Roberto Latini al Piccolo di Milano / Arlecchino e i suoi doppi
Una recita a mano armata. La prima immagine che si vede nel Teatro comico di Goldoni secondo Roberto Latini, e l’ultima, è una pistola puntata contro il pubblico attraverso uno spiraglio aperto nel sipario. In teatro si rischia la vita?
I giganti della montagna di Latini da Pirandello si chiudevano, similmente, con i piedi di un uomo disteso, morto, fuoriuscenti da una stretta apertura della cortina del sipario. Raccontare uno spettacolo del regista attore romano non è mai semplice. I materiali si accumulano, si sovrappongono si distendono, si contraddicono. Testo e azioni, invenzioni visive e suoni, voci naturali, voci amplificate, voci riverberate. Il presente della scena, il qui e ora, le maschere dell’attore, le parole, l’“arsenale delle apparizioni” del teatro, per riprendere un’espressione dei pirandelliani Giganti della montagna cara a Latini. Nel Teatro comico di Carlo Goldoni – la prima delle “sedici commedie nuove”, il “la” della riforma dell’autore veneziano del 1750 – allestito per il Piccolo Teatro di Milano sullo storico palcoscenico di via Rovello, tutto questo si compone da subito in una, in molte citazioni, e in una minaccia allo spettatore.
Siamo in un’apocalisse. Nella fine violenta di un mondo. Quando si apre il sipario sul palco troneggia una pedana mobile. Si muove variamente a seconda delle azioni degli attori, delle loro posizioni, della distribuzione dei loro pesi. Diventa Zattera della Medusa, sotto colori di luci livide, dopo il dialogo tra prima e seconda attrice sui patimenti che si fanno nei viaggi per mare. Gli attori diventano contorte marionette in balia delle onde su fragile vascello, manichini come percossi da scosse elettriche di una più metafisica tempesta.
Alla memoria balenano gli stacchi di Il ritorno di Scaramouche di Leo de Berardinis (1994), quando i personaggi della Commedia dell’arte davano vita a meccaniche minacciose sarabande sotto la musica del Requiem di Mozart, rivelando la loro natura larvale di lemuri che nascondevano sotto la mezza maschera di cuoio il dolore di una vita di stenti, di oppressione, di assenza di libertà, di necessità di scappare altrove per sopravvivere (eravamo, in quello storico fantastico spettacolo ai tempi del primo governo Berlusconi, che ancora aleggia, e Leo, scendendo tra il pubblico, illuminato solo in volto da una lucina nel nero cappello, cantava: “’Stu mariuolo ‘stu mariulo / mo c’arrobba pure ‘o sole / … ‘A ballata de’ pezzienti / e de chi nun tene niente, / affamati ma decisi / ca quaccuno ha da esse’ acciso”…). Qui risuona un brano del drammatico Concerto in mi minore del compositore polacco Zbigniew Preisner che simula lo stile di un apocrifo autore contemporaneo di Mozart, denominato Van den Budenmayer, intonante alcuni versi danteschi: “O voi che siete in piccioletta barca… dietro al mio legno… non vi mettete in pelago…”.
Siamo sull’orlo di un mondo in trasformazione, o forse in disfacimento. Arlecchino viene chiamato Arlecchi-NO, come nel radicale Servitore di due padroni di Latella. È caduto in un canale di Venezia e forse non si è mai ripreso. Il suo corpo apparirà smembrato nel cielo di questa scena fosca. Tutti gli attori, in una scena, si trasformeranno in un momento dell’opera in abbandonati, disfatti, smembrati manichini della maschera, in una classe morta di Arlecchini. La sua effigie per tutto lo spettacolo troneggia gigante a destra dello spettatore, in proscenio, nelle sembianze dell’Arlecchino di Soleri di Strehler, che su questo palco nacque e fu di casa. Abbassandosi, diventerà sbarra di passaggio a livello per intermezzi nella commedia, luogo di fermata dell’azione. Di “straniamento” brechtiano?
Orazio-Latini, il direttore della compagnia di comici che vuole superare le maschere e l’improvvisazione e avviarsi verso la commedia d’autore, di carattere, verso il realismo di un nuovo mondo ragionevole, sarà disturbato, all’inizio, subito dopo l’epifania della pistola spianata sullo spettatore, dal ronzio di una mosca. L’acchiappa, la rilancia in aria. Quella continua a ronzare. La cattura al volo con la bocca e la ingoia. Diventa un famoso lazzo di Soleri e di Dario Fo. Ma la mosca rinasce continuamente per tutto lo spettacolo, come un tormentone. Ronzio, in ogni situazione, con la prima attrice, col Pantalone, col Dottore, con Brighe-LÀ, con gli innamorati e le servette, con il poeta, che rivela di essere un Pulcinella, il Pulci di Leo, con la imponente cantante virtuosa en travesti che dietro il parlar polito in punta di Arcadia rivela il cuore di Vongola, l’altro buffo plebeo di Scaramouche, volgare, feroce, vera mefitica cozza del colera.
Ingoiata, la mosca esplode. Una macchia di sangue incendia la camicia di Orazio Arlecchi-NO (NO, non si può continuare a rappresentare un fantasma, un personaggio non esistente, troppo esistito, fuori moda: alla moda è il birignao con posizioni di braccia e mani da pose di manuale di recitazione neoclassico della prima attrice, che dice: “sono innamorata delle commedie nuove”, delle commedie riformate, come potrebbe esserlo di un abito all’ultima moda, pieno di trine e merletti, come quella sua voce flautata, lussureggiante, gorgheggiante).
Arlecchino si rivela: solleva la camicia insanguinata e mostra un microfono che gli amplifica la voce, la rende opaca, come proveniente da un altro mondo. Una proiezione a losanghe colorate su di lui, che dilaga a coprire la scena. Altre volte, senza colori, stringerà tutto il palcoscenico o un singolo personaggio. Come le maglie di una rete. Come una prigione.
Intanto scorre il testo di Goldoni, con i caratteri della compagnia di comici impegnati nella riforma. Con il ripudio di figure del vecchio mondo, prime donne vanesie e miagolanti, poeti barocchi, musici castrati sussiegosi e affamati, maschere e mezze maschere immobilizzate in ruoli ripetuti troppe volte sempre uguali.
Helzapoppin goldoniana? Confusione?
Il teatro comico di Roberto Latini, come tutti i suoi spettacoli, come i Giganti, come Amleto + Die Fortinbrasmachine, come Metamorfosi, come Il cantico dei cantici, rovista con slanci pop nell’arsenale del teatro, accumula, raccoglie, senza curarsi dei numerosi spigoli che dall’accatastare emergono. Perseguendo anzi un “provocatorio” procedere per contrasti, per tradimenti, per deragliamenti, che vuole non far adagiare lo spettatore, snidarne le reazioni, i sentimenti e la ragione.
Moltiplica le figure di ectoplasmi smunti, che sbucano dalle macerie, pezzi di corpi, pezzi di pezzi di maschere, figure sfreccianti in monopattino, motociclisti senza volto nell’oscurità simili a quelli di Roma di Fellini. Un Ariel si aggira volando nella nebbia, sul palcoscenico che fu del personaggio interpretato da Giulia Lazzarini nella Tempesta di Strehler. È un ambiente notturno, sanguigno, ispido. Come una macelleria dove sia stato commesso un sanguinoso delitto e poi tutto sia stato ripulito e occultato, lasciando però un invincibile disordine. I fili si intrecciano. A volte ti vogliono far smarrire, per rivelarti qualcosa che potrebbe rimanere misterioso.
Tu spettatore devi assumerti il rischio, la responsabilità estetica, ermeneutica, etica, di guardare nei precipizi in cui ti vogliono attirare questi formidabili attori, questo regista che scrive totalmente sui corpi della scena senza deflettere dalle parole del testo, masticandolo, rovesciandolo, proiettandolo in altre temperature. Non ti vuole distrarre, non ti vuole conquistare, non ti vuole forse neppure far ragionare. Ti assale, di contropelo, di struggimento, di umorismo, di lampo, di contraggenio. Ti porta nella cosa, dietro, dentro, nel suo contrasto. Ti confonde. Vuole sviarti. Tu hai la responsabilità di trovare una tua strada. Il teatro vero è così: faticosa libertà solo inizialmente guidata. Esperienza, non riflesso. Più radicale, spesso, quanto più le carte appaiono (solo appaiono) confuse o celate.
Il teatro comico di Latini, dietro le maschere, mi sembra annunci l’orrore irrinunciabile insito nella riforma di Goldoni. Il precipitare nel baratro del realismo, per finire nel reality, nella ripetizione spettacolare dell’illusione di realtà, nella messa in scena del narcisismo della verità quotidiana, quello nel quale siamo ancora oggi avvolti. E canta, per farlo, una fioritissima “aria col da capo” al gorgheggio, all’invenzione, all’improvvisazione, alla maschera, all’invenzione, al saper trovare con poco o niente, alla fantasia, alla potenza di figurare, di far sorgere immagini e dislocare. Ma della maschera stessa rivela il retro, quello nascosto dietro ogni tensione alla fama: la fame. La fame degli attori, come voracità di esseri umani in bilico su un oscuro precipizio, che cercano, con una capriola, una giravolta, un salto mortale di ritrovare la fiducia nel dialogo, nel rapporto con l’altro umano, il nutrimento necessario. Sicuri di non essere certi di riuscire a uscire da quell’aria mefitica, da quella caverna del secolo scorso che Leo metteva in scena in Novecento e Mille, incubatorio di ogni immagine futura, di ogni messianismo e di ogni orrore.
Dietro questo Goldoni c’è Beckett e c’è Leo (e Perla, Peragallo, maestra di Latini e per molti anni in coppia con Leo nel “teatro dell’ignoranza”, Schönberg il jazz e la sceneggiata napoletana). Ci sono Pirandello e Heiner Müller. C’è il novecento teatrale, con Carmelo Bene e ancora con Leo. C’è l’idea di una carovana, di una barca di attori che con le loro maschere (o senza) sfidino l’oscurità dei tempi. C’è un mondo che finisce con uno schianto e che forse senza coprirsi il volto per guardarsi dentro, senza maschera e senza arte (né parte), non si potrebbe affrontare.
C’è l’omaggio a un maestro della nostra scena troppo spesso dimenticato (de Berardinis, ancora, e il suo teatro jazzato, fatto di standard che devono diventare musica in un intreccio qui e ora). Tre attori, straordinari, Marco Sgrosso, Pantalone e la virtuosa Eleonora (che si rivela trucibaldo guappo napoletano), Elena Bucci (la prima donna damina e la mascherina Rosaura che nasconde gli affetti sotto movenze burattinesche), Marco Manchisi, strepitoso lunare Pulcinella e il barocco poeta Lelio, vengono dal Teatro di Leo recitavano in Scaramouche. Gli altri, di questa ben amalgamata compagnia, hanno lavorato altre volte con Latini: Savino Paparella (Brighella), Francesco Pennacchia (Dottore) e Marco Vergani (Florindo), con l’immissione della giovane Stella Piccioni (Colombina), tutti capaci di caratterizzare e di proiettare in dimensioni in cui il grottesco diventa rappresentazione polifonica, cubista in certi momenti. Latini è Orazio e l’Arlecchi-NO sanguinante come un re del Graal, in cerca della domanda che lo spettatore deve trovare e fargli, per guarire la sua ferita marcescente e scioglierlo dalla maledizione.
La maschera difende, la maschera proietta in un altro mondo, la maschera diventa mezzo per un viaggio sciamanico, Scoprire cosa abbiamo perso con la ragionevolezza della psicologia, del carattere, dello “specchio” appiattito sulla realtà, dell’informazione, della comunicazione, della semplificazione... Cosa non riusciamo più a rivelare. A vedere (o rivedere). La maschera è la scopa volante per viaggiare oltre in una necessaria storia notturna (in un combattimento rituale per scongiurare la fine del mondo, il suo rigenerarsi, spiegava Carlo Ginzburg a proposito di antichi riti agrari bollati come stregoneria).
Siamo sicuri che si parli solo di teatro? Non sarà un ulteriore spigoloso depistaggio quel titolo, Goldoni, il teatro, comico per di più, in uno spettacolo nerissimo, grottesco, umorale (gli umori… le affezioni umorali…)? Non stanno forse parlando, quei meravigliosi buffoni, nel loro deserto, nelle loro sponde di malinconici destrutturati picassiani arlecchini nomadi e pezzenti, del nostro mondo – questo – sul baratro? Il Teatro e il Mondo: ci insegnavano su Goldoni…
Così sembra sentendo le musiche, ora distillate in cascate di note sottili, ora invasivi rumori, ora ricorrenti alle grandi figurazioni liriche e drammatiche di Preisner, inventate o montate da Gianluca Misiti, uno capace di far respirare il suono con la regia e con gli attori. E non diranno qualcosa del genere le livide luci espressiviste di Max Mugani, degno erede del compianto Maurizio Viani, l’inventore delle atmosfere luministiche di Leo? O la scena di minacce, di rovine, di frammenti monumentali di Arlecchini disegnata da Marco Rossi, e i costumi rivoltati di Gianluca Sbicca, all’incontrario come lo spettacolo, che riprende e rovescia Goldoni e il novecento?
Il ronzio della mosca. Sagome nere, pezzi di un manichino di Arlecchino smembrato incombente sulla scena. Attori in posa sul fondo, versi antichi. Sfondo notturno. Ombre. Una voce dice qualcosa tipo: “mi hanno abbandonato… mi devo vendicare…” (È Pulcinella? È l’anima di un mondo antico in crisi, spaventata dalla dirompente germinazione, dal violento parto del nuovo? Terrorizzata?). “…chi è ‘sta gente che pretende rinnovare il teatro comico?” Il ronzio. Il sipario si chiude, tranne uno spiraglio. Una pistola ci minaccia.
(Alla fine qualcuno mi fa la solita domanda: ma in definitiva ti è piaciuto o non ti è piaciuto questo spettacolo? Lo racconti, lo analizzi, svisi e vari: ma che ne pensi? Credo che dovete correre a vederlo, non si può perdere: perché è spinoso, ispido, come deve essere il vero teatro, perché gli attori sono così bravi da aprire ogni volta orizzonti imprevisti, imprevedibili, perché qui un testo classico, poco rappresentato, diventa barca per un viaggio in acque perigliose, bellissima avventura. Perché Roberto Latini sta costruendo una sua via tutta contemporanea, incrinata, inquieta, alla tradizione e nel teatro sta ricercando ritrovando ragioni per tessere ponti di tela per attraversare i burroni della società dello spettacolo, della neociviltà social. Andate a vederlo, perché è una traversata piena di suggestioni. Se vi ci abbandonate, con curiosità e ascolto, vi ronzerà dentro per giorni e giorni. Come la mosca di Arlecchi-NO. E sentirete che è uno spettacolo bellissimo, profondo.)
Il teatro comico di Carlo Goldoni, adattamento e regia Roberto Latini, scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Max Mugnai, musiche e suono Gianluca Misiti, con (in ordine alfabetico) Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa
In scena al Piccolo Teatro di Milano nella sala Grassi di via Rovello fino al 25 marzo.