Nel temporale della Rivoluzione

18 Febbraio 2016

C’è un breve discorso sul teatro che Georg Büchner ha fatto scivolare nella sua Morte di Danton come uno specchio improvvisamente offerto agli spettatori. Ed esso risuona anche nella versione che Mario Martone ha portato in scena al teatro Carignano per il Teatro Stabile di Torino: arriva verso la fine del II atto e a pronunciarlo è Denis Fasolo nei panni di Camille Desmoulins. Esprime quell’insanabile contrasto tra l’imitazione e l’essere, tra la finzione e la natura, che percorre tutta l’opera del drammaturgo tedesco morto giovanissimo dopo aver dato alla luce una manciata di capolavori, tra cui questo dramma moltitudinario ed esemplare a lungo ritenuto irrappresentabile, scritto non per il suo secolo ma per quello successivo. “Quelli che dopo il teatro escono per strada”, dice Desmoulins, trovano la realtà miserabile e della Creazione, “incandescente, fragorosa e piena di luce”, non scorgono che la banalità. Mentre sulla scena basta mettere giacca e pantaloni a “un’emozioncina” (a una massima, a un concetto) e lasciare che “questo coso” si affanni per tre atti, prima di sposarsi o di spararsi, perché tutti vedano apparire l’ideale. Forse nessuna opera d’arte, e tanto meno un’opera teatrale, ha il diritto di esistere se non si espone al vento di un infinito imprevedibile che ne minaccia la coerenza e le forme. E il Dantons Tod è quasi squassato dall’estenuante sgretolarsi delle marionette della Storia contro la tela invisibile di una vita che la pura idealità non riesce mai a esaurire: vittime dei loro stessi inganni – come direbbe lo Shakespeare che ribolle sotto la scena büchneriana della Rivoluzione – e ancor di più tradite dalla loro continua mascheratura in immagini e sentenze.

 

 

La Rivoluzione (l’unica, la vera, la tragica, la Grande) ha uno sviluppo teatrale e quasi claustrofobico: si concentra in stanze, studi, palazzi, piazze, prigioni, si rinchiude in intrighi, manovre, discorsi altisonanti pronti a ricadere in deliri e glossolalie. Per ciascuno di essi, la regia di Martone apre e chiude un sipario rosso fuoco, animando un labirintico meccanismo di rivelazioni e di nascondimenti che, soprattutto nella prima parte, funziona come una carrellata cinematografica, un dispositivo visionario che estrae quadri – d’epoca, se l’epoca non fosse quella di un immaginario tra i più saccheggiati dal teatro e dal cinema, dove ormai tutto è volente o nolente stilizzazione – e scoperchia angoli proibiti, nascosti dietro la tenda sbagliata. Come all’inizio quando, nello stesso palazzo in cui la nuova borghesia rivoluzionaria sta giocando a carte, un trasgressivo colpo d’occhio svela un’ammucchiata sadiana che è l’altra faccia della dissoluzione politica su cui il dramma si apre, quella della lotta a morte tra gli Indulgenti e i Giacobini. Quasi una citazione del Marat-Sade di Weiss, voce dal sen fuggita, e subito richiusa, di un’avanguardia che fu, convinta che il radicalismo rivoluzionario, del teatro e della vita, passasse anzitutto per i corpi (e che il regista napoletano non mancherà di riprendere nella nudità seduttiva e lustrale di Marion, l’amante di Danton interpretata da Beatrice Vecchione).

 

Assistere alla Morte di Danton vuol dire sistemarsi nel mezzo di una valanga che non si arresta, ma si impunta, aprendo radure abbagliate di luce che subito vengono travolte: la storia, secondo un’immagine classica che Büchner è stato il primo a fissare sulla bocca del suo Saint-Just, è un fiume in piena che a ogni ansa rigurgita i suoi annegati. Lo spettacolo è quello grondante, di sangue e di parole, della Rivoluzione che “come Saturno divora i suoi figli” (e si ripeterà quasi alla lettera sulla scena del Terrore di stato staliniano), ma il teatro è il contrappunto del singolo a questa grandiosa e ininterrotta marcia funebre, quella voce che non vuole ammutolire nel coro, ma fino all’ultimo, continuare a testimoniare, persino penosamente, per la propria singolarità: è la sofferenza (la sofferenza e non la ragione) che per il disinvolto Tom Payne di Paolo Graziosi basta da sola a mettere in scacco la presunzione che esista un dio; è il controcanto solitario di Lucile, la moglie di Desmoulins, che sta al dramma di Büchner come Ofelia sta all’Amleto; è la quiete tombale tra le braccia dell’amante in cui il corpulento Danton vorrebbe scomparire o il dubbio che corrode la tensione nervosa dell’incorruttibile Robespierre che una parte di se stesso sorvegli e inganni l’altra; sono gli eccessi carnali e umorali del popolo a cui Martone distribuisce accenti di napoletanità che rievocano il suo popolo (quello emotivo e impolitico che convocò anni fa sulla scena dei Dieci comandamenti di Viviani). Più che un evento, la Rivoluzione è un ventriloquio che parla in tutti i personaggi (“non siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione” dirà a un certo punto Danton “è la rivoluzione che ci ha fatti”), una metafisica virale che ogni fazione declina a suo modo, e a sua immagine, in un mondo dove i vivi si atteggiano volentieri a morituri e i morti (Marat, gli hebertisti, il Re decapitato, gli aristocratici massacrati nel settembre del 1792) aleggiano come fantasmi sulle macerie della repubblica stregata dal Terrore.

 

 

Ma niente sarebbe veramente leggibile in questo affresco plurale se la regia non avesse restituito al Danton di Giuseppe Battiston e al Robespierre di Paolo Pierobon la centralità di un antagonismo che finisce per illuminare ogni sfumatura, ogni rivolo, ma anche ogni cedimento e ogni crepa della tela spettacolare. E se i due non dessero prova di una straordinaria forza di incarnazione, giocata su due registri drasticamente opposti: dal basso il primo, bigger than life, o meglio grande, non più della, ma come la vita; precipitando da un’altezza demoniaca il secondo, infilato nei suoi neri e aderenti abiti gesuitici come uno spirito sottile che non ha altro corpo. Quanto basta per indurre gli spettatori a credere, qualunque cosa pensino dello spettacolo, di aver visto Danton e Robespierre, il libertino e il prete, come erano, come sono e come saranno, nel loro incomponibile dissidio. Che è un duello a distanza, uno scontro senza incontro insieme filosofico e attoriale dove destino e carattere si confondono – perché è il teatro che, come la rivoluzione, fa gli attori, ma poi sono questi ultimi la misura estrema della sua esistenza in mezzo agli uomini (con buona pace di Alain Badiou e altri teorizzatori di un idealismo registico da burattinai).

 

Alternandosi sulla scena come il sole e la luna, uno plateale e fanciullesco, l’altro tagliente e sbirresco, Battiston e Pierobon mostrano di che materia è fatto il confronto eterno e mai risolto tra l’indulgenza e il giacobinismo. Ed è una pasta “umana, troppo umana”. Si assapora il frugale epicureismo del primo, padrone ironico di una retorica che ormai l’annoia, intento a cercare l’essenziale fuori dal teatro della storia e ci si risveglia sotto il flagello stoico del secondo, talmente dominato dall’abnegazione con cui interpreta il proprio ruolo di sacrificatore sulla scena della Rivoluzione che, uscendone anche solo per un momento (dopo essersi paragonato a Cristo) non può incontrare altro che la propria solitudine. “Tutti si allontanano da me – ogni cosa è desolata e vuota – io sono solo”. Una bellissima caduta di respiro, superbamente esalata da Pierobon, suggella la fine di quella che Marx chiamava “l’illusione politica del giacobinismo”. Büchner guarda nelle contraddizioni future della libertà moderna, e, grattando la patina dei costumi di Ursula Patzak, la spettatore potrebbe veder sorgere di tutto sulla scena di Martone: lo stalinismo e la contro-rivoluzione, il giustizialismo e la corruzione, il moralismo e il libertarismo. Ma la dialettica del dramma è troppo viva per non rifiutare tutte le maschere che a prima vista le calzano a pennello. Perché la sfida non è tra la virtù e la moderazione, ma tra la virtù e l’essere, tra la figura della necessità (la maledizione del “deve”, come suona nella nuova traduzione di Anita Raja adottata da Martone) e la inesausta domanda che il Dantons Tod non smette di rilanciare attraverso i secoli per bocca del suo eroe: “che cos’è ciò che dentro di noi mente, puttaneggia, ruba e ammazza?”.

 

 

L’intellettuale Mario Martone legge tutto questo (e molto altro ancora), lo legge così bene anzi che alla fine della prima parte assesta un colpo politico che sorprende per la sua raffinata ambivalenza: l’intero coro degli attori intona, come da didascalia, la Marsigliese, ma lo fa con i sipari che oscurano le teste. È un canto da decapitati che arriva dopo il discorso in cui Saint-Just – il vero teologo del Terrore a cui l’ottimo Fausto Cabra dà tutto il gelo e il fuoco che gli spettano – invoca la ghigliottina e la guerra per rigenerare l’umanità. Sul palco del Carignano la guerra e la libertà cantano insieme, suscitando non solo commozione o nostalgia, come sempre accade (e soprattutto negli ultimi tempi) con la Marsigliese, ma anche sgomento, se non un fremito d’orrore, perché l’inno dei diritti chiama alle armi più vistosamente che mai. Lo stato d’emergenza è un’altra maschera possibile dell’ambiguità giacobina. Il regista Martone sembra esitare a metà strada tra i suoi teatri di guerra d’antan e la sua, relativamente nuova, attrazione per il melodramma. Il suo popolo si muove ancora, i suoi sanculotti scendono in mezzo al pubblico, o lo sorprendono dal fondo, come gli applausi in stereofonia che salutano i discorsi dei tribuni, i suoi sipari animosi sono anche macchine del vento che ritmano la natura temporalesca (così la definiva Paul Celan) di uno dei più bei testi della letteratura teatrale di tutti i tempi, culminando nella notte allucinatoria in cui Danton scopre di aver condiviso la stessa colpa “necessaria” dei suoi nemici, scatenando i massacri del fatidico settembre del 1792.

 

 

Sobrie quanto accurate le ricostruzioni, quasi irreprensibile il numeroso cast. Eppure, già rientrando per la seconda parte, si ha l’impressione che la tensione sia caduta e che la regia si sia limitata, come il dio di Cartesio, ad accendere il meccanismo per poi voltargli le spalle. Qualcosa manca, a dispetto degli attori, ed è una qualità ineffabile, forse neanche giusta, magari inesistente. È proprio quell’apertura alla vita (alla vita senza teatro) di cui Desmoulins parla nel secondo atto, quel soffio lirico che nei testi di Büchner fa tutt’uno con il lucido materialismo, e che non appartiene alla parola ma la spinge oltre, ai limiti dell’afasia, del silenzio o della follia. Dalle parti del Woyzeck e del Lenz. Se ne era avuta un’avvisaglia poco prima, in una scena stupefacente dove la diafana Lucile di Irene Petris appariva con un bambino in braccio, un vero e bel bimbo riccioluto che girandosi verso la platea le strappava una specie di sospiro, perché di colpo, nel grandioso sferragliare di quella retorica mortifera che è la Storia compressa nella bolla rivoluzionaria, parlava d’altro ed era se stesso (Horace Desmoulins, che ebbe per padrino Robespierre, sarà l’unico sopravvissuto della sua famiglia). Ma poi questa anti-parola, che nella Morte di Danton è consegnata solo alle donne, a Marion, a Julie (Iaia Forte), a Lucile, torna a spegnersi nel rotolio virile della carretta che accelera verso la ghigliottina portando con sé i discorsi di un mondo di uomini che, ormai incapaci di vivere senza uccidere o essere uccisi, sognano, come adolescenti, di “morire insieme”. Le amanti, le spose, le madri della Rivoluzione non hanno più voce quando il rimbombo della storia alza la propria. Persino il delirio di Lucile sotto il patibolo diviene inudibile e quando risuona la flebile ironia del suo “Viva il Re!”, solitario, assurdo e anti-storico, il dramma si è già chiuso attorno al suo corpo smarrito e il pubblico si prepara ad applaudire l’affresco, l’insieme, lo spettacolo. Il singolo, come diceva Büchner, è solo schiuma sulle onde.

 

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Morte di Danton

Di Georg Buchner. Traduzione di Anita Raja. Regia e scene di Mario Martone. Costumi di Ursula Patzak, luci di Pasquale Mari, suono di Hubert Westkemper. Con: Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciano Zazzera. E con: Matteo Baiardi, Vittorio Camarora, Christian De Filippo., Claudia Gambino, Giusy Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione.

Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

In scena a Torino al teatro Carignano fino al 28 febbraio e poi a Milano, al Piccolo Teatro Strehler, dall’1 al 13 marzo.

 

Libri:

Georg Büchner, Morte di Danton, trad.it di Anita Raja, Einaudi, Torino, 2016

Enrico Piergiacomi e Sandra Pietrini (a cura di), Büchner artista politico, Università degli studi di Trento, Dipartimento di Lettere e filosofia, Trento, 2015

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