Non voto, dunque siamo
Domenica mattina, intorno alle undici, sono andato a votare. A settembre, alle elezioni per il rinnovo del parlamento, nel cortiletto antistante la scuola elementare avevo affrontato una fila di mezz’ora. Domenica invece non c’era nessuno. Quando mi sono affacciato sulla soglia del seggio, ho sussurrato: “Posso?”. Le facce degli scrutatori si sono improvvisamente rianimate dal torpore più nero. Il presidente è sembrato perfino felice di vedermi. La scintilla nei suoi occhi mi ha ricordato i tempi peggiori della pandemia, quando i camerieri romani, col tovagliolo sulla spalla e la sigaretta in un angolo della bocca, sostavano sulla soglia dei ristoranti del centro, aspettando sconsolati che qualche temerario si decidesse a entrare, chiedere un tavolino e ordinare una carbonara.
Io ero lì per molto meno di una carbonara: ero lì per scegliere fra tre candidati di cui ricordavo a malapena i nomi. Di Alessio D’Amato, il candidato del centro sinistra, tenevo a mente giusto una dichiarazione del febbraio 2020, quando da assessore regionale alla sanità, appena dimessi i venti famosi turisti cinesi dello Spallanzani, a SkyTg24 aveva proclamato: “C’hanno tenuto a ringrazia’ ’a Reggione Lazzio”. Ecco, io di D’Amato ricordavo questo: i cinesi che ringraziano la Regione Lazio. Di Francesco Rocca invece, il candidato della destra, non ricordavo proprio niente. Peggio di me, credo, solo il tassista a Tiburtina che un mese fa mi ha confidato che avrebbe votato “er maresciallo Rocca”. Idem per Donatella Bianchi, la campionessa scelta da Giuseppe Conte per la corsa elettorale, “volto noto di Linea Blu”, come dicono quelli che guardano Linea Blu. Ecco, la scelta era fra questi tre.
Resto convinto che se l’elettore ignora chi siano i candidati è un problema dell’elettore. Ma se i candidati non scaldano il cuore dell’elettore di chi è la colpa? L’impressione che ho avuto fin dall’inizio è che in questa contesa elettorale i partiti si fossero messi d’accordo per deprimere l’elettore del Lazio. Deprimerlo al massimo grado, voglio dire. Portarlo cioè sulla soglia non tanto dello sconforto più cupo, ma della più cupa insignificanza, nel vertice di dolore in cui si precipita quando, osservando la realtà intorno a sé, non si vede altro che il massimo della rarefazione. Camus in Il mito di Sisifo sostiene che l’assurdo è il “divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena”. Ecco, la politica dei partiti nel Lazio ha teso verso l’assurdo in senso camusiano. La contraddizione tra l’elettore che sono, un essere dotato di bisogni e di desideri, e la realtà circostante, una realtà a dir poco insoddisfacente, è tale da rendere preferibile morire subito, morire politicamente, ossia ignorare i nomi, le proposte, perfino la data delle elezioni. Il risultato è che al seggio è andato uno su tre, e quell’uno è andato strisciando, spingendo il masso sulla collina come Sisifo, mentre gli altri due si sono buttati giù dalla collina.
Ora però abbiamo un vincitore, ed è “il maresciallo Rocca”, per dirla col tassista, cioè l’uomo di fiducia di Giorgia Meloni. Il problema è capire chi tra gli elettori sia Sisifo e chi il suicida che si butta dalla collina, vale a dire l’elettore che diserta le urne. A occhio e croce Sisifo vota a destra, il suicida a sinistra. Mi pare questa la plastica rappresentazione del voto nel Lazio. Ma direi, per estensione, anche del voto alle politiche del 2022. Perché, a ben vedere, Camus un antidoto alla disperazione lo proponeva pure, ed era la rivolta. Alla cerimonia di conferimento del Premio Nobel nel 1957, disse: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando”. Io, in questo “schiavo” che trova inaccettabile l’ennesimo comando, vedo l’elettore di sinistra.
Non però quello che, dati alla mano, a votare ci è andato, per lo più nei soliti tre quartieri in cui ancora resiste il “partito delle ZTL”, il centro storico di Roma, San Lorenzo e Garbatella (per farsi un’idea, nella sola periferia est di Roma il candidato di destra ha preso il 58%, quello di sinistra il 25%), ma quello che il 12 e 13 febbraio è rimasto a casa. Perché la fede incrollabile cui si è aggrappato fin qui quell’elettore non è mica la sinistra, ma il cosiddetto “voto contro”. Se non c’è un’idea di Italia, se non c’è un leader e se non c’è un partito, il mio voto va contro l’idea degli altri, contro il leader degli altri, contro il partito degli altri. In pratica non voto per Sisifo, ma per il masso.
Al limite estremo di Camus c’è Pessoa, che in Il libro dell’inquietudine dichiara di non avere la forza di ribellarsi: “Preferisco una sconfitta consapevole della bellezza dei fiori, piuttosto che una vittoria in mezzo ai deserti”. In questa filosofia “giapponese” vedo invece racchiusa l’essenza di coloro che si sono opposti al campo largo perché non si riconoscono né in Sisifo né nel masso, e che sono andati con Donatella Bianchi, la quale perlomeno ha avuto la decenza di riconoscere che il 10% delle preferenze ricevute è un risultato insoddisfacente. Non come il surreale Letta che nel tracollo arriva a gioire del fatto che “le nostre liste, oltre il 20%, prendono più delle politiche” (!). Anche perché sommando i voti di Bianchi e D’Amato si arriva al 43%, dieci punti percentuali secchi sotto al vincitore Rocca. Nemmeno la vittoria in mezzo ai deserti, ma i deserti e basta.
La destra non ha vinto nel Lazio perché ha saputo convincere la maggior parte degli elettori, ha vinto per abbandono del campo da parte di tutti gli altri, di quegli “schiavi” che in tutta la loro vita hanno ricevuto ordini e che a un tratto hanno giudicato inaccettabile un nuovo comando. Il voto nel Lazio (ma anche in Lombardia) non è un campanello d’allarme per la sinistra, è la certificazione – l’ennesima – della sua morte clinica. O a guardarla ancora con Camus, e con un minimo di benevolenza e di ottimismo, un atto di ribellione, dello stesso ordine del cogito cartesiano: “Mi rivolto [e non voto], dunque siamo”.