Nelle giungle e sulle rive dei mari
Una delle cose che sta cambiando ai tempi dell’Antropocene è l’immaginario del mondo. La foto scattata il 24 dicembre del 1968 durante la missione dell’Apollo 8 in cui si vede per la prima volta a colori il sorgere della terra, venduta per 12.000 euro nel marzo del 2022 in un’asta a Copenhagen, ha cambiato per sempre la nostra percezione del pianeta. Davvero io vivo in quella palletta azzurra che galleggia nel buio? La nostra è una civiltà in cui il senso della vista ha un’importanza predominante su tutti gli altri sensi, e vederlo da fuori, il mondo, vedere che è un solo oggetto a contenerci tutti, ha avuto un impatto notevole.
Una decina d’anni più tardi James Lovelock insieme a Lynn Margulis ci hanno detto che tutto ciò che vive sulla terra è in diretta relazione non solo con i viventi ma anche con ciò che non vive e forma un sistema unico. Come dire che io e quella pietra in qualche modo siamo collegati, ci influenziamo a vicenda anche se non vogliamo. Nella palla azzurra io sono collegato a tutto il resto. Anche alle nuvole. E via di ipotesi Gaia, di misticismo da rotocalco, di quantistica trascendentale da bar, ma soprattutto vai col pianeta: il mondo, diventato pianeta, diventa un soggetto di cui parlare, discutere.
Nel 1987 esce il rapporto Brundtland in cui appare per la prima volta in modo netto l’idea di sviluppo sostenibile e il mondo-pianeta diventa soprattutto qualcosa da salvare. Ci penso io! dice il sistema industriale, e dopo pochi anni, appropriatosi bellamente dell’intero immaginario ecologico e trasformatolo in qualcosa a lui funzionale, si accinge a salvare il pianeta sfornando sacchetti biodegradabili e merendine sostenibili. Oggi l’immaginario che emana l’idea di mondo è simile all’immagine di una barca che sta affondando piena di gente. Mentre ai piani superiori si fa festa, in quelli inferiori ci si affanna a rattoppare le falle da cui entra l’acqua. Se assumiamo questa immagine, la comunità scientifica si trova sotto, coi laboratori e tutto.
Nella comunità scientifica e di conseguenza nelle bolle culturali che produce, molto più estese e incontrollabili, l’arrivo dell’immaginario dell’Antropocene ha prodotto un profondo cambiamento sull’idea del mondo. C’è una zona che ha preso un’importanza notevole ed è quella che riguarda il tempo. Parlare di Antropocene immediatamente lo chiama in causa e fa rivolgere su di lui l’attenzione e di conseguenza lo studio.
Uno degli effetti è stata l’introduzione dell’idea di tempo profondo, in breve, vedere la nostra storia di umani dal nostro arrivo e non da quando abbiamo iniziato a usare la scrittura. Il periodo buio che per secoli non ha neanche avuto un nome, ma viene tutt’ora definito in relazione a quella che chiamiamo storia, la preistoria, ha iniziato ad attrarre sempre più ricerche. Questo rimescolare il passato alla ricerca del futuro ha potenziato l’attenzione su tutte le storie, quella del mondo compresa. In questa linea si può leggere Giungle, Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi, di Patrick Roberts, uscito per Aboca nel 2022.
Trentun anni, archeologo, Patrick Roberts lavora al Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena, in Germania e ha una passione: le foreste tropicali. Giungle è il suo primo libro di divulgazione, dopo innumerevoli pubblicazioni scientifiche. Roberts parte subito trasportandoci in uno dei suoi viaggi lungo il Rio delle Amazzoni e da lì, fra serpenti velenosi, coccodrilli e gigantesche zanzare, complice il paesaggio, inizia a rivedere la storia dell’intero pianeta dal punto di vista delle foreste tropicali, non solo smantellando uno dopo l’altro tutti i luoghi comuni, ma prendendosi un largo spazio per parlare dei loro abitanti dall’inizio dei tempi, animali di tutti i generi, come ben si addice a luoghi dalla biodiversità esplosiva.
È come se Roberts avesse approfittato dell’occasione per rimettere un po’ in ordine la storia del pianeta e lo fa partendo dalla Pangea, trecento milioni di anni fa fino a oggi, soffermandosi in particolare sulle origini: “gli ultimi studi di paleoantropologia, archeologia e scienze ambientali dimostrano che le foreste tropicali potrebbero aver giocato un ruolo molto più attivo e duraturo ai fini della nascita e dell’evoluzione dei nostri primi antenati di quanto si sia pensato.
Le origini degli ominini sembrano certamente aver avuto luogo nelle foreste tropicali.” Vista dalla sua prospettiva scopriamo che noi umani fra le maestose piante tropicali ci siamo nati e ci siamo sempre trovati benissimo e, una volta imparate quelle due o trecento cosette per evitare di morire, ci siamo installati lungo i fiumi in mezzo alle foreste spesso e volentieri, e tutt’ora lo facciamo, sempre che qualche amico del presidente di turno non venga a cacciarci per radere al suolo ogni forma di vita, noi compresi.
Roberts non si limita a ribadire con nuove argomentazioni che la nostra origine è certamente nella foresta, ma ribalta una delle credenze più diffuse non solo fra il largo pubblico, ma anche fra gli accademici: “il bipedismo potrebbe aver avuto origine nelle foreste tropicali, non nelle savane.” E continua nello smantellamento dei luoghi comuni: “Le foreste tropicali hanno la reputazione di essere tra gli ambienti più incontaminati prima dell’industrializzazione. Tuttavia, in realtà, vantano uno dei più lunghi se non il più lungo, elenco di modifiche da parte degli esseri umani.
Già 45 mila anni fa, quando la nostra specie è arrivata nei tropici e nei subtropici del Sudest asiatico, della vicina Oceania e dell’Australia, ha appiccato fuochi negli ecosistemi delle foreste tropicali per favorire la nascita delle praterie e creare varchi nelle foreste.” Ma non solo noi abbiamo origine nelle foreste. “Il pollo rappresenta in modo ancora più certo, un esempio di animale addomesticato nella foresta tropicale. (…) Anche se non si direbbe a guardarli, discendono dai polli rossi della giungla che hanno a lungo infestato le foreste tropicali dell’Asia. Un recente studio genetico (…) mostra che il pollo domestico discende da una sottospecie di pollo della giungla che vive nei tropici della Cina meridionale, della Thailandia e del Myanmar.”
Che le foreste abbiano a che fare con il clima è qualcosa di noto, ma ci sono esempi che lo rendono molto chiaro. Tra il 1600 e il 1650 si è verificato un fenomeno che viene chiamato Piccola Era Glaciale. In tutta Europa laghi e fiumi ghiacciarono, i raccolti andarono a rotoli, fu un periodo di grande carestia per tutti. Indirettamente, fu colpa di Colombo. “Entro i primi centocinquant’anni dall’arrivo degli europei, in tutti i neotropici, un numero impressionante di indigeni era deceduto a causa di malattie arrivate da oltre l’Atlantico. (…) l’assorbimento stimato aggiuntivo di carbonio, che si era determinato con la crescita rapida di nuove foreste nelle Americhe, in assenza di umani, ha rappresentato, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, una porzione significativa del calo di 7 parti per milione nella concentrazione atmosferica di CO2, come rilevato dal carotaggio del ghiaccio polare. Questo calo ha ridotto le temperature globali di 0,15° C.” sufficienti per provocare la Piccola Era Glaciale dell’inizio del Seicento.
Verso la fine del suo corposo volume, 493 pagine, Roberts quasi a concludere, scrive: “Le miniere dei neotropici hanno letteralmente fornito il denaro per le imprese economiche e politiche europee, le piante e i territori tropicali di tutto il mondo hanno offerto la base per le piantagioni e i sistemi di allevamento. E tutto questo ha permesso l’accumulo di ricchezza statale e privata in Europa e America. Molte vite umane nei tropici sono andate perdute, i corpi sono stati mercificati, trasferiti con la forza e plasmati per sempre dai processi coloniali e imperiali. Le cicatrici lasciate sul nostro pianeta, sotto forma di zone aride, diseguaglianze politiche ed economico-capitalistiche, conflitti razziali e conseguenze sui sistemi terrestri, possono essere osservate nel profondo attraverso la lente della storia dei tropici.”
Insieme alla preistoria, alla foresta e al tempo profondo, un altro grande argomento che forma l’immaginario del mondo contemporaneo è il mare. O meglio l’inquinamento del mare, le isole di plastica nell’oceano che silenziosamente si muovono, sufficientemente lontane da noi per fingere che non esistano. Nel 1955, neanche cento anni fa, non esistevano davvero. È del mare di quegli anni che scrive Rachel Carson in La vita che brilla sulla riva del mare, per la prima volta tradotto in italiano da Aboca nel 2022.
È un libro del limite, un limite fisico, quello fra la terra e l’acqua, il titolo originale è The edge of the sea, un discorso sul bordo, il punto ibrido non più terra, non ancora mare, una soglia. È inevitabile che venga in mente Florenskij quando parla delle icone, che vede come soglia fra questo mondo e quello trascendente, partecipe di entrambi, punto di passaggio, luogo speciale e unico. È un libro delle coste, che analizza considerandone tutte le varianti, ma soprattutto è un libro di forme di vita che trovano nella soglia il loro punto di equilibrio. La cosa che più mi ha colpito è lo stile della Carson.
Oltre a essere tutto ciò, The edge of the sea, è uno straordinario romanzo capace di trasportare la mente in un’altalena vertiginosa e lieve indietro di 500 milioni di anni e farla tornare lì, sulla riva del mare dove state passeggiando a piedi nudi seguendo quella signora cortese che dopo qualche anno ingaggerà una mortale battaglia contro il sistema che stava distruggendo non solo quella vita di cui vi sta parlando, ma anche quella di tutti noi.