori. Infine, prima dell'indice dei nomi e delle regie viscontiane e dei crediti fotografici, Una fantasia su temi viscontiani, che serve appunto a “chiudere i conti”. Tutto intorno, disseminati nei margini delle pagine, indici numerici e testatine, in un labirintico ipertesto con centinaia di rimandi incrociati tra i testi, le immagini, le note... Le illustrazioni disseminate nel corpo del volume offrono un ulteriore livello di fascinazione e chiavi di lettura, considerato che Agosti è prima di tutto uno dei più affilati storici dell'arte attivi in Italia.
E poi bisogna vedere (o rivedere) i film, i video degli spettacoli, le interviste... E non solo quelli del maestro: lo zoom si allarga ad antecedenti ed epigoni, perché di questo si tratta: rimettere Visconti al suo posto, come l'anello di congiunzione tra il primo Novecento, quello sublime di Marcel Proust (e del padre dello stesso Visconti, che sembra uscire dalle sue pagine), e gli anni Settanta-Novanta, quelli di Patrice Chéreau, Rainer Werner Fassbinder e naturalmente Luca Ronconi. Mentre intorno, a controcanto, osservano la scena Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini.
Nella composizione di un volume che si allarga a diversi palcoscenici e lancia mille sguardi “dietro le quinte”, Agosti sembra procedere come Visconti che, malato di collezionismo, arredava le sue principesche dimore accumulando oggetti come in una Wunderkammer:
“le uova e gli obelischi di marmo, le mandrie di tori in bronzo che riempiono i ripiani dei suoi tavoli vanificano se stesse proprio per la quantità e la ritmica, ossessiva ripetizione delle loro non troppo alludenti significazioni” (p. 96).
E poi le decine di vasi di alabastro sul bordo della vasca, le centinaia di fotografie in anticamera... Viene un sospetto, come scrive Testori:
“mi par più che lecito chiedersi se il loro accumulo non sia forse bisogno di distruggere la fastidiosità insita in ciò che si propone come determinazione esterna e rivelata d'un simbolo che, invece, dovrebbe restare, perennemente, imboscato, intrufolato e nascosto” (p. 97).
Agosti offre prima di tutto una lezione di metodo, a partire dalle sue competenze di storico dell'arte. Per capire l'opera di Visconti, è necessario inserirla nel suo contesto: un “aiutino” indispensabile per chi non ha vissuto quegli anni, per chi non ha visto, per chi non sa, per chi non ricorda... Sono mille le piste da approfondire, prima di tutto sul versante storico, a cominciare dall'amicizia con il segretario del PCI Palmiro Togliatti, quasi a comporre un trittico con due altri “compagni di strada” eccellenti di quegli anni, Giangiacomo Feltrinelli e Giulio Einaudi. Ma anche nell'approccio allo spettacolo, con l'invenzione della regia teatrale, e nell'evoluzione del gusto, da cui Visconti distillerà il suo stile, ora anticipando ora contrastando le mode.
“Only connect... Nient'altro che connettere”, diceva il motto di Casa Howard di Forster. “Only re-connect”, sembra suggerire Giovanni Agosti: ricostruire i legami tra due personaggi, tra quell'oggetto e il suo creatore, tra quella pagina e quel fotogramma... È un metodo che accumula fatti (le prove, i documenti, gli archivi...), in un percorso potenzialmente infinito, fino al dettaglio in apparenza più insignificante. Ci interessa certo moltissimo sapere dove Giovanni Testori ed Helmut Berger hanno fatto l'amore, ma è davvero importante?
Il metodo Agosti può anche essere una trappola, come accade con “el memorioso” Funes immaginato da Borges, così occupato a ricordare tutto da non poter più fare niente. O forse è ancora peggio: come il vagabondaggio in rete, innesca la curiosità di connessioni sempre nuove, lungo piste che promettono ogni volta un qualche tesoro e che ci allontanano dal punto di partenza, ma anche dalla meta... O forse la ricerca del tempo perduto è proprio questo: un vagabondaggio senza fine alla ricerca di una realtà inafferrabile, come in Blow Up di Michelangelo Antonioni.
Invece al di là della vertigine, nella nota finale il bersaglio di questo bombardamento emerge preciso. Visconti è stato per molti aspetti ingiustamente dimenticato, suggerisce Agosti, eppure è uno snodo centrale nella cultura del Novecento, perché ha accompagnato e raccontato con poetica lucidità la crisi della borghesia, la sua dissoluzione, fino all'estremo, oltre il disgusto. Chi è arrivato dopo di lui, inseguendo la sua scia, ha solo potuto constatare la dissoluzione dell'ordine borghese, rilanciare l'eco nauseante, e per questo ancora più dolorosa, della sua autodistruzione. È la chiave per capire gli oltraggi di certo Chéreau, il Pasolini “borghese” delle tragedie e di Salò, l'angoscia dello sradicato Fassbinder... Ma forse c'era già tutto in Visconti, anche nel crescente disagio e nell'impotenza degli ultimi anni.
La rimozione di Visconti, e di molta grande letteratura novecentesca, dal canone (o dal mainstream, dal midcult imperante) dipende forse anche dal fatto che quella arrivata dopo quell'esplosione di bellezza devastata e straziante è un'arte post-borghese, non più anti-borghese. L'egemonia culturale della borghesia è tramontata con il permissivismo del '68 ed è stata travolta dall'avvento della società dei consumi, che prima hanno smascherato e vanificato i principi su cui quella classe sociale aveva costruito il proprio dominio e poi li hanno monetizzati. I drammi del Novecento vivevano del conflitto tra l'individuo e le ipocrisie di un reticolo di micropoteri violenti e repressivi: quello che Luis Buñuel definiva ironicamente un “fascino discreto”. L'incompatibilità tra padri e figli ha reso il fascismo lo sbocco inevitabile della crisi. L'arte era lo strumento di consapevolezza e dunque di liberazione – o almeno giustificava la nausea e la rivolta.
Il capitalismo globalizzato è post-borghese. Fa tranquillamente a meno dei valori e del decoro, se non per scimmiottarli grazie ai “brand del lusso”. Gli obelischi e gli alabastri di Visconti si sono degradati nella pacchianeria alla Versace, e li possiamo comprare taroccati sulle spiagge della Versilia. Luchino Visconti, l'aristocratico comunista che ha radiografato la dissoluzione della borghesia, il regista che con Bellissima (1951) aveva anticipato il degrado di talent show e influencer, compreso l'abisso morale dei genitori-manager, non avrebbe certo frequentato gli outlet per collezionare i tesori del kitsch di massa.