Visibilità psichica / Immagini a più dimensioni

4 Settembre 2018

"Che tipo di artista siete voi? Vasai, pittori, musicisti, scrittori? Nella mia esperienza, alcuni psicoanalisti non sanno che tipo di artista essi siano... Se non riescono a vedere loro stessi come artisti, stanno sbagliando lavoro". Nel seminario parigino del 1978 Wilfred Bion comparava il mestiere dello psicoanalista a quello dell’artista e invitava i terapeuti a riflettere sulla loro vocazione. Perché è il linguaggio dell’arte, attraverso le varie forme espressive, ad avvicinare il linguaggio della psiche.

Che sia un’ispirazione comune a guidare la sua mano da pittore e la sua mente da analista, di questo è convinto Paolo Aite, neuropsichiatra e analista junghiano che, in un libro originale e prezioso, Risonanze. Tra pittura e psiche (Icone Edizioni, 2018), porta il lettore, anche un lettore non specializzato, a sfogliare la sua autobiografia per immagini. “La tendenza attuale al pensiero ‘meditante’ carico di ricordi, che avverto con insistenza, la sento come un richiamo a cui prestare attenzione” e “Forse queste mie pagine sono solo un modo di cercare e distinguere qualcosa nel mistero della visibilità psichica che da sempre mi affascina”. 

 

 

L’autore mette in connessione gli eventi salienti, gioie e lutti, della sua lunga esistenza, con i quadri che fin da ragazzo ha dipinto, ripercorre la sua vita, la ri-vede, con un procedimento simile a quello che capita nel suo setting. Aite, infatti, è il fondatore di un gruppo di ricerca sul Gioco della sabbia nell’analisi dell’adulto (sito Laigroup.org), una “metodica” come gli piace chiamarla, dove le sabbiere e gli oggetti in miniatura collocati sugli scaffali invitano il compagno d’analisi a giocare. Alla fine del percorso, anche a distanza di anni, la sequenza delle immagini della costruzione del gioco, ogni volta fotografate, può essere rivista insieme (cfr. Ricordare in analisi. Terapia della sabbia).

Proprio quello che qui fa l’autore con i suoi “quadri”, a partire da Parti di me, 1950, che lo riporta ai timori e tremori di se stesso ragazzo davanti alla prova dell’esame di maturità. Ripensando alle macchie di colore che si sono trasformate in rappresentazione, ritrova i Leitmotiv che hanno scandito gli umori della sua esistenza, formato il suo temperamento: “Guardare con gli occhi del sogno credo sia oggi il modo migliore di definire quanto allora più o meno oscuramente mi accadeva di attuare”.

Paolo Aite è un maestro del non ancora, dello stato di sospensione, quando l’immagine − pittorica o del Gioco della sabbia − sta per depositarsi, per prendere forma. Perché “dipingere non è riprodurre il visibile, ma portare alla luce quanto mi accade mentre avverto un richiamo a cui tento di rispondere dipingendo”. 

 

La postura di accoglienza e ascolto è raffigurata in Apertura al mondo 1973, Il mondo entra nella stanza 1974, La realtà vibra di colori vivi 1980, Entra il vento 1990. Le finestre sono spalancate e poi intarsiate in dipinti più grandi, quando il bisogno di spazio porta ad assemblare più tele insieme. Qualcosa che ha a che fare con quanto scrive Pontalis nelle sue Finestre (e/o, 2001): “Voler bene ai propri pazienti: condizione perché in loro torni il gusto di vivere e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava cordialità per il reale”.

 

La rivisitazione dei ricordi, dei momenti e delle sensazioni che hanno portato a dipingere amici, famigliari, persone care è accompagnata da riflessioni sul rapporto tra creatività psichica e creatività artistica. Vissuti difficili e stati d’animo contrastati, se lasciati emergere liberamente, possono influenzare tanto la tecnica quando l’uso del colore. “Usare la matita o il carboncino per disegnare, così come ho imparato fin dai primi anni, era per me solo un gesto automatico, l’attenzione catturata dalla ‘cosa’ da disegnare”. Solo dopo aver usato per molti anni matite, carboncini e chine per arrivare poi alla litografia su pietra, all’acquaforte e all’acquatinta, la mano si libera, ed ecco l’approdo al lasciar accadere: lo stupore dell’acquarello.

 

 

Arrivano i quadri dei luoghi dell’anima, i paesaggi delle vacanze, il dialogo con gli alberi, l’Olivo che danza, 1998, il Faggio in viola, 1990 e il Faggio amico, 1990, il “suo” faggio. “Nel bosco secolare del Parco Nazionale d’Abruzzo a Pescasseroli c’è un faggio che ho dipinto infinite volte. Non so bene perché l’ho scelto tra i tanti e cosa in lui mi abbia richiamato. Non è né il più imponente, né il più antico di quelli che gli sono attorno. È simile a un candelabro aperto verso il cielo e ha almeno quattro figli nati nelle vicinanze”.

 

Un altro sguardo sulle immagini che emergono nell’incontro tra “due persone che parlano in una stanza”, sulle corrispondenze tra i movimenti creativi dell’analista e quelli del paziente si ha in Scenari interiori. Il Gioco della Sabbia tra psicosi e creatività (in uscita da Mimesis). Ivan Paterlini psicoanalista di formazione junghiana, compone un testo poliedrico, dove il racconto dei diversi momenti del suo lavoro con Giulia è segnato da sabbie, disegni, acquerelli, insieme ai suoi rimandi a opere di artisti contemporanei. Autore con Daniele Ribola di Sguardo sulle psicodinamiche del gesto creativo. Giacometti: la distanza incolmabile (2013), Ivan Paterlini cerca e ritrova in quadri e sculture “sensazioni, emozioni, affetti, sentimenti: di tortura, di frustrazione, di rabbia, di delusione, di amore... tutti i molteplici transfert che si possono attivare in un percorso analitico”.

 

Messa al mondo da una madre che sapeva di dover morire poco dopo di cancro, cresciuta da una tata e da una famiglia che, per proteggerla, le vietano l’esistenza, Giulia “oscillava tra una sorta di dannazione infernale infinita e l’idea di un paradiso materno. L’idea di potersi ricongiungere alla madre portava l’istinto di morte (tutti i tentati suicidi) a confondersi con l’istinto di vita. Come se ci fosse un contenitore umano che faceva a pezzi il contenuto rendendolo incomprensibile, scisso, angosciante e nello stesso tempo ricchissimo, metafisico, al di là delle parole”. In analisi Giulia definiva la sua mente “normale”. Lì funzionava, faceva esperienza di una nuova possibilità di unione tra il mondo corporeo e le rappresentazioni psichiche, tra le primissime sensazioni bloccate e il loro naturale sviluppo verso la coscienza. Mentre il terapeuta “si appella a un percorso di senso” e si fa ispirare dai lavori di Bruce Nauman, dedicati a misurare i luoghi significativi con il proprio corpo, dalle fotografie di Marina Ballo Charmet, attenta agli scarti e al dettaglio trascurato, da alcune opere di Michelangelo Pistoletto, di Claudio Parmiggiani, dall’installazione Giardini verticali di Patrick Blanc, “un giardino che punta alla luce, alla verticalità, dove le pareti sono la possibilità di vivere i tanti verdi della vita uniti ai rossi (ferita) e a sfumature d’arancio”.

 

“Teste, bocche, denti aguzzi; i mostri sono gli altri; questi disegni, dice Giulia, emergono per la prima volta al liceo, nelle lezioni di greco avevo la mente altrove, stavo male in classe in mezzo ad altre persone. Pensavo a un luogo dove c’era il sole, il mare, un paradiso dove non mi si chiedevano cose. Feci la caricatura del prof e uscì il mostro con la lingua”.

 

Immediato il richiamo all’Art Brut guardando i suoi acquerelli, percependo la sua sensazione di non riuscire ad accedere a una dimensione umana, “Non mangio più carne perché mi sento molto a un livello animale, non so dare pensiero al corpo... penso sia terribile per un animale. La sofferenza fisica non la sopporto più, in passato sì, ora sono molto spaventata, tutto è somatizzato, sto male fisicamente, un’emotività che gira a vuoto senza risolversi in nulla, senza prendere la forma di un pensiero”. Al terapeuta evocano le 324 tavole dei Phénomènes di Jean Dubuffet: “un lavoro immenso dove dell’uomo rimane l’impronta, il sangue (per quelle a colori), un Io-pelle del suolo, rivelando un’umanità silenziosa, testimone di una narrazione inconscia collettiva di cui facciamo parte e che sa muoverci dal profondo”. 

 

In risposta a Giulia, anche lui disegna: “Si manifestava in me una dinamica creativa, un linguaggio espressivo adatto a contenere le nuove forme psico-fisiche che Giulia stava mettendo sulla scena. Forse soluzioni solo razionali non potevano esserci in risposta a lei. La dimensione delle sabbie, del disegno, della mano che recupera gesti per vivere e creare, nonostante e anche come effetto del terribile, è diventata la nuova cifra, la nuova fiducia e speranza nell’idea che qualche senso deve pur esserci. Mi riferisco alle capacità di molti artisti contemporanei che sanno usare e sviluppare pensiero, sentimento, intuizione e sensazione, sanno mettere in gioco più competenze simultanee”.

 

 

Anche se, certo, non è solo del terapeuta di formazione junghiana l’attenzione alle possibilità di amplificazione, il rapporto peculiare che Jung stesso intrattenne con le proprie immagini, come dimostrano i suoi disegni e i dipinti contenuti ne Il Libro Rosso, ha influenzato la sua pratica analitica e quella dei suoi eredi. E da poco è emerso un materiale, rimasto finora nascosto, che apre a riflessioni ulteriori sul rapporto tra arte e psiche. 

 

Per celebrare i 70 anni dello Jung Institut fondato nel 1948, Ruth Amman, l’attuale curatrice dell’archivio, psicoanalista molto nota anche per i suoi contributi teorici al Gioco della sabbia, ha deciso infatti, insieme ad altri colleghi e studiosi, di portare in pubblico gli acquarelli e i disegni, le pitture e i ricami concepiti durante gli incontri analitici con Jung. L’archivio custodisce 4500 immagini, raccolte dal 1917 al 1955, datate e ordinate in modo numerico e sempre anonimo, con a volte qualche appunto scritto. I curatori hanno selezionato 164 opere, tutte di donne, e le hanno esposte prima in una mostra (da marzo a luglio al Museum in Lagerhaus a San Gallo), e poi raccolte, accompagnate da numerosi saggi, nel catalogo Das Buch der Bilder (Patmos, 2018). Così queste produzioni private, esposte a nuovi sguardi e in un’altra epoca, assumono un significato autonomo, si trasformano in arte.

 

Qui, però, non si tratta di pazienti ospedalizzati, come, per esempio, nella raccolta Morgenthaler del museo psichiatrico di Berna, le autrici sono donne colte, di diversa provenienza geografica e culturale, che decidono liberamente di recarsi nello studio di Küsnacht sul lago di Zurigo. Dove vengono invitate a dare forma al dialogo con le immagini spontanee della psiche, ad attivare “la fantasia come attività immaginativa”, a credere, come il loro terapeuta, che l’immaginazione non è uno stato passivo, ma può esercitare un ruolo attivo. 

 

Sessualità, corpo, maternità, scene di luce e di sole, di fuoco ed acqua, le raffigurazioni di temi archetipici, uova e serpenti, l’albero della vita, mandala… Ogni sequenza rappresenta la “mitologia soggettiva” di una storia personale, parla di demoni individuali e di apocalissi collettive. Come nelle 28 immagini che raffigurano le distruzioni della seconda guerra mondiale. Le caratteristiche degli scritti fanno pensare a una donna intorno ai 40 anni, che arriva da Jung nel dopoguerra, dopo aver probabilmente vissuto i bombardamenti in una città tedesca, e che dipinge però anche prigioni e lager. 

 

“Ma perché mai, si chiedeva Jung in Scopi della psicoterapia (1929), incoraggio i pazienti giunti a un determinato stadio del loro sviluppo a esprimersi mediante il pennello, la matita о la penna? Ancora una volta, per scatenare in loro un effetto. (...) Dal punto di vista psicologico c’è una immensa differenza tra l’avere con il proprio terapeuta, alcune ore la settimana, un interessante colloquio, il cui risultato rimane in qualche modo campato in aria, e il darsi da fare per ore e ore con pennelli e colori refrattari per produrre una cosa che, superficialmente considerata, è assolutamente senza valore. (…) Inoltre, per dare forma materiale all’immagine da esprimere, sarà costretto a osservarla di continuo in ogni sua parte, ed essa potrà così dispiegare completamente il suo effetto. Un elemento di realtà si sarà in questo modo introdotto dov’era soltanto la fantasia, conferendo a quest’ultima un peso, un’efficacia maggiore. 

 

E dalle immagini che il paziente produce autonomamente emanano effetti che è veramente difficile descrivere. (…) Con questo metodo, se così mi è lecito chiamarlo, il paziente può rendersi indipendente per autocreazione: non dipende più dai suoi sogni о dal sapere del suo terapeuta, ma nel dipingere per così dire sé stesso può plasmare sé stesso, perché quel che dipinge è fantasia operante, è ciò che opera, che agisce in lui”.

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