Nils Frahm. Una malinconia berlinese

10 Settembre 2014

Nils Frahm è uno dei compositori più interessanti della nuova scena contemporanea europea. Lavora a Berlino nel suo Durton Studio. Pianista acustico e elettronico, sarà uno degli ospiti più importanti della sezione non-classica del festival MITO, l’11 settembre al Piccolo Teatro di Milano. Abbiamo cercato di capire meglio la sua visione della musica: molti titoli di suoi pezzi parlano di pioggia, di perdite, di tristezza... e lui ama il clima freddo della sua città. Il suo segno zodiacale è Vergine. È ironico, e di poche parole.


Hai 31 anni, il tuo primo album fu Wintermusik, del 2009: il tuo stile c’era già tutto. Quali sono stati i tuoi guru? Da qualche parte ho letto che il tuo maestro di pianoforte, Nahum Brodski, era stato allievo dell’ultimo allievo di Čajkovskij!
«Il maestro del mio maestro di pianoforte non era l’ultimo allievo di Čajkovskij, ma uno studente della scuola di uno degli ultimi musicisti aiutati da Čajkovskij. Il mio stile viene dal mio suonare il pianoforte da 23 anni. Non so da dove venga».


Il tuo gusto performativo e compositivo classico è immerso invece in atmosfere melodiche pop; a te manca solo la voce! perché scrivi canzoni senza parole?
«Perché non so cantare! Io penso la mia musica senza parole, e la mia sfida è farla funzionare senza canto. Mi piace lavorare da solo, il mio progetto è questo, sono solo. Non saprei dove mettere una cantante, forse nel backstage? [ride]».


Nell’autunno del 2013 è uscito Spaces, il tuo ultimo disco: è tutto registrato dal vivo; il tuo pianoforte si mescola all’elettronica analogica delle tastiere Juno e Rhodes: cosa ti stava stretto, il piano o l’elettronica?
«Non viene prima né l’acustica né la tastiera elettronica. Mi piace suonarli tutti, metterli in conflitto. Quando impari a suonare il pianoforte sai suonare anche un sintetizzatore. Ho comprato il mio Juno quattordici anni fa».


Il concerto improvvisato live poi prodotto in studio è la tua nuova linea? O è stata solo l’esperienza di Spaces?
«Non è il mio nuovo modo di lavorare, è stata un’esperienza unica: mi piaceva registrare l’atmosfera del concerto live, far sentire anche il respiro, le reazioni del pubblico che arrivavano sul palco. Suonavo in un modo diverso da come suono in uno studio, isolato da ogni influenza esterna, in un ambiente sonoro rarefatto».


I tuoi live hanno una forte componente improvvisativi: cosa devi al jazz?
«“Jazz” è un parolone. Il mondo della classica e del jazz sono connessi, ma diversi. Molti compositori classici improvvisano, prima di scrivere le loro idee, e così faccio anch’io. Il jazz consiste molto di più nella tua espressione come esecutore. Sei più performer che interprete, anche quando suoni pezzi d’altri. Io voglio fare il mio suono, senza ossessioni di tecnica o stile. Si può dire che io suoni come un interprete classico, e che componga per poter suonare quello che compongo».


A volte “prepari” il pianoforte come fece per la prima volta John Cage, e come fanno ormai molti compositori-esecutori contemporanei: il pianoforte è una macchina musicale più vasta della sua tastiera?
«Il mio pianoforte rimane acustico, anche quando lo preparo: può diventare una percussione; non cerco di fare uscire un suono sintetizzato dal pianoforte o un suono acustico dal sintetizzatore».


Da poco hai lanciato la tua Screws Reworked Competition sul tuo sito: si possono remixare alcuni tuoi pezzi; sceglierai i migliori e li pubblicherai nel tuo nuovo album, Screws, su vinile e cd. Si tratta di un modo di interagire con la comunità dei fan?
«Sì. Ero particolarmente curioso di ascoltare musica di non professionisti, sentire come variavano certi miei pezzi “mono”, adatti ad essere remixati. Mi sono ricordato di quando ero ragazzino: chi di noi non ha imparato a suonare facendo musica di altri? Let It Be dei Beatles e altre canzoni? Il disco avrà alcuni pezzi generati da questo “concorso”».

 


Parliamo delle tue collaborazioni: come è andata con gli Hotel Pro Forma per Laughter in the Dark, il lavoro di teatro musicale tratto dalla storia di Vladimir Nabokov che ha debuttato a Copenaghen nel maggio scorso? Lì hai dovuto confrontarti con un canto vagamente operistico, con una drammaturgia definita. Hai altri progetti con gli Hotel Pro Forma?
«Quella esperienza per ora rimarrà unica. Una bella esperienza, molto fruttuosa, divertente. Al momento sono presissimo dalla mia musica, e ho rallentato le collaborazioni con altri artisti».


Hai lavorato molto con Ólafur Arnalds, Peter Broderick, John Hopkins e Sarah Neufel degli Arcade Fire: pensi che ci sia una nuova musica contemporanea che non riusciamo più a tenere stretta nella classica o nel pop?
«No, penso che non sia “nuova” musica. Hanno cominciato Brian Eno e la Penguin Cafè Orchestra a fare questo tipo di musica negli Ottanta. Questo sound piace ai giovani, che in genere consumano pop. Stiamo esplorando questo tipo di musica, al momento, chissà quanto durerà».


Tra le tue collaborazioni ci sono anche quelle nel campo dell’arte contemporanea: lo scorso giugno hai partecipato alla Berlin Biennale con il giovane artista visivo messicano Mario Garcia Torres per un progetto dedicato al compositore americano Conlon Nancarrow, intitolato Sounds Like Isolation to Me: di che si trattava?
«L’installazione utilizzava un mix di musiche originali inedite sue e di pezzi miei. Era sulla vita e sulla musica di Nancarrow, un compositore che ammiro molto: ha allargato le possibilità espressive del pianoforte. Era geniale: un innovatore al livello di Ligeti; è stato tra i primi, sessant’anni fa, a registrare pezzi su nastro e poi a fare cut‘n’mix sui nastri. Mi ha influenzato: per me è un’icona come lo è John Cage. Se fosse vivo oggi somiglierebbe a un Aphex Twin».


L’11 settembre sei ospite del Festival MITO, al Piccolo Teatro di Milano: cosa conosci della scena musicale italiana? Qualcuno ti ha ispirato?
«Certo, mi piace l’opera, mi piacciono Rossini, Vivaldi, tutto il barocco veneziano. Nel pop non sono certo un fan di Eros Ramazzotti! [ride] Mi piacciono i Giardini di Mirò, ho conosciuto il loro batterista Francesco Donadello qui a Berlino».


La tua musica sembra molto adatta al cinema: hai avuto esperienze di colonna sonora? Ne avrai?
«Ho scritto musica da film, ma al momento non ho tempo per una colonna sonora. Mi interessa, ma ci penserò più avanti. Non faccio neanche videoclip per i miei pezzi: voglio che la gente immagini da sola le visioni emotive create dalla mia musica».


Il 10 giugno a Berlino hai presentato il pianoforte UNA CORDA costruito appositamente per te da David Klavins: come suona?
«Il suono sembra un po’ quello di un clavicembalo, di un’arpa, o di una chitarra: lo posso suonare su tastiera o toccare direttamente le corde».


Berlino è ancora il laboratorio della nuova creatività europea? La danese Agnes Obel ha dovuto trasferirsi a Berlino per farsi conoscere.
«Rimane una grande città per i creativi, ma Agnes Obel ha un grande talento, credo che si sarebbe affermata anche in Danimarca. Non è troppo costoso vivere qui, è una città molto aperta, accogliente. Ma molta gente molla, e se ne torna da dove era venuta, perché non riesce a combinare bene vita e arte qui. Per molti fa troppo freddo, e imparare il tedesco non è facile. A me piace il freddo, sono un uomo del Nord: mi fa venire buone idee... non ci riuscirei in Sicilia! [ride]».

 

 

Questo articolo è pubblicato sul nuovo numero de Il giornale della musica

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