Tra ferite senza rimedio e speranze di un’Italia migliore / L’ultimo anno di guerra di Nuto Revelli

25 Aprile 2019

L’8 settembre del 1943 Nuto Revelli, tenente del battaglione Tirano, si trovava in convalescenza a Cuneo, la licenza gli era stata concessa dall’Ospedale di Savigliano in conseguenza delle ferite subite in Russia e della pleurite contratta durante la ritirata. Era stato proposto per due medaglie d’argento meritate sul campo, ma si sentiva profondamente deluso ed esacerbato nell’animo. Dopo aver creduto nell’esercito e nelle ragioni del conflitto, aveva capito in Russia di essere stato trascinato insieme a migliaia di altri giovani in una assurda guerra di aggressione, voluta da uomini privi di umanità, di etica e anche di competenza. Aveva visto con i suoi occhi la ferocia degli alleati tedeschi, la corruzione e il caos nelle retrovie italiane, l’inadeguatezza di mezzi e di generali, la morte e la sofferenza di tanti commilitoni.

Nei giorni successivi aveva quindi deciso di allontanarsi dalla città, organizzando il suo primo nucleo di “ribelli”. Lo chiamerà Compagnia rivendicazione caduti. Il nome deriva dal desiderio di ricordare e vendicare i tanti alpini morti inutilmente nelle immense distese gelate della Russia e degli altri luoghi dove erano stati destinati a combattere e a morire.

 

Nella provincia di Cuneo intanto erano nate le formazioni partigiane Italia libera di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco, che si richiamano al movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà (da cui poco tempo dopo prenderanno il nome), fondato in Francia dai fratelli Rosselli e da Emilio Lussu. Nuto aveva incontrato Dante Livio Bianco, questi gli parla a lungo di Gobetti, di Carlo Rosselli, di Lussu, di un rinnovamento politico e sociale che vada oltre la liberazione dalla dittatura fascista. Revelli all’inizio era diffidente: aveva immaginato una rivolta di tipo militare, per senso di giustizia e desiderio di libertà, senza troppo implicazioni politiche. Poi si era convinto che per combattere era importante istruire gli uomini all’uso delle armi e alle strategie ma era necessario anche dar loro una speranza, obiettivi di democrazia e di civiltà.

Aveva seguito Dante Livio Bianco e i suoi uomini della banda Italia Libera a Paraloup, un piccolo gruppo di baite di pietra a secco sulle montagne a ovest di Cuneo. Nei mesi successivi, per il suo carisma e soprattutto per le sue virtù militari, era divenuto uno dei più apprezzati comandanti di Giustizia e Libertà. Dapprima, nella primavera del ’44, gli era stato affidato il compito di occupare il vallone dell’Arma, sulla sinistra orografica della Valle Stura, e poi di sfuggire a un grande rastrellamento tedesco. La tattica di muoversi veloce sugli alti crinali, sparando con raffiche ben coordinate negli scontri, si era rivelata efficace, la sua brigata alla fine era riuscita a sganciarsi, restando libera e in piena efficienza, poche le perdite. 

Quando poi nella seconda metà di agosto i tedeschi avevano preparato un forte attacco in Valle Stura, a Revelli era stato affidato il comando della Brigata “Carlo Rosselli”, che presidiava la valle. L’aveva difesa con accanimento e perizia, rallentando notevolmente la marcia della 90 ͣ Panzergrenadierdivision. Alla fine, in accordo con gli alleati americani, inglesi e francesi, erano riparati in territorio francese, con l’obiettivo di mantenere la propria autonomia e pianificare attacchi veloci contro le linee nemiche.

 

 

19 settembre del 1944: quel giorno avviene uno scontro a fuoco che avrà tragiche conseguenze e che, per gli avvenimenti conseguenti, sconvolgerà la vita di Nuto Revelli. L’azione è predisposta dal capitano Flygt d’intesa con il comando dei paracadutisti americani: si tratta di attaccare le postazioni tedesche, in unità di azione con una pattuglia americana, in località La Bollène, sotto il colle di Turinì. Nell’azione sono coinvolti Nuto Revelli, Dante Livio Bianco, Walter Cundari, e altri cinque partigiani, tra questi l’infaticabile Giuseppe Scagliosi, che insiste per partecipare nonostante il suo compito di medico della brigata lo impegni pesantemente. Il camion con i partigiani, preceduto dalla Jaguar del capitano Flygt, si dirige verso La Bollène, una volta arrivati si avviano a piedi verso le linee tedesche, vi giungono dopo due ore di salita nel bosco. Arrivati ad una radura qualcosa insospettisce Revelli: fa appena in tempo a ordinare “via!” che arrivano i colpi di un mitragliatore tedesco. È un’imboscata. Si accorgono di essere circondati. “Siamo salvati da Nuto Revelli e Livio Bianco che fanno la differenza, e con il loro coraggio riescono a contenere l’assalto. Sparano con il loro Thomson e cercano di portare in salvo il dottor Scagliosi, rimasto colpito al femore e impossibilitato a rialzarsi”. Così descriverà lo scontro Walter Cundari. Il racconto coincide con quello di Revelli: “Sono al fianco di Scagliosi: Livio Bianco, superati i primi reticolati spara con il suo Thomson sui tedeschi che incalzano da tutte le parti. Trascino Scagliosi per pochi metri, poi sparo disperatamente. Mi trovo Livio Bianco al fianco: è tornato avanti, ha superato i reticolati, afferra Scagliosi e lo trascina faticosamente, dritto sotto un inferno di fuoco. Ci difendiamo a bombe a mano, riusciamo a superare la prima fascia di reticolati: Scagliosi è ancora con noi, Livio lo trascina, ostinatamente” (Turinì, in “Resistenza”, anno VII, giugno - agosto 1953). 

Mentre si ritirano, a una biforcazione purtroppo il capitano Flygt prende il sentiero sbagliato e il gruppo si dirige verso il comando tedesco che, allarmato dagli spari e dagli scoppi delle bombe a mano, ha inviato una pattuglia. Altra sparatoria, i proiettili grandinano sul terreno e sugli alberi, il capitano Flygt urla di dolore, è stato ferito allo stomaco. I partigiani si disperdono e fuggono, Scagliosi urla a Nuto e Livio di abbandonarlo per non cadere anche loro uccisi o prigionieri. 

 

 

A sera, uno dopo l’altro riescono ad arrivare alla chiesetta fuori dell’abitato di La Bollène, avamposto dei paracadutisti americani. Ma Flygt e Scagliosi sono rimasti nelle mani dei tedeschi. Revelli si dispera: Scagliosi, oltre ad essere il medico della brigata, è un caro amico e ha sposato la sorella della fidanzata di Revelli. L’azione risulta fallimentare: prima di ordinarla il comando del 509° gruppo paracadutisti USA avrebbe dovuto effettuare delle ricognizioni, sarebbe così emerso che erano arrivate truppe fresche tedesche a rinforzo. 

Nei giorni successivi, nessuna notizia dei due prigionieri, e così Revelli e Cundari il 24 settembre partono in moto verso Lantosque e Roquebillières, dove è dislocato il comando americano: l’obiettivo è ottenere l’inserimento dei due in uno scambio di prigionieri.

Ad una curva però la moto, guidata da Revelli, esce di strada, l’impatto è disastroso. Cundari riporta una frattura frontale che si rivelerà poi guaribile in tempi brevi, Revelli invece è gravissimo, si rialza per qualche istante e poi sviene: il viso ha impattato una piastra di mortaio a lato della strada ed è completamente devastato. “Non vedo più nulla. Rinvengo, tra il sangue. Faccio forza sulle braccia per alzarmi. ‘Volf, Volf, sono spacciato’, e svengo ancora”. (…) butto le mani sul mio povero volto sfasciato, sento le ferite profonde, sento di essere grave”.

 A 25 anni il suo giovane volto è distrutto, non ritroverà mai più una composizione regolare. E il tutto inutilmente: subito dopo la fine della guerra infatti, Revelli e Cundari torneranno a Turinì e, da un prigioniero tedesco addetto a sminare la zona, verranno a sapere che Flygt era stato curato e poi inviato in un lager in Germania, Scagliosi invece era stato prima malmenato e poi lasciato morire dissanguato, dopo una lenta agonia. “Era solo un terroristen, nessuna cura” disse il tedesco.

Erano tempi che poteva esserci pietà per un prigioniero inglese, non per un partigiano ferito. 

 

Dopo il terribile incidente motociclistico, Revelli e Walter Cundari sono portati in ambulanza a Nizza, presso l’albergo Hermitage, dove è stato organizzato un ospedale dell’esercito americano, ma già nella notte sono ricoverati nel più attrezzato padiglione militare dell’ospedale Pasteur, sulla collina dell’osservatorio astronomico. 

Nuto si aggrava ed entra in coma, ci resterà per alcuni giorni: il setto nasale non esiste più, e le profonde ferite si sono infettate. La mancanza di penicillina impedisce di curarle. Uscito dal coma, Revelli si preoccupa subito di conoscere la sorte di Giuseppe Scagliosi, l’amico ferito e presumibilmente catturato dai tedeschi nello scontro di Turini. Riesce a ottenere dagli americani di poter interrogare alcuni tedeschi catturati nei dintorni del luogo dello scontro, ma non ricava alcuna notizia. 

Dopo alcuni giorni, Cundari si riprende dalle ferite e riparte per raggiungere la brigata Rosselli, Revelli invece deve restare in ospedale, l’infezione è peggiorata, inizia per lui un calvario di cure lunghe e dolorose. 

 

 

Dopo un mese di terapie poco adeguate, il 19 ottobre i medici gli spiegano che l’occhio destro deve essere operato, e così la mascella fratturata. Sono necessarie operazioni in cliniche specialistiche; in ogni caso il suo viso non sarà più quello di prima, ammesso che riacquisti una fisionomia accettabile. Revelli vorrebbe almeno risolvere presto i problemi di respirazione e della vista che gli rendono impossibile una vita normale. Intanto, continua ad avere febbre a causa delle infezioni.

Lo aiutano alcuni amici di Giustizia e Libertà esuli in Francia, come Marcella Migliorini, del CLN di Nizza, e partigiani giellisti come Agostino Fossati, detto Tino. Il CLN sostiene i costi delle operazioni e delle cure ma le risorse a disposizione sono limitate. Il 2 novembre del ’44 Revelli raggiunge Parigi per sottoporsi a degli interventi chirurgici che dovrebbero restituirgli un volto e una vita sostenibile. Per contenere le spese alloggia in alberghetti modestissimi, spesso divenuti luoghi di incontri sessuali a pagamento per militari di varia nazionalità. 

 

La ferita più profonda, quella in mezzo al viso, dove una volta c’era il setto nasale, non riesce a rimarginarsi. Sarebbe opportuno aspettare prima di sottoporsi ad una operazione per ricostruire naso e viso, ma Revelli teme che il CLN possa interrompere i già modesti contributi alle cure, e vorrebbe rientrare prima possibile in azione, in Italia, dove si combatte per la liberazione. I chirurghi vorrebbero rinviare l’intervento, che prevede l’estrazione di un segmento di costola per la ricostruzione del naso. Lui insiste per fare presto.

L’operazione viene effettuata il 14 novembre, al risveglio il dolore al viso e al costato è insopportabile. Quando il giorno dopo si guarda allo specchio la delusione è profonda, il viso è irriconoscibile, con qualcosa in mezzo che gli pare enorme e posticcia. 

Nei giorni successivi, prostrato, attende di capire se l’operazione è riuscita. “Penso ai miei con malinconia. Penso ad Anna con disperazione: come sempre! Ho troppo tempo per pensare. Anche a Pino penso (Giuseppe Scagliosi ndr), al distacco. Mi è rimasto negli occhi quel suo sguardo implorante, rassegnato”.

Meno di dieci giorni dopo una delle ferite si apre. I medici decidono di rioperare per scongiurare il rischio di una infezione all’innesto osseo, ormai scoperto, che ne determinerebbe l’estrazione e metterebbe in pericolo la vita di Revelli. I chirurghi riaprono la ferita e raschiano la cartilagine, a freddo, senza anestesia. 

Gli spiegano che anche l’occhio dovrà subire un intervento, con l’asportazione del sacco lacrimale, problemi anche per la mascella. 

 

 

A fine novembre l’infezione si aggrava, gli gonfia l’intero viso; lo operano ancora, gli asportano un pezzo della costola innestata. Seguono giorni in cui le ore non passano mai, nella stanzetta buia e fredda del piccolo albergo dove alloggia. Il vitto è minimo: pane nero, patate, latte e a volte una mela. “Sono stanco di stringere i denti, di resistere, di non piangere: stanco da non poterne più”. 

Intanto riceve lettere dalla brigata Rosselli che lo aggiornano sulla situazione militare e politica. I rapporti tra partigiani italiani e maquis francesi, buoni durante la primavera e l’estate del 1944, si deteriorano in autunno, quando riprendono il sopravvento le autorità militari francesi che, anche facendo leva sul risentimento della popolazione per l’attacco del 1940 e la successiva occupazione da parte italiana, mirano a modificare la linea di confine a vantaggio della Francia. Il problema più urgente riguarda la volontà dei francesi di trasferire la brigata Rosselli a Mentone, riducendola a unità del loro esercito, e con la divisa del medesimo. Minacciano, in caso di rifiuto, il disarmo e l’internamento dei partigiani italiani in campi di detenzione. Contano sul fatto che, in pieno inverno e mal equipaggiati, i partigiani non potranno valicare le Alpi e tornare in Italia, e saranno quindi obbligati a sottomettersi. Revelli e gli ufficiali che lo stanno sostituendo a Belvedere si oppongono decisamente: restare autonomi è indispensabile per conservare dignità e per non compromettere i futuri sviluppi politico-territoriali. 

I suoi partigiani, sapendolo a Parigi, lo immaginano vicino ai centri decisionali, e gli scrivono chiedendogli di intervenire sugli alti comandi francesi, si illudono sulle sue possibilità di pressione. Revelli in realtà è un ferito grave che vive in un piccolo locale gelido e buio.

 

Privo di penicillina, fatica a riprendersi e rischia anzi di perdere ogni possibilità di guarigione, riesce a dialogare di persona solo con ufficiali di medio rango. Scrive comunque senza requie ai comandanti francesi e al CLN di Nizza, non molla. Proprio una sua lunga e dettagliata relazione del 17 dicembre, al capo di Stato Maggiore, generale Alphonse Juin, è decisiva per preservare l’autonomia della brigata. Revelli rievoca le attività partigiane dall’inverno del ’43 in avanti, l’occupazione delle valli, i rapporti con i maquis francesi, i combattimenti dell’agosto ’44 in Valle Stura, lo sconfinamento in Francia e la guerriglia successiva contro i tedeschi, contesta l’ordine ingiusto di integrazione nell’esercito francese e dichiara che “…qualora vedessimo compromessa la nostra autonomia, siamo decisi a rivalicare le montagne, a costo di qualsiasi sacrificio di sangue, male equipaggiati non importa, portandoci dietro i nostri feriti e i malati, e il ricordo dei nostri morti in Francia, certi che l’aiuto in viveri accordatoci è stato ripagato dalla nostra attività, esplicata con il massimo senso del dovere, come è stato riconosciuto dai comandi francesi e di cui fanno fede gli elogi scritti dei comandi americani. Il Comandante Nuto”. La lettera ottiene il suo scopo, dai comandi parigini dell’esercito francese nei giorni successivi arriva lo stop al processo di incorporazione e a fine anno la revoca definitiva. 

Da Belvedere gli giungono anche lettere di contenuto più personale, piene di sconforto per la forzata inattività e le discussioni tra le varie componenti, e di rimpianto per i giorni di guerriglia partigiana e di libertà tra le montagne del Cuneese. 

A fine anno, ancora febbricitante e per le ferite infette, Revelli parte da Parigi per Nizza, vuole incontrare il CLN. 

 

 

Lì, il 4 gennaio, apprende con dolore che Duccio Galimberti, compagno di guerra partigiana e comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà in Piemonte, è stato ucciso dai fascisti un mese prima a Cuneo. 

Il 5 gennaio riesce finalmente a raggiungere Belvedere, la sede della brigata, insieme ad alcuni rappresentanti del CLN: l’accoglienza dei partigiani è festosa. Così lo ricorda uno dei suoi ufficiali, Aldo Ferrero (in nota, Aldo Ferrero, Terroristen, Mursia, 1996): “5 gennaio. Nel pomeriggio arriva Nuto in jeep. Lo trovo abbastanza bene. I risultati delle operazioni di plastica finora subite non sono certo un capolavoro, ma il suo miglioramento è sensibile. (…) a poco a poco si passa in rivista tutta la situazione. Particolarmente lunga la discussione circa la funzione politica della brigata”. 

Nonostante la febbre lo assalga periodicamente riesce a partecipare a molti incontri con gli alleati. Gli inglesi sostengono le ragioni degli italiani, Revelli gode di grande considerazione tra loro, per il valore dimostrato in agosto nella battaglia della Valle Stura. Gli americani sono indifferenti. 

Nella brigata Rosselli qualcuno vorrebbe sostituirlo, a causa della sua impossibilità a restare stabilmente a Belvedere, altri ritengono invece che nessuno abbia le sue doti di competenza e carisma.

Revelli fa una spola faticosa tra Nizza e Belvedere, insieme agli altri ufficiali, lotta per difendere l’autonomia della brigata, e ci riesce: dovrà coordinarsi e adeguarsi alle direttive dei comandi alleati, ma continuando a rimanere autonoma e italiana, agli ordini dei vertici piemontesi di Giustizia e Libertà. 

Il 18 gennaio del ’45, il persistere di febbre e infezione spingono i medici a un intervento rischioso: iniettare penicillina nel vivo della ferita. Il giorno dopo, il risveglio per Revelli è finalmente felice, la febbre e soprattutto l’infezione sono sparite. 

 

Nei primi mesi dell’anno continua l’attività di guerriglia della brigata, ma fervono i preparativi per il ritorno in Italia. Dopo alcune richieste negate, i partigiani comprendono che solo spezzando l’unità in più tronconi potranno avere il via libera degli alleati, sempre divisi sul riconoscimento da accordare loro. Il rientro avviene quindi in modi diversi e per tragitti resi difficili e pericolosi sia dal prolungarsi dell’inverno particolarmente rigido sia dal persistere della resistenza tedesca. 

Revelli è stanco e debilitato da mesi di sofferenze e di infaticabile attività, ed è preoccupato: teme l’incontro con Anna e i suoi famigliari, che lo rivedranno con un volto irreparabilmente devastato, e quello con la moglie e i famigliari di Giuseppe Scagliosi. Dalle lettere ricevute, sa che sperano ancora. “29 marzo. Sono mal ridotto in salute. È la tensione nervosa che mi tiene in piedi. Otto interventi chirurgici, uno dopo l’altro, senza soste, e dovrei subirne altri per migliorare, ma non mi interessa più… Sono peggio conciato “dentro” che non al viso. Tento di legarmi alla vita, ma non sempre ci riesco… (…) penso ad Arnatouvo. Il povero S. aveva i piedi in cancrena, e andò avanti scalzo, allo scoperto: per cercare la sua fine, per non tornare…”. 

Nuto, con una pattuglia tenta di individuare dei passaggi sicuri tra montagne e ghiacciai, e con le postazioni tedesche ancora integre. Provano il sentiero che porta al rifugio Nizza e poi al valico, tra nebbie e nevai. Niente da fare, ma il rifugio diviene un punto di riferimento logistico, e anche emotivo. “18 aprile. Dovrei scendere, perché giù mi aspettano. Ma queste montagne mi ridanno la vita…”. 

Infine, il 25 aprile partono da Guillestre e, dopo dieci ore di marcia, a volte sprofondando nella neve, arrivano alla linea del Colle del Maurin, il valico alpino che delimita la Francia e l’Italia, la valle dell’Ubaye e la Val Maira. 

 

Il 28 aprile Cuneo è ancora occupata: i fascisti sono scappati ma i tedeschi resistono a oltranza, non vogliono arrendersi ai partigiani, presidiano punti nevralgici come piazza Vittorio (la futura piazza Galimberti), corso Umberto, corso Garibaldi, via Vittorio Amedeo. Si combatte strada per strada, attorno alla città l’assedio si sta chiudendo ma all’interno si accendono sparatorie improvvise, molti i caduti e i feriti. Anche Nuto spara con il suo Thompson: da un angolo di piazza Vittorio vede una decina di tedeschi attorno a un cannoncino anticarro, fanno parte della Kommandantur di corso Garibaldi. Spara a raffiche brevi, e colpisce. 

Arriva poi vicino alla casa della sua famiglia, lo avvisano che il padre è ferito: era in giro per la città in cerca di lui, e un tedesco gli ha sparato una fucilata a sangue freddo, colpendolo a una gamba. 

“Mio padre. È steso, con una gamba bucata: fortunatamente salvo. Mi guardano, i miei, mi guardano in viso e trattengono le lacrime, non a lungo. (…) Cuneo è in festa: una festa immensa, la liberazione. Chiude le finestre. Arriva la mamma di Pino, le parlo di Turini. Lei non mi crede”. 

A 25 anni, Nuto Revelli ha alle spalle la ritirata di Russia e la guerra partigiana, e porta sul viso e nell’animo ferite senza rimedio. Adesso deve ricominciare a vivere. 

Il 30 aprile il grosso della Brigata Rosselli, 130 uomini, dopo un lungo percorso a piedi dalla Francia, giunge a Cuneo e percorre il corso Nizza per congiungersi con le altre. È forse l’unica composta da autentici partigiani, senza infiltrazioni dell’ultima ora. 

Nei giorni successivi la smobilitazione, con la consegna delle armi al distretto militare. Uomini che hanno combattuto i tedeschi tra le montagne italiane e francesi, che hanno ottenuto riconoscimenti dai comandi alleati e indirettamente dai tedeschi, che li hanno citati nei loro bollettini, si trovano a fare i conti con una nuova vita: la ricerca di un lavoro, la ricostruzione di una casa che spesso ritrovano distrutta, la speranza di non essere traditi o dimenticati. In tutti il pensiero corre ai caduti, sulle montagne, nelle carceri o nei lager, al loro sacrificio per un Paese più libero e più giusto.

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