Nessuno con cui valga la pena parlare / Indifferenza

24 Maggio 2016

Non sembra che ci sia alcuno scopo, nessuno con cui valga la pena parlare, neppure un progetto cui opporsi, né tantomeno da proporre. Niente per cui meriti di alzare un dito. Basterebbe una presenza per fare la differenza, nella folla anonima di volti che scorrono invisibili. Un cenno capace di distinguersi nella ripetizione atona che scorre silenziosa. Bisognerebbe però poterla immaginare, attendere, concepirla in un’attesa, prefigurarsela, presentirla in un’illusione, quella presenza. Così non è. Non un segno, neppure un cenno, né l’ombra di una differenza. Non una parola: solo un chiasso assordante che non diventa voce. Spostandosi, muovendosi da un luogo all’altro, fissando ora un volto ora l’altro, non si produce un incontro, non genera differenza neppure la condizione nomade, ma solo una perdita che segue a una perdita precedente. Si vedono in giro tanti volti rassegnati. La rassegnazione è difficile descriverla. È come una nebbia dove la gente sembra smarrire il bisogno della verità, la necessità dell’altro e il piacere e l’impegno di riflettere e comprendere. E i volti sembrano attraversati dagli sguardi, trasparenti alle emozioni, come lucidi da proiezione senza alcuna scritta.

 

Siamo esseri non durevoli, eppure concepiamo l’infinito. Per elaborare questa ambiguità possiamo attraversarla o divenire indifferenti alle sue implicazioni. Per elaborarla la fonte è la relazione, “luogo” di differenze che generano differenze; “luogo” che può essere inquietante e anche conflittuale, o vicendevole e generativo. L’indifferenza può emergere come una via che esaurisce e svuota l’ansia di elaborazione e le difficoltà di accedere all’impegno che la relazione comporta. L’indifferenza può divenire, quindi, una negazione della nostra impermanenza: una negazione interna, psichica, e suscettibile di essere foriera di patologie, a fronte dell’esame di realtà che mostra l’ineluttabilità della costitutiva impermanenza. 

Educare alla contemporaneità vuol dire educare all’impermanenza. Sarebbe una scelta epocale porre al centro dell’azione educativa, non solo una coscienza di specie tra le specie, di parte del tutto vivente naturale, ma, in particolare, l’orientamento al divenire e il limite come condizioni di ogni possibilità. Una coscienza dell’autofondazione naturale della nostra vita e del suo valore transeunte può condurre a riconoscere l’impermanenza come fattore costitutivo della vita e, perciò, aggiungere valore al tempo vissuto e a tutte le cose del mondo. Un programma inedito per l’educazione. Un’educazione alla presenza. Basterebbe una presenza per fare la differenza, appunto, nella folla anonima di volti che scorrono invisibili.

 

È stato leggendo e meditando alcune pagine di Vladimir Jankélévitch che ha preso forma nel mio percorso di ricerca e riflessione la figura dell’indifferenza. In quello spazio attiguo al conformismo e alla saturazione, a cui sto dedicando da qualche anno una parte cospicua della mia attenzione e di cui intendo occuparmi, qui, in una serie di contributi. Le suggestioni di Jankélévitch hanno finito per fondersi con l’attenzione all’insorgere dell’indifferenza nel nostro tempo e con il monito ad occuparsene che Luigi (Gino) Pagliarani ci ha decisamente indicato. In particolare Jankélévitch dice: “Di tutti i conformismi, il conformismo del non-conformismo è il più ipocrita e il più diffuso oggi. È questo il diavolo che ci spia, ci sorveglia e ci bracca…..” [Jankélévitch V., 1978, Quelque part dans l’inachevé, Editions Gallimard, Paris; ed. it., 2012, Da qualche parte nell’incompiuto, Einaudi, Torino; p. 7]. Richiamando l’esistenza di virtù “più segrete”, “come ad esempio la modestia, lo charme o l’umorismo”, Jankélévitch affina la propria analisi. 

 

Nutrire passioni è una possibilità. Così come il fatto che quelle passioni possano essere tristi. L’indifferenza sembra un particolare modo di elaborare le passioni, che tende a non sentire la presenza degli altri e a non sentirsi parte delle relazioni e delle situazioni. Pervasivo è il dominio dell’apparenza e la figura del godimento. 

“Così si possono riconoscere le cose guardandole dal di fuori!”

“Le cose dell’arte, perché ripercorriamo nella nostra mente le operazioni dell’artefice”.

Così scrive Umberto Eco ne Il nome della rosa, fornendo per via letteraria una bella indicazione del valore dei processi di risonanza che sottendono all’esperienza estetica, empatica, relazionale. Quei processi di risonanza, prima ancora di assurgere alla consapevolezza di chi li vive, prima, cioè, di divenire riconosciuti e manifesti a livello di coscienza superiore, agiscono a livello pre-intenzionale e pre-linguistico, a livello di mente incarnata, come rendono sempre più evidente i risultati di ricerche recenti. Da comprendere è la complessità del passaggio dalla dimensione inconsapevole a quella consapevole, ma pare proprio che sia nella relazione che avviene il riconoscimento e l’individuazione del sentimento di sé e del mondo. 

 

Se le cose stanno così, e abbiamo sufficienti motivi per ritenere che stiano così, allora è possibile formulare l’ipotesi che l’indifferenza sia l’effetto emergente di una sospensione eccessiva della risonanza incarnata e consapevole. Noi selezioniamo in molti casi la risonanza consapevole in quanto abbiamo limiti costitutivi nella nostra capacità di contenere gli altri e il mondo. Pratichiamo, insomma, l’indifferenza come strategia esistenziale e come condizione per fare spazio alle differenze rilevanti e necessarie, o a quelle sopportabili, per individuarci ed esserci. Quella selezione avviene, probabilmente, alla temperatura della risonanza e della connessione tra il nostro mondo interno e il mondo esterno, secondo una misura di compatibilità e di corrispondenza. Il gioco tra empatia e exopatia si svolge, sembra, in base a dinamiche simili. Di fronte alla guerra e alla sua rappresentazione, ad esempio, gli esseri umani cadono non solo dinanzi ai nostri occhi, ma anche nel baratro della nostra indifferenza, in parte consolidata dalla ripetizione, in parte, forse, inevitabile. Ce ne rendiamo conto, di quell’indifferenza, se si apre un lampo nel suo buio, ad esempio con una fotografia che ci pone innanzi un corpo, come accade, per citare un caso tra tanti, di fronte al corpo nudo e ferito nel grembo di una donna in chador, fotografia di Samuel Aranda che è stata riconosciuta World Press Photo of the Year 2012. In quel momento vediamo ciò che stavamo guardando: la storia unica e irripetibile di un uomo che rischia di morire. 

 

Può accadere però che la capacità di contenimento del nostro mondo interno si riduca al limite dell’inaccettabilità delle differenze che il mondo ci presenta, anche di quelle che potrebbero essere decisive per la nostra stessa buona vita. Sembra che siano queste le condizioni che preparano una propensione a selezionare in maniera eccessiva o addirittura avversa le differenze che le relazioni e il mondo ci pongono innanzi. Cosicché l’indifferenza prende il sopravvento e il mondo e gli altri non risuonano più in noi. O meglio, risuonano comunque in noi a un livello preintenzionale e prelinguistico, ma il disagio esistenziale e la fatica sembrano nascere dall’investimento necessario a selezionare e respingere le sollecitazioni che quelle risonanze comunque esercitano, per non farle accedere a un sentimento consapevole che ci risulta incontenibile. Giungiamo per quelle vie tortuose e irte di difficoltà a equilibri difensivi in cui l’intersoggettività agisce comunque, ma il suo sentimento risulta disturbato dalle nostre resistenze e difese verso la differenza o le differenze che ci appaiono incontenibili. La relazione è di carne e i disagi individuali e collettivi che dai suoi disturbi possono derivare sono degni di considerazione e di azione. L’indifferenza è uno di quei disagi e pare caratterizzare il nostro tempo. 

 

L’indifferenza, quindi, si afferma come una sospensione della capacità di cogliere l’impermanenza delle relazioni e di vivere la risonanza con gli altri. Sembra, quindi, una sospensione della sospensione, se la sospensione provvisoria di senso è la condizione della nostra stessa possibilità di accedere generativamente alla conoscenza e alla creazione. L’indifferenza è, perciò, una sospensione della disponibilità e capacità di conoscere. Se cogliere l’impermanenza è cogliere gli aspetti costitutivi più rilevanti del mondo, e se il movimento è la via mediante la quale conosciamo e si genera il pensiero, la negazione dell’impermanenza che l’indifferenza comporta può essere una regressione quando supera la soglia della selezione richiesta da ogni atto conoscitivo, e rischia di escludere o negare segni del mondo rilevanti e decisivi, divenendo una crisi della presenza (eccesso di autoreferenzialità narcisistica) e del legame (carenza o alienazione di legame).

 

Il legame sociale, che ci appare naturale, è fondato sulla nostra relazionalità prelinguistica che fa di noi degli animali relazionali ed empatici, ma nella sua dimensione di generazione di senso e significato quel legame non è scontato e può dare vita a forme di socialità basate su relazioni “sorde” e “mute” in cui la presenza soggettiva non genera differenza e riconoscimento. Siamo di fronte all’indifferenza. Gli investimenti emotivi soggettivi vedono prevalere la negazione del conflitto e del confronto e ognuno definisce se stesso soprattutto in base alle proprie energie e risorse, la socialità implode e si affermano i paradossi della singolarità, della fissità e della pratica. In base al primo paradosso (me-ness) ognuno si considera ed è considerato come un’isola che si autodefinisce a fronte della sempre più evidente constatazione scientifica della nostra relazionalità naturale. Solo una negazione diffusa può sostenere un’implosione del legame sociale e una sua rarefazione sia a livello microsociale che macrosociale, sia nelle aziende e nelle istituzioni che nella società.

 

Il secondo paradosso assume, contro ogni evidenza scientifica, categorie come carattere e identità come se fossero statiche e non dinamiche, brandendo alcune caratteristiche come le competenze in modo fisso e immodificabile. In tal modo si trascura il valore distintivo dell’apprendimento e del cambiamento come tratti distintivi di homo sapiens e la formazione non può che divenire addestramento e indottrinamento o volatile compensazione emozionale, indifferente all’esame di realtà e all’azione. Secondo il terzo paradosso noi saremmo capaci di un agire immediato e pratico e l’esperienza e il lavoro vengono così deprivati del loro senso e del loro significato. Le comunità di vita e di pratiche tendono a divenire luoghi dell’indifferenza dove l’utile è ritenuto perseguibile separandolo dall’umano. L’attribuzione di senso e significato al legame dinamico delle relazioni così come all’opera, non è una scelta per la nostra umana esperienza: non possiamo non farlo. Nel momento in cui le condizioni contingenti e contestuali rendono difficile il senso, il significato e il riconoscimento, l’indifferenza si afferma come una delle vie difensive per cercare le condizioni minime per abitare aggregati che è difficile definire gruppi o sistemi sociali in termini tradizionali. Lo stesso accade per l’agire politico. 

 

 

La nostra patria, il nostro luogo, sono la contemporaneità. Oltre la patria e il luogo geografico in cui viviamo. C’è però un problema: la nostra indifferenza alla contemporaneità. Ci mostriamo ad ogni osservazione e con ogni evidenza refrattari al suo calore, alla sua temperatura, come pietre di camino. Ci rifugiamo nei nostri confini, spesso facendone muri e barriere. Ci chiudiamo soprattutto nei nostri confini interiori e l’individualismo e l’indifferenza agli altri e al tempo in cui viviamo prendono il sopravvento. Ne risentono in primo luogo le forme di solidarietà che hanno creato le maglie e i legami di base della nostra società originarie. Ne risente la nostra disposizione alla responsabilità attiva per creare un luogo vivibile per noi e i nostri figli. Tanto più che spesso le forme tradizionali sono usate come un logo o un brand, svuotandole ulteriormente di senso. È anche qui che agisce l’indifferenza? Se siamo naturalmente relazionali, come possiamo essere indifferenti? Questa è, in fondo, la domanda da porsi. A lungo abbiamo vissuto non accorgendoci né delle risorse naturali né dell’altro o semplicemente abbiamo negato il loro valore. Potevamo tenere distante il problema. Tutt’ora lo facciamo. Ma si tratta di un’altra modalità. L’altro è ineluttabilmente qui, con noi; l’altro è noi, eppure spesso elaboriamo la sua presenza con l’indifferenza. Le risorse naturali, e in particolare l’aria, l’acqua e il suolo, sono limitate e in crisi, ma ci volgiamo spesso dall’altra parte, evitando il problema. Facciamo come se non ci fosse. Il legame sociale e quello con la natura, quella rete di relazioni di cui ognuno di noi è fatto, mostrano evidenti segni di crisi e ridefinizione.

 

Daniele Del Giudice, con la sua arte narrativa, scrive, nel libro In questa luce: “‘io’ non è altro che il punto mutevole, risultato di una relazione con tutti gli altri, sul quale di volta in volta metto il dito”, descrivendo quella fenomenologia dell’esperienza che Vittorio Gallese, da neuroscienziato, ha chiamato “molteplicità condivisa”. Proprio in quella contingenza del legame sociale nella quale ci individuiamo, si sperimenta oggi una crisi e una trasformazione che non è facile definire né dire dove porterà. È proprio con l’immaginazione e la fantasia che sembra impattare principalmente l’indifferenza, vincolandone il concepimento, l’espressione e la manifestazione. L’indifferenza sembra colpire principalmente le aspirazioni all’altro e al mondo, i legami che possiamo immaginare e che ci consentono di elevarci da dove ce ne stiamo appiattati. Proprio negli spazi che in quelle dinamiche critiche si aprono, può emergere la creatività e ognuno di noi può sperimentare così la possibilità di riconoscere la differenza, almeno una differenza, e di trasgredire la consuetudine e la forza dell’abitudine, componendo e ricomponendo ancora una volta, in modi in parte originali, il rapporto tra la propria responsabilità civile, gli altri e il luogo in cui si trova. Vivendo finalmente al presente. Solo facendo della contemporaneità la nostra patria, possiamo riconoscere nel presente il valore di noi stessi, degli altri e del nostro mondo.

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