La paura in Occidente / Nuovi fantasmi e vecchissime strategie

2 Febbraio 2019

La paura fa novanta. Come dire che la persona spaventata è capace di fare cose incredibili, inenarrabili, anche perché un po’ fortuite: come la tombola. Ecco un’espressione che non ha mai convinto fino in fondo: impaurirsi, normalmente, è bloccarsi, pietrificarsi, perdere l’anima. Ma che per altri versi interessa proprio per questa sua sollecitazione antifrastica: avendo paura, si fanno cose che altrimenti non si sarebbero mai fatte. Lo sapeva bene quel generale greco descritto da Tucidide che per convincere i suoi uomini ad attaccare l’esercito persiano li schierò a ridosso di un burrone. Costringendoli a soppesare tatticamente due diverse paure: cos’è più terribile? cadere nel baratro oppure affrontare – o la va o la spacca – gli uomini di Serse? E fu la vittoria.

 

La paura è un sentimento complesso, ambivalente, e vale la pena d’entrarci dentro, in tempi di intensi desideri di – e conseguenti decreti governativi sulla – famigerata sicurezza. Se le paure sollecitano innumerevoli fantasmi, tali fantasmi sono spesso sfruttati da chi, ergendosi a nostri innominati difensori, fa di tutto e di più, surrettiziamente, per fregarci: noi e il nostro vicino. Filosofi, sociologi, antropologi, semiologi, su questo, hanno lavorato parecchio. E con esiti differenti. Ma con la convinzione comune che la paura (con i suoi sinonimi e i rispettivi gradi d’intensità crescente: inquietudine, timore, preoccupazione, fifa, sbigottimento, spavento, angoscia, panico, terrore, orrore…) sia un sentimento basico, costante e ricorrente, in gran parte delle azioni umane e delle configurazioni sociali. Innanzitutto si ha paura, poi si vede se e come, eventualmente, metterla a tacere. E il potere, sapendolo, ci gioca parecchio, amplificandola invece senza sosta. Qualsiasi potere, compreso l’antipotere, almeno nel caso in cui fa ricorso, non a caso, al terrorismo. Ci sono intere culture fondate sulla paura, come altre invece sulla vendetta. E le mitologie di mezzo mondo sono piene di eroi senza paura che, per nulla paradossalmente, ne vanno in cerca, volendo sapere, per divenire uomini veri e propri, di che cosa esattamene si tratta, che cosa si prova quando la si prova, cosa sente chi la sente. 

 

Fresh Talent, opera di Nico Krijno.


Ora è la volta dello storico, il quale, resosi conto di avere a che fare con un sentimento che è fra i principali motori della storia, ha deciso di occuparsene seriamente. Da qui il classico libro di Jean Delumeau, uscito nel ’79 dalla SEI e adesso ristampato dal Saggiatore, La paura in Occidente  (pp.614, € 29), dove si esamina con acribia ed entusiasmo il grande periodo storico che va dalla grande peste del 1348 ai primi dell’800, l’epoca insomma preindustriale, alla ricerca, oltre che delle cause e degli effetti delle grandi paure collettive, delle ragioni per le quali a lungo la storiografia ufficiale ha trascurato questo genere di argomenti. Il fatto è che, spiega Delumeau, per molti secoli, se non millenni, la paura viene considerata come un sentimento vergognoso, roba da vigliacchi, ossia da umili, da reietti della società, da gente senza parola e perciò, appunto, senza storia. La letteratura, l’epica, il dramma di quel periodo esaltano piuttosto il coraggio, passione individuale, personale, idiosincratica. Gli eroi sono tali proprio perché non hanno paura, e anche il cittadino comune, destinato suo malgrado alla guerra, non può che essere coraggioso se vuole, come deve, indossare le armi e combattere un nemico tanto anonimo quanto, per forza di cose, odiato. È stato necessario attendere, se non una rivalutazione, quanto meno una progressiva emersione della paura (e, ripetiamo, dei suoi numerosi parasinonimi) come passione plausibile, sentimento degno d’esser detto verbalmente e rappresentato visivamente, ma soprattutto di assumere una valenza collettiva, dunque sociale, divenendo oggetto possibile di una storiografica accorta.

 

Cosa che accadrà, progressivamente, con l’ascesa economica e politica della classe borghese, per la quale l’eroismo avrà tutt’altre fattezze, meno mitizzato, meno temerario, dunque, per presupposizione, più incline a includere i paurosi fra i soggetti socialmente pertinenti. La vita del borghese si svolge in fabbrica, in banca, nei mercati, in borsa, luoghi canonici dove l’inquietudine, lo sbigottimento, l’angoscia sono all’ordine del giorno, divenendo sentimenti quotidiani di cui romanzieri e poeti iniziano a narrare con interesse crescente storie sensate, esemplari, blandamente tragiche. Fino all’ambiguo, conclamato post-eroismo dei nostri giorni.

 

L’oggetto di studio del libro di Delumeau è comunque il periodo precedente, che si apre con l’arrivo della terribile Peste Nera che invade l’Europa a metà del ‘300, epidemia angosciosa e angosciante, dove tutti sono soli dinnanzi a un nemico tanto invadente nei fatti quanto ignoto sanitariamente, e che si conclude con l’affermarsi del capitalismo industriale ottocentesco. Come studiare bene e approfonditamente un lasso di tempo così ampio, così poco conosciuto e così lontano? La risposta di Delumeau è a dir poco istruttiva: la questione, per lui, non è indagare la paura in sé, nei suoi sviluppi storici, ma studiare la storia nel suo complesso, in tutte le sue sfaccettature, dal punto di vista della paura, considerandola cioè come una prospettiva pertinente per spiegare e comprendere i grandi fatti umani e sociali lungo i secoli XIV-XVIII. Durante questi lunghi anni, osserva Delumeau, è come se i fatti storici fossero costretti entro una continua oscillazione. Quella fra la paura “con un nome”, ossia la paura dotata di un oggetto determinato (la donna-strega, il musulmano e l’idolatra, l’ebreo, il diavolo, lo spettro), e la Paura generica (che, in fondo, è sempre paura della morte).

 

Oscillazione che, in termini un po’ più tecnici, diviene la celebre opposizione fra la paura in sé e per sé (che ha ogni volta un bersaglio individuabile e nominabile, per quanto il più delle volte costruito ad hoc) e l’angoscia (priva di oggetto determinato, dunque in perenne attesa che qualcosa di effettivamente pericoloso si concretizzi). Ma l’angoscia, nota lo storico (non senza il supporto di una copiosa letteratura psicologica e psichiatrica), è molto meno sopportabile della paura, dunque è come se desiderasse di trasformarsi in essa: da qui la proliferazione dei fantasmi che danno all’inesprimibile dell’angoscia una dicibilità paurosa, una rappresentabilità, un’individuazione materiale. Le grandi repressioni della storia, le crociate, i pogrom, i roghi, gli autodafé etc. scattano, micidiali, quando le angosce divenute paure da individuali si fanno collettive, e i fantasmi astratti divengono concreti colpevoli. Il bel libro di Delumeau racconta con dovizia di particolari tutto questo, e va letto, tutto, con calma. Ha parecchio da dirci, proprio perché mette in racconto, fornendole nomi e attributi, eventi ed esistenti, quello che Nietzsche chiamava risentimento: l’attribuzione di colpa altrui che giustifica gli umani dolori, pronto a trasformarsi in cattiva coscienza quando, rovesciando il sistema senza scomporlo, la colpa si fa ricadere su se stessi.

 

Che cosa ci insegna una storia della paura così congegnata? La solita cosa che si dimentica sempre: andando indietro nel tempo e, soprattutto, allargando lo sguardo ritroviamo noi stessi, dando a quei particolari e a quei dettagli che, altrimenti, penseremmo come tipici del nostro tempo, del nostro essere qui e ora al mondo, una significazione più generale. Cambiano forse le sostanze, restano intatte le strutture. La storia della paura è la minuziosa ricostruzione della sua articolazione formale: per esser paurosi bisogna essere come minimo in due, noi e il nostro prossimo, che facciamo di tutto per far diventare il nostro altro, e di conseguenza il nostro nemico, lontano e al tempo stesso concretissimo. Oggi che, come si dice, siamo immersi nel tempo del post-eroismo, che viviamo cioè in un’epoca in cui ci sovrasta l’utopia del rischio zero, del controllo totale e assoluto su uomini e cose, tutto finisce per farci paura. Altro che viltà dell’esser sgomenti: oggi la paura si esalta inorgogliti, indignati, incazzati. E riemergono fantasmi d’ogni sorta, vecchi e nuovi, più vecchi che nuovi. Pronti a esser usati dai poteri, anch’essi più vecchi che nuovi, i quali passano tutto il loro tempo a costruirci strategicamente dei nemici verosimili (cioè non veri) contro cui scagliarci per esorcizzare scagliare le nostre troppo umane paure. Individuare questo meccanismo formale, riconoscerlo e smontarlo, additarne le valenze ideologiche, è un gesto politico doveroso e ineluttabile. Piuttosto che prendercela col primo che passa. 

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