28 marzo 1950 – 17 agosto 2018 / Claudio Lolli, amico chansonnier

21 Agosto 2018

A un certo punto, mentre passeggiavo per le terre di Montaigne, ho cominciato a ricevere messaggi sulla morte di Claudio Lolli. Il primo era di Marco Lodoli, tristissimo. Diceva così: ho cantato tante volte le sue canzoni, era un puro. Poi di Giorgio van Straten e di Lorenzo Mattotti: entrambi mi ringraziavano per avergli fatto conoscere una persona così speciale. E poi tanti altri. Doppiozero mi ha subito chiesto di scrivere su di lui e ho accettato volentieri, anche se in realtà non lo vedevo da quasi trent'anni. Non mi era mai successo niente del genere: essere ringraziato per aver condiviso un'amicizia di tanti anni fa.

 

La Francia ha molto a che fare con il mio rapporto con Lolli. Anche con la fine delle nostre frequentazioni. Molti anni fa morì un nostro comune amico, Luca Torrealta, e lo seppi quando stavo partendo per la Francia con una piccola troupe per un'inchiesta sull'AIDS, ai suoi spaventosi esordi. Per Claudio l'amicizia non era semplicemente molto importante: era tutto. Trovò incomprensibile e inaccettabile la mia assenza al funerale di Luca: lui avrebbe abbandonato qualunque concerto, anche all'Opéra di Parigi, e sarebbe tornato a Bologna per salutarlo un'ultima volta. E ora rieccomi in Francia, lontano anche dal suo funerale.

 

Ho conosciuto soltanto il primo dei suoi figli. Era piccolissimo e ci lanciava le frecce con le ventose mentre pranzavamo nella casa all'ultimo piano di via Indipendenza. Claudio si staccava le ventose dalla fronte e continuava a parlare senza interrompersi. Forse quel pranzo fu l'ultima volta che lo vidi. Nulla lo infastidiva, e questa era la nostra differenza di fondo: a me quasi tutto dava fastidio. Lui era socievole, io un solitario. Ci univano la malinconia e l'amore per la letteratura, anche se amavamo scrittori diversi. Ricordo che cercai di dissuaderlo dal musicare "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi".

Montaigne diceva che per valutare davvero un uomo bisognava conoscere anche i suoi ultimi giorni, quindi non sono la persona giusta per descriverlo. Posso soltanto condividere alcuni dei tanti ricordi che mi legano a lui.

 

Marco Lodoli, che non usa mai parole a caso, lo definisce "puro" e credo sia la definizione giusta per lui. Ho conosciuto tanti cantautori, frequentando Claudio, e alcuni li ho trovati stupendi, come persone e come artisti. Cito solo un nome: Fabrizio De André. Lui apparteneva a quel mondo. Se dovessi dire un nome per tutti farei quello di Georges Brassens. 

 

La sua voce non era potente ma sapeva avvolgere emotivamente gli ascoltatori come pochissime altre. La canzone che mi piaceva di più era "Michel", gliel'ho sentita cantare decine di volte e ogni volta mi commuoveva. Anche lui si commuoveva ricordando questo suo amico francese che aveva perso di vista. Me ne parlava spesso. L'ho sentito cantare spesso perché per un periodo sono stato il suo road manager, come credo si definisca quel ruolo. In pratica guidavo la sua Citroen e riscuotevo i compensi alla fine dei concerti. Claudio guadagnava bene, in quel periodo. Il compenso veniva dato in contanti, gli stessi soldi incassati dal botteghino. A volte erano in una sportina di plastica. Ne davo un po' al gruppo che lo accompagnava e il resto tornava con noi nella sua Citroen.

 

Ricordo una notte terribile, tornando da Genova. Claudio dormiva, come sempre quando si tornava. Tirava giù il sedile e crollava. Faceva caldo, c'era aria di temporale e l'aria che entrava nell'auto fece svolazzare parecchi soldi tra i sedili. Mentre cercavo di rimetterli a posto scoppiò un violento temporale. I fulmini ci sfioravano e avevo paura. Cercai di svegliarlo ma non ci riuscii. Gli dissi dei fulmini e dei soldi ma lui disse soltanto: "non importa" e continuò a dormire. Aveva bevuto un bicchiere di troppo. Claudio non amava le droghe, gli piaceva soltanto il vino: "è un nutrimento!" diceva ispirato allargando le braccia.

 

Arrivammo a Bologna che albeggiava. I soldi non lo interessavano affatto. Avrei potuto prenderne a volontà e non se ne sarebbe mai accorto. Gli servivano soltanto per comprarsi le sigarette e qualche bottiglia di vino. Al ristorante non mangiava quasi niente. In casa sua dormivano diverse persone, che mangiavano e bevevano a sue spese. Neppure la sua casa considerava come sua proprietà, era come se non possedesse niente. La sportina con i soldi dei concerti restava per giorni sul tavolo della cucina.

Ogni tanto qualche giornalista poco intelligente se la prende con i cantanti famosi che difendono gli immigrati, con il solito argomento: "perché non li prende a casa sua?". Ecco, nessuno potrebbe sollevare questa obiezione a Claudio Lolli. Lui corrispondeva esattamente ai testi delle sue canzoni. Casa sua era un porto di mare. Dei tanti prestiti che faceva si dimenticava nel momento stesso in cui li faceva. Non possedeva niente che si potesse definire di lusso.

 

Ricordo che a un certo punto mi regalarono un buon giradischi e lui si portò a casa il mio vecchio Toshiba a cinghia, che oggi si potrebbe comprare con cento euro. Lo usò per anni e continuava a ringraziarmi perché secondo lui funzionava benissimo.

Claudio rispettava tutti gli artisti e non parlava male di nessuno. Se si parlava di De Gregori o di qualunque altro lui diceva sempre, tutto serio: "molto bravo". Apprezzava anche quelli più giovani che contestavano le sue canzoni. Se aveva qualcosa da dire la diceva, con l'audacia dei timidi, solo al diretto interessato. Quando incontrava Guccini faceva battute sulla sua voce e sui suoi arrangiamenti ma poi lo abbracciava come un fratello: gli voleva un gran bene.

 

Non ho ammirato Claudio soltanto per le sue belle canzoni e per le pagine che scriveva, ma per il suo modo di affrontare la vita. Quando il successo si spense studiò accanitamente per vincere il concorso come insegnante e affrontò senza alcun rimpianto la nuova fase che gli si apriva davanti. Il suo ultimo disco, bellissimo, ci dice che le grandi avventure non finiscono mai.

 

Ancora un ricordo, tra i tanti che stanno affiorando mentre scrivo. Un paio di volte l'ho portato a casa in braccio, su fino all'ultimo piano (senza ascensore). Allora ero forte e lui pesava davvero poco. Voglio salutarlo così: caro Claudio, è stato un grande onore, per me, portarti in braccio fino al tuo letto, dalla tua adorata Marina. Perdonami se qualche volta non sono stato all'altezza della tua amicizia, sono un vecchio orso solitario, lo so.

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