Massimo Zamboni, La mia patria attuale
“Le strade e le piazze delle città, teatro un tempo della nostra noia di adolescenti e oggetto del nostro altezzoso disprezzo, diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le parole «patria» e «Italia», che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché sempre accompagnate dall'aggettivo «fascista», perché gonfie di vuoto, ci apparvero d'un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D'un tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava.
Una verità così semplice e così ovvia ci parve strana perché eravamo cresciuti con la convinzione che noi non avevamo patria e che eravamo venuti a nascere, per nostra disgrazia, in un punto gonfio di vuoto. E ancor più strano ci sembrava il fatto che, per amore di tutti quegli sconosciuti che passavano, e per amore di un futuro ignoto ma di cui scorgevamo in distanza, fra privazioni e devastazioni, la solidità e lo splendore, ognuno era pronto a perdere se stesso e la propria vita.”
Chiedo scusa se per parlare di La mia patria attuale, l’ultimo disco del musicista e scrittore Massimo Zamboni – fondatore e anima con Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP/CSI – mi appoggio a questa lunga citazione di Natalia Ginzburg. Ma è da qui che credo sia necessario partire, da quelle donne e quegli uomini che oltre settant'anni fa trovarono la forza di lacerare quella parola ingombrante, patria, per rigenerarla da capo, fuori dalle retoriche sudice e dagli accenti criminali nei quali il nazionalismo, prima, e il fascismo, poi, l’avevano sprofondata.
Peraltro, con la memoria della lotta partigiana Zamboni si è confrontato più volte, cercando di mantenere vivo il nucleo caldo di quella esperienza fondativa, riconoscendone la forza proprio nella natura dolente e pulsante, senza retoriche o intenti museali.
Lo fece promuovendo Materiale resistente (1995), un progetto che in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione ha rivisitato la natura ribelle dei canti partigiani consegnandoli alla generazione dei nipoti, seguito da La terra, la guerra, una questione privata (1998), live dedicato a Beppe Fenoglio e alla Resistenza che coglie un vero e proprio momento di grazia del Consorzio Suonatori Indipendenti. Per passare ai lavori successivi allo scioglimento della band: Breviario partigiano, uscito nel 2015 ancora con gli ex-compagni dei CSI e la voce inconfondibile di Angela Baraldi, fino a L’eco di uno sparo, libro peculiare e unico – romanzo familiare sulla guerra civile, autobiografia antropologica della terra emiliana, ma anche racconto giallo – che lo ha fatto conoscere come scrittore di vaglia.
Del resto Massimo Zamboni ha questa capacità rara di sperimentare e di muoversi nello spazio e nel tempo rimanendo coerente a uno sguardo lungo, che nel corso degli anni, di opera in opera e di progetto in progetto, ruota intorno a un contesto ben preciso, fatto di luoghi (al plurale) e di storia (al singolare), al quale s’appartiene senza rimpianti o nostalgie, perché appartenere non fa rima con possedere. Rimanere fortemente radicato alla propria patria d’elezione – l’Emilia, Berlino, la Mongolia, la ex-Jugoslavia... – senza cristallizzarsi in forme statiche ed escludenti.
Questo equilibrio ambivalente tra radicamento e nomadismo, appartenenza e ribellione, si rispecchia d’altronde nella scrittura di Zamboni – che sia in un libro, in un articolo o in parole cantate – una scrittura cesellata al millimetro ma aperta a scarti improvvisi e a sterzate di senso. Un procedere laterale ma tuttavia centrato, sostenuto da un montaggio analogico che inanella situazioni emblematiche con effetti a volte paradossali a volte spiazzanti, ma capaci di rischiarare e far procedere il pensiero, perché l'insieme è sempre qualcosa di più della somma delle singole parti.
“Si chiama casa, questa valle padana di lacrime. Casa. Noi, questa terra, la sua unicità. Cantarla per costruire non una memoria, ma un'epica della memoria, magnificarla come nell'antico e con quel canto creare un fondamento per ciò che sarà”, scrive in apertura del suo ultimo libro La trionferà, ritratto sentito di come l’ideologia comunista si è incarnata nella vita del piccolo paese emiliano di Cavriago, l’unico che può ancora vantare un busto di Lenin nella piazza principale. Ma soprattutto come si è incarnata nelle storie dei suoi abitanti, individui immersi nell’urgenza delle loro ideologie ma anche in una quotidianità minuta e contraddittoria, come in quella dello stesso Zamboni.
Perché dedicare oggi un’intensa manciata di canzoni ad un concetto come patria, così problematico eppure mai del tutto derubricabile? La prima risposta si trova nel titolo del disco, che accosta un aggettivo mobile e precario come attuale a un termine astorico e apparentemente immutabile come patria, creando un ossimoro che illumina da subito le contraddizioni irrisolvibili della nostra appartenenza nazionale.
Chi è nato in questo sconquassato paese di "bellezza offesa" sa quanta fatica facciamo noi italiani a riconoscerci come collettività, ma anche quali demoni siamo stati capaci di evocare, come in un esorcismo, dall’idea di patria. Demoni dai quali dobbiamo continuare a guardarci, perché rimangono in agguato sotto altre forme, lo vediamo ora che i boati della guerra squarciano di nuovo i cieli d’Europa, in un incendio di violenza e resistenza che si alimenta proprio del bene e del male che l’idea di patria racchiude.
Zamboni è consapevole di tutto questo e sa benissimo che il passaggio è stretto e incerto. Lo testimonia l’immagine che apre il disco nella sontuosa versione a vinile: un capannone giallo, si presume abbandonato, dove in mezzo alle enormi pareti ondulate si staglia una piccola porta con sopra un’invitante scritta, "entrata"; bianca su rosso, in mezzo a tutto quel giallo, non si può non notarla, ma l'invito è subito contraddetto da una perfida grata, che qualcuno ha posto lì per bloccarne l'ingresso. Una bellissima foto, molto ghirriana, che anticipa tutte le folgoranti contraddizioni e i dolci ossimori che attraversano il disco.
“Patria non è parola leggera” si legge nelle note che accompagnano le canzoni. “Contiene in sé anche il mascheramento delle diseguaglianze, l'esercizio della violenza in difesa di interessi personali o di casta. Ma Patria è ciò che abbiamo, che siamo, presenza immateriale che giustifica l'essenza profonda dei popoli. Perché allora è così difficile pronunciare questa parola per la lingua italiana?”. Risuonano qui considerazioni analoghe di Primo Levi: «Patria»: non sarà inutile soffermarsi sul termine. Si colloca vistosamente fuori del linguaggio parlato: nessun italiano, se non per scherzo, dirà mai «prendo il treno e ritorno in patria». È di conio recente, e non ha senso univoco; non ha equivalenti esatti in lingue diverse dall'italiano, non compare, che io sappia, in nessuno dei nostri dialetti (e questo è un segno della sua origine dotta e della sua intrinseca astrattezza), né in Italia ha avuto sempre lo stesso significato. La Patria è tale quando è minacciata o disconosciuta.”
Ma veniamo ora alle canzoni del disco. Dal punto di vista musicale La mia patria attuale sorprende per due ragioni.
La prima è constatare come Zamboni – folgorato dalla chitarra elettrica sulla via del punk tedesco, cresciuto come musicista nell’incontro con personalità eterogenee quali i compari Maroccolo e Magnelli, e diventato anche compositore prestando la sua musica a film e documentari – metta a nudo qui una sincera adesione alla forma canzone, in cui, più che i cantautori, riverberano a mio parere la lezione di Dylan, del revival popolare (Giovanna Marini, i Cantacronache) e di sperimentatori troppo presto dimenticati come Claudio Rocchi.
Abbiamo così una manciata di ballate folk dai suoni chiari, con testi sempre ricercati e sorprendenti ma spesso venati da una leggera ironia, come nel caso di “Tira ovunque un'aria sconsolata”, o come invita a fare la scanzonata “Nove ore” da un’inedita spinta a sorprendersi del mondo.
Non mancano i momenti più lirici, come la struggente “Il nemico” (già presente in Breviario partigiano), la title track “La mia patria attuale”, i ritratti collettivi dedicati al popolo disperso della sinistra (“Fermamente Collettivamente”) e all'etica emiliana (“Il modo emiliano di portare il pianto”), o infine la delicata “Gli altri e il mare”, che riconsegna il Mediterraneo al suo ruolo di ponte che unisce e non che segrega chi è nato sulla sponda sbagliata.
Fanno da contraltare a questo lato in qualche modo luminoso una manciata di canzoni scure e sporche, in cui si sente di più il suono pieno e le atmosfere dense proprie dei CSI, come l'amara “L'Italia chi amò” e l'epica preghiera laica del “Canto degli sciagurati”. Colpisce il lavoro sulla voce che Zamboni ha saputo maturare. Sulle voci interiori e su quelle che risuonano fuori, sul fuoco del limite tra ciò che si mostra e ciò che si cela, riuscendo a sostenere e dare credibilità ad un’ampia ricchezza di registri: l'epico, l'intimo, il comico-parodistico, il lirico, la pietas, la leggerezza e la gravità. Grazie anche agli arrangiamenti di Alessandro Asso Stefana, che si concedono con parsimonia aperture efficaci di fiati e archi.
Per concludere La mia patria attuale è un disco che conferma la qualità della ricerca coerente ma mai ripetitiva di Zamboni, e che può essere riassunto da un'ultima citazione, da un artista che dei legami problematici con i luoghi ha tratto la sua poetica, Cesare Pavese.
"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.”