Sullo stato presente delle cose / Scuola: dalla DAD alle occupazioni

14 Febbraio 2022

Nel corso della fase più acuta dell'emergenza pandemica l'impegnativa gestione della quotidianità e il confronto con le difficoltà di tutti e tutte – amministratori, docenti, studenti, famiglie – hanno reso arduo scrivere di scuola per poter dire qualcosa che non fosse sgomento e fatica.

Si trattava di provare a costruire una quotidianità il più possibile rassicurante e garantire formazione e socialità, nonostante Didattica a distanza (poi Didattica digitale integrata) oppure con turni per le classi/studenti, spazi, servizi e opportunità ridotti. Anche quando la scuola ha ripreso a funzionare in presenza la normalità non c'è stata, per le tante ragioni di sicurezza che ben conosciamo. Si è poi entrati in una condizione indefinita di passaggio – quando finisce una pandemia? – caratterizzata da quello che l'emergenza ha lasciato da tanti punti di vista: nelle classi si sentono gli effetti postumi del lungo isolamento e il “ritorno alla normalità” si sta mostrando molto più complicato del previsto. La situazione è migliorata dall'inizio dell'anno scolastico 2021/22 e si è poi complicata per via della fase invernale e della gestione intricata delle quarantene: l'amministrazione quotidiana del problema sanitario, pur in un diverso scenario di rischio rispetto al passato, genera diverse complicazioni che impattano sulla vita delle famiglie e sta rendendo arduo il proseguimento dell'attività didattica per via delle forme miste che vedono la compresenza di studenti in classe e a casa. Non la si può chiamare “normalità”.

 

Gli effetti degli ultimi due anni scolastici sugli studenti continuano a sentirsi (e sarà così per diverso tempo ancora), come suggeriscono i dati sulla perdita di competenze, sul disagio psicologico e psichiatrico. L'interruzione e la frammentazione, avvenute in modi e con intensità differenti, hanno interessato non solo i percorsi formativi, ma anche la socialità e il conseguente sviluppo emotivo e psicologico. A scuola non si parla d'altro, ma la sensazione è che non ne traggano le adeguate conclusioni. L'esercizio della funzione valutativa (verifiche, scrutini ed esami) sembra prevalere sull'inclusione sociale e sulla (ri)accoglienza degli studenti nel contesto della comunità scolastica e delle sue prassi quotidiane anche più minute, che paiono nuove. In una presunta normalità e nello stridore tra le due esigenze – quella educativa e quella valutativa – si crea così il rischio che la scuola, uguale a se stessa, aumenti i problemi e non sia parte della soluzione alla crisi in corso. L'emergenza Covid-19/22 va considerata dunque come uno spartiacque rispetto a una serie di problemi già presenti, affrontare i quali non sembra più rinviabile.

 

Una prima questione, trasversale a ogni disciplina, è l'esaurirsi dell'ingenuo entusiasmo verso la didattica digitale, sperimentata in modo massivo e obbligato; su queste pagine si è scritto molto di come una didattica digitalmente aumentata debba dialogare con l'umanesimo e integrare le pratiche letto-scritturali, logico-matematiche e scientifiche con la dimensione dell'attivismo pedagogico, con una serie di condizioni imprescindibili senza le quali il digitale approfondisce le differenze di partenza tra studenti e crea disagio diffuso e generalizzato tra docenti e discenti. Altrettanto importante è ricordare come l'esercizio consapevole di strumenti digitali – utilizzarli e non esserne utilizzati, saper gestire la dipendenza che ne deriva – sia parte integrante dell'educazione alla cittadinanza (ora anche contenuta nell'insegnamento dell'Educazione civica).

 

Ciononostante, il forzato passaggio alla dimensione Dad /Ddi (pure meglio rispetto al nulla) ha significato una scuola smaterializzata e senza contesto sociale di interazioni in presenza tra pari, senza mediazione tra il luogo pubblico e quello privato della casa, senza il tratto strutturante dell'alzarsi al mattino per uscire “nel mondo” e quello auto-disciplinante degli spazi comuni e condivisi; è stata interpretata da molti docenti come emissione di informazioni, poco assimilabili per tempi e spazi, unilaterale e ridondante, e vissuta da molti studenti con scarsa motivazione, ridotta capacità di ascolto, autoriduzione del tempo-scuola (in alcuni casi ghosting, lo sparire, termine con cui si intende nel mondo digitale la cessazione intenzionale di ogni comunicazione e che di fatto è dispersione scolastica).

 

Nella sua forma peggiore le lezioni a distanza sono l'equivalente su video su youtube di bassa qualità senza la grazia del racconto e senza la libertà di poterlo scegliere, neanche nei tempi, con pratiche disciplinari parossistiche (legate alla diade tossica copiature e sotterfugi/repressione e controllo) e con interazioni docenti/studenti poco soddisfacenti e faticose per tutti.

Un effetto collaterale dei lockdown e della scuola a distanza è stata inoltra un aumento della dipendenza da connessione digitale e, in particolare per i preadolescenti, ha determinato la coincidenza di comunicazione e uso di smartphone, che nelle sue varie funzioni diventa il medium principale della significatività, una vera e propria estensione della propria identità, a discapito dei rapporti faccia a faccia e della gestione emotiva della relazione fisica: difficile tornare indietro quando la socializzazione al rapporto tra pari diventa strutturalmente quella mediata da una o più delle tanti dimensioni social. 

 

Ora, su questo scenario e sulla tendenziale sottovalutazione del disagio della popolazione scolastica – in cui includo quello dei docenti – si inserisce l'attuale momento di protagonismo che nelle scuole ha preso forma con manifestazioni e occupazioni che stanno interessando diverse città, con l'emergere di un movimento studentesco nazionale in via di definizione.

Non interessa qui fare una sintesi di quanto avvenuto, quanto prendere una posizione all'interno di un quadro ancora in movimento. Credo si debba innanzitutto esprimere solidarietà ai ragazzi e alle ragazze per il modo in cui sono stati trattati e affrontati in piazza in questi giorni: è fuori di dubbio che ci sia stato un uso sproporzionato della forza, in particolare perché esercitata nei confronti di giovanissimi; se da chi professionalmente deve garantire l'ordine pubblico è lecito aspettarsi una diversa e più oculata gestione della piazza, lo scenario nazionale (con dinamiche sostanzialmente analoghe in diverse città) ha invece mostrato un indirizzo politico di repressione del movimento studentesco, non condivisibile, e volto a impedire ogni forma di dialogo.

 

 

Le specifiche questioni didattiche, che rientrano nel quadro delle richieste studentesche, si devono inquadrare all'interno della difficile situazione pandemica e post-pandemica, non adeguatamente affrontata a livello interministeriale, nonostante le migliori intenzioni degli istituti scolastici italiani e del corpo docente. Molte delle ragioni di insoddisfazione e frustrazione che agitano il mondo studentesco sono diffuse e sono le stesse degli insegnanti (a loro volta divisi su tante cose). Non si possono ignorare le riserve sulle attività di Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento), all'interno di un più generale problema di quale debba essere il rapporto tra istruzione e lavoro: in tutta Italia e nelle varie articolazioni del sistema formativo la precedente Alternanza Scuola Lavoro (introdotta con la legge 107/2015 “Buona scuola”) è stata interpretata spesso in modi inadeguati e poco accettabili in diversi momenti, a geometria sociale e geografia umana variabile, e talvolta si è innestata sulla mancanza di sicurezza in molti comparti del mondo del lavoro, come il tragico incidente in cui è morto in stage Lorenzo Parelli, studente di un Centro di formazione professionale. Il fatto che questa non sia la condizione della maggioranza degli studenti non impedisce loro di aver ragione nel trovare inaccettabile questa morte e nel volere manifestare rabbia e cordoglio. 

 

Le esperienze positive di Pcto nei licei, svolte con realtà del territorio (musei, biblioteche, fondazioni, enti no profit, associazionismo e terzo settore etc.) – che ancora una volta evidenziano differenze di classe e di contesto – potrebbero benissimo continuare a esistere senza questa legge vincolante e con tempi che non prevedano la sovrapposizione o l'aggravio di orario curricolare, con docenti che si occupino solo di quello e, in definitiva, senza improvvisazione e soluzioni che gravino su tutor “di buona volontà”. In questo momento, quel tempo dovrebbe essere utilizzato per cercare soluzioni all'emergenza sociale e cognitiva che il mondo della scuola affronta e che sta rendendo il lavoro dei docenti sempre più complesso. Qualsiasi esperienza possa essere funzionale in tal senso è desiderabile, così come sarebbe da evitare ogni inutile irrigidimento formalizzato e privo di motivazione.

 

Quello che viene imputato al Miur, e al mondo adulto in genere, è la mancanza di ascolto nei confronti del movimento studentesco, che esprime e canalizza un disagio diffuso generazionale: la modalità repressiva con cui affrontare la protesta studentesca rischia di vanificare mesi di sforzi per rendere le scuole più umane e vivibili dopo i mesi complessi che abbiamo vissuto, con la messa in atto di ingenti risorse di tipo psicologico, forse ancora inadeguate e non ancora sistemiche di fronte a una emergenza così radicale, ma pur sempre un chiaro indirizzo verso la ricerca del benessere e dell'inclusione. Certo, è bene ricordare che i docenti di sostegno sono ancora troppo pochi rispetto alle esigenze e l'ondata di Piani di studio individualizzati per Bisogni educativi speciali non prevede risorse aggiuntive e viene affidata, con sostanziale delega dall'alto, a docenti che non hanno gli strumenti per gestire l'emergenza. Su questo vale la pena di aprire un inciso: una condizione di benessere diffuso non significa delegare allo “sportello piscologico” il disagio grave e già emerso, ma assumersene pienamente il compito nella didattica quotidiana: diversificazione dei tipi di valutazione, obiettivi e richieste esplicitate in modo più chiaro e con concertazione su tempi e modi, centralità della valutazione formativa, alleggerimento delle richieste valutative di tipo prestazionale frontale in favore di didattiche più partecipative e attive.

 

Sono esempi di una posizione didattica di maggior inclusività, negoziazione e di ascolto, che rendono più facile costruire un grado accettabile di benessere nella vita scolastica. La quale è fatta anche di momenti di gratuità e immersione nell'esperienza culturale, in cui siano sospesi pressione valutativa e clima competitivo orientato al superamento di test, in un contesto diverso dalle culture aziendalistiche. Insomma, la scuola era in una crisi di sistema già prima della pandemia, così come il crollo di alcune competenze-base era già ravvisabile nella società intera e quindi anche tra gli adulti, per ragioni che non sono ascrivibile alla scuola stessa.

 

Un analogo discorso riguarda l'esame di Stato. È (sempre stata) una buona norma e consuetudine che un esame si svolga con modalità e norme chiare e note fin dall'inizio dell'anno scolastico, in modo tale da poter rispettare una programmazione condivisa e garantire un'adeguata preparazione delle classi in vista delle prove, che sono e rimangono un momento di grande impegno, stress e attivazione psichica. In questo momento, un reinserimento di due prove scritte, a fronte di un mancato ritorno alla normalità all'inizio del secondo pentamestre/quadrimestre, colpisce gli studenti delle classi quinte (classi che hanno affrontato le terze annualità in pandemia) e soprattutto mostra mancanza di volontà di ascolto nei loro confronti. Sarebbe più sensato attuare le “nuove” regole nell'anno 2022/23, in modo tale che per quest'anno ci sia il tempo per riprendere pienamente ritmi, consuetudini, pratiche in un diverso paesaggio sanitario.

 

La recente valutazione negativa del progetto di esame varato dal Miur, espressa dal Consiglio superiore della pubblica istruzione, che riguarda anche l'esame di terza per il ciclo della secondaria di primo grado, va oltretutto in questa direzione e conferma richieste di studenti e l'opinione di molti docenti. Considerare l'anno in corso come ancora in emergenza sarebbe un riconoscimento del profondo disagio che colpisce la fascia di età adolescenziale, come attestano – lo ricordo ancora – gli allarmi lanciati dagli addetti ai lavori in relazione alla salute mentale e come la nostra esperienza quotidiana conferma.

Quale che sia la conclusione dello stato contingente della questione, è solo l'inizio di un processo di trasformazione necessario da molti anni, per certi versi in corso ma per altri impedito e ostacolato anche da un dibattito pubblico ottuso, di cui i mainstream media sono i primi responsabili e in cui dominano tendenziale conservatorismo culturale, spinte aziendaliste neoliberiste e varie declinazioni ideologiche (che in ogni caso rifiutano il confronto con la sociologia della scuola).

 

Per come la vedo io, questo è il momento di solidarizzare e sostenere studenti e studentesse, mantenendo distinti i ruoli ma lasciando loro il diritto a una comprensibile manifestazione di dissenso critico, nelle forme responsabili e mature che sapranno mostrare. Soprattutto è il momento di parlarci veramente, di riprendere a discutere nei collegi e nelle assemblee, di mettere in discussione l'efficacia dell'azione didattica, di abbandonare consuetudini, inerzie di lungo periodo, posture ideologiche e rendite di posizione, di promuovere la ricerca di una scuola diversa come obiettivo da costruire collettivamente, attraverso il confronto tra studenti, lavoratori della scuola e famiglie. È un processo difficile e non privo di conflittualità che affronteremo tanto meglio se non perderemo la cognizione di cosa fa la differenza tra età adulta e adolescenza.

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