Immortalità / Mathias Enard e la confraternita dei becchini

4 Novembre 2021

Roland Barthes, semplificando, separava il piacere del testo dal godimento di un testo. Il piacere, nella sua ambiguità, rimanda a una pratica confortevole della lettura, che appaga, soddisfa, dà euforia. Secondo Barthes il godimento porta a uno stato di perdita che fa vacillare i presupposti culturali, psicologici e storici fino a far perdere al lettore la consapevolezza del suo io. Il libro di Mathias Enard, Il banchetto annuale della confraternita dei becchini (E/O, 2021, traduzione di Yasmina Melaouah), così profondamente intriso di cultura francese, rinvia a quel saggio illuminante che invitava a riflettere sul fatto che, in un libro "riuscito", è l'avidità di conoscenza che spinge il lettore ad accelerare il percorso di lettura, per giungere allo svelamento della storia, sorvolando sui dettagli, saltando le descrizioni, nel godimento vorace di appropriarsi eroticamente della vicenda narrata, in una sorta di perversa dimenticanza di sé. 

 

Molte pagine del Banchetto domandano lentezza: quella necessaria ad apprezzare il giro perfetto della frase, la metafora azzeccata, il sapore della lingua restituito attraverso la descrizione della squisitezza dei cibi e dei vini, il congiungersi impeccabile di storie lasciate e poi riprese, per tenere desta l'attenzione del lettore, in uno sfoggio barocco di erudizione e di intelligenza impressionante, seppure con un sospetto di compiacimento accademico. La biografia di Enard ci informa che ha studiato arte, si è perfezionato in arabo e persiano e, dopo lunghi soggiorni in Medio Oriente, si è stabilito a Barcellona dove insegna all'università, traduce e scrive su riviste culturali, oltre a pubblicare romanzi (questo è il settimo) che hanno vinto il Premio Goncourt, il von Rezzori e sono stati finalisti al Man Booker International Prize e allo Strega Europeo.  

 

Il banchetto annuale della confraternita dei becchini inizia in sottotono, come il diario abbastanza sciatto di un giovane etnologo, David Manzon che, per la sua tesi di dottorato, si trasferisce in un piccolo villaggio rurale per studiare, sulle orme del suo mito Bronislav Malinowski, la vita nella campagna francese del ventunesimo secolo, proprio come il suo mentore aveva osservato agli inizi del Novecento gli usi e i costumi delle popolazioni della Melanesia. Il paesino, situato nell'orbita di Niort, cittadina del dipartimento di Deux- Sèvres, tra Angoulême, Tours e Nantes (come ci informa la cartina geografica riportata all'inizio del libro) ma sperduto in the middle of nowhere, è abitato da poche persone. In sella a un vecchio motorino con cui percorre la campagna, alloggiato spartanamente a casa di una coppia che gli affitta una parte della sua cascina, il protagonista programma di intervistarle tutte ma, a contatto con il sindaco-impresario di pompe funebri, un pittore erotomane, una bella contadina che sta per divorziare, il nonno e il nipote che vivono con lei, una coppia inglese di pensionati, il prete, il suo sguardo scientifico si modifica fino a trasformarsi in un'esperienza iniziatica che subirà il fascino di un reazionario ritorno alla terra.

 

Il resoconto dimesso dei primi giorni di adattamento a questa nuova realtà, che vanno dall'11 dicembre al 13 gennaio di un anno freddissimo, lascia il posto alla narrazione vera e propria, con tre pagine e mezzo, scritte magnificamente, di una "canzone" a sé stante, tanto per sorprendere il lettore con un esercizio di stile che lo riconcili con la materia romanzesca. È subito chiaro che il racconto di queste vite insignificanti sarebbe destinato alla dimenticanza se le loro storie minime non fossero riscattate da una lingua fastosa. Infatti il registro, abbandonando la forma semplicistica del diario, cambia e tutto quello che c'è di grottesco, di esagerato, di funebre e di comico nella tradizione della letteratura francese, dove il pensiero profondo convive con il riso liberatorio, viene esibito con virtuosismo pignolo. Il romanzo diventa storia gotica, epopea della Francia raccontata partendo da paradigmi indiziari, il formaggio e i vermi, il cosmo di un contadino e di un prete, tra stregoneria e pietà popolare come se Mathias Enard avesse letto Carlo Ginzburg.

 

 

La morte si aggiudica quasi tutte le scene e i primi piani, nelle credenze popolari e nel racconto dello scrittore onnisciente che, di ogni personaggio, racconta la metempsicosi: "solo lui sapeva che il nonno era stato, alla rinfusa, mezzadri uomini e donne, sguattere di fattoria, un bracconiere errante, svariati caprioli, un cane", "il cinghiale, che era stato padre Largeau", "Gary ... ignorava di essere stato, in virtù delle sue rinascite precedenti, la grintosa proprietaria di una mescita nel comune di Lezay, un'operaia delle concerie di Niort morta di parto, un caporale di artiglieria di La Chapelle-Baton deceduto di febbre spagnola ... e una lupa, una lupa grigia della foresta dell'Hermitain". 

Di un impiccato ricorre l'immagine dell'alluce, che faceva capolino da un calzino bucato. Stratificazioni storiche, un avanti e indietro nel tempo, immersioni nella contemporaneità tra smartphone e la rivista di moda Elle, invettive green ("Inventiamo i funerali BIO. La confraternita avrà la sua etichetta...La gioia del pianeta, dici? Del pianeta? Ti mancano le trecce e il nome Greta!!! In svedese ci farai il sermone, chissà? Ma l'isteria ecologista non passerà") conducono alla parte centrale del libro, a quel Banchetto annuale della Confraternita che il sindaco-impresario di pompe funebri organizza per dare tregua ai becchini, che conoscono Gargantua e Pantagruele ("ma non Rabelais"): e qui l'abilità di Mathias Enard si scatena per lasciare il lettore attonito, meravigliato dalle nature morte descrittive degli arrosti e dei pesci, delle lepri e della selvaggina, delle carpe, rane e anguille, dei trionfi di lumache, dei maialini da latte grondanti olio e burro, dei novantanove formaggi e dei vini, fino alla comica finale delle torte in faccia: "l'ospite del Banchetto era il bersaglio di innumerevoli lanci, di choux e di chouquettes, e siccome non era più in grado di schivarli, gli esplose sul nasone rubizzo anche una gigantesca religeuse al cioccolato, meteorizzando di particelle nere i volti circostanti.

 

Tutti si leccavano e rileccavano accuratamente per pulirsi, e mangiavano e mangiavano quei dolci divini come se fossero gli ultimi, poiché il Banchetto si approssimava alla fine". Vite miserabili di ubriachi trasformate in leggenda, ricostruzione di un mondo contadino alla ricerca di una verità letteraria, più che documentaria, come la falsa pista dell'incipit antropologico ci aveva indotti a credere. 

Nell'ultima pagina del libro, David Manzon, tornato a scrivere il suo diario, dice addio al villaggio che l'ha ospitato: "Addio selvaggi, addio viaggi! ho gridato ... Ho avuto un pensiero per Lara, era davvero meglio così. E m'andrò a cercare un angolo remoto ... Dove sia ancora possibile lavorare la terra ... Ho acceso il motore, ho messo la prima e siamo partiti per andare a salvare il pianeta".  

 

Nel romanzo di Mathias Enard la morte, la grande protagonista, quando uccide qualcuno è per rimetterlo in circolazione, come animale o come essere umano, in una Ruota del Tempo che pare condannare all'immortalità, in una centrifuga che ricicla i destini di tutti facendoli rinascere in altri corpi. La consuetudine dei becchini con la Falciatrice, i loro piccoli traffici con la formaldeide da imbalsamatori per guadagnare qualche soldo, la contemplazione di una donna falsamente incinta delle acque dove avrebbe dovuto annegare il suo segreto, la leggenda del ticchettio dell'orologio al polso del cadavere di padre Largeau, che scandì le ore per due lunghi anni nella bara prima di fermarsi, raccontano una piccola società rurale che non teme la morte, perché il senso dell'esistenza è e sempre sarà racchiuso in quel destino fatale. L'immortalità, nel Banchetto, non è quella dei cattolici che aspirano al Paradiso eterno ma la trasmigrazione in altri corpi, animali, vegetali, minerali e non c'è disuguaglianza di fronte alla morte (“era questo uno dei principi del Banchetto, l’uguaglianza di fronte alla morte”): una bugia che aveva detto anche Totò ('A livella). Dalle società selvagge alle società moderne, l'evoluzione sembra invece irreversibile: al contrario di quel che accade nel Banchetto annuale della confraternita dei becchini poco a poco, nella storia, i morti cessano di esistere.

 

Sono respinti fuori dalla circolazione simbolica del gruppo, direbbe Jean Baudrillard, non sono più esseri a pieno titolo, partner degni di scambio, e glielo si fa ben notare esiliandoli sempre più lontano dal gruppo dei vivi, dall'intimità domestica al cimitero, prima raggruppamento ancora al centro del villaggio, poi primo ghetto o prefigurazione di tutti i ghetti futuri, respinti sempre più lontano, infine in nessun posto, i morti cremati con le ceneri sparse al vento, come nelle nuove città in cui nulla è più previsto per loro, né nello spazio fisico né in quello mentale. 

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