Omar Calabrese, uomo di passioni forti
Omar Calabrese era uomo di passioni forti, di contraddizioni assunte, laceranti cambiamenti di rotta, fortissima coerenza e rivendicato rigore. Toscanaccio, vantava spesso le sue origini tunisine. Uomo di media e consulente di comunicazione per grandi aziende, insisteva sull’importanza culturale dell’accademia. Semiologo indefesso, detestava ogni forma di esoterico metalinguaggio. Linguista di formazione, era specialista di immagini. Razionalista assennato, amava alzare i toni, litigare crudamente per poi abbracciare – ironico – il malcapitato interlocutore di turno. Divideva il mondo in simpatici e antipatici. Aveva avuto una parentesi politica, come fondatore dell’Ulivo (cui aveva donato nome e simbolo), come consigliere comunale a Bologna e assessore alla cultura di Siena. Poi, fortemente deluso dalle volgarità di certi personaggi pubblici, scrisse Come nella boxe (Laterza, 1997), durissimo pamphlet sui violenti riti tribali della cosa pubblica italiana. S’era rifugiato a vivere a Monteriggioni, nella campagna senese, e da lì intratteneva relazioni intellettuali e affettive con mezzo mondo. Abbandonate le sigle editoriali nazionali e internazionali, per le quali aveva pubblicato libri importanti e curato grandi opere, aveva assunto il vezzo di stampare i suoi ultimi testi per piccoli editori locali, amici personali di cui vantava la sicura professionalità.
La malattia lo aveva segnato da giovane, e vi conviveva con pietoso accanimento e continua voglia di fare, con ironico furore. Sapeva che non sarebbe durata a lungo, ed era come se fosse già, da sempre, in un’altra dimensione: mai del tutto aderente a quella di chi, in un modo come nell’altro, attraversava il suo mondo interiore, la sua esperienza di vita. Ora che non c’è più, sarà difficile mettere insieme i pezzi di una memoria sparpagliata fra le mille e mille persone che lo frequentavano, pochissime delle quali – c’è da giurarlo – lo conoscevano veramente. Il lavoro per ricostruire le varie facce di questo personaggio non comune, che assai ha dato alla cultura italiana e pochissimo ha ricevuto in cambio, è tanto necessario quanto difficile: e sarà inevitabilmente collettivo.
Io voglio contribuirvi, qui e ora, in due modi opposti: con una prima lista di suoi titoli da rileggere (o, forse, da leggere ex novo) e con un piccolo ricordo personale.
Fra i suoi libri vanno innanzitutto ricordati i molti con cui ha posto le basi teoriche e metodologiche per una semiotica delle arti figurative, e in generale dell’immagine, che non fosse banale applicazione dei modelli linguistici ai fatti visivi. Così, in opere come Arti figurative e linguaggio (Guaraldi, 1977), Semiotica della pittura (Il Saggiatore, 1980), Il linguaggio dell’arte (Bompiani, 1985), La macchina della pittura (Laterza, 1985), Come si legge un’opera d’arte (Mondadori università, 2006) Calabrese mostra che le immagini non sono banali rappresentazioni del reale ma, molto spesso, soggetti filosofici portatori di vere e proprie teorie. Cosa che in un testo geniale come Piero teorico dell’arte (Gangemi, 1986) emerge in tutta la sua lampante evidenza. Segue la serie di testi dedicati ai mass media, a iniziare dal fondamentale libro su Carosello (Clusf, 1975), scritto in un’epoca ancora priva delle attuali nostalgie vintage sulla tv, sino ai volumi di critica linguistica sull’informazione come I giornali (con P. Violi, Espressostrumenti, 1980), Come si vede il telegiornale (con U. Volli, Laterza 1979) e I telegiornali. Istruzioni per l’uso (con U. Volli, Laterza 1995). Meno noto è Serio ludere (Flaccovio, 1993), già dal titolo tutto un programma di vita, splendida raccolta – da tempo introvabile – di scritti su tic, segni, oggetti e tecnologie della vita quotidiana.
Ma il testo di Omar Calabrese che più di tutti va ripreso e rimeditato è senz’altro L’Età neobarocca (Laterza 1987), il cui sequel teorico è Mille di questi anni (Laterza, 1991). Si tratta di un libro felice, ricco e rigoroso al tempo stesso, il classico testo che nella vita di ogni autore segna il passaggio alla maturità intellettuale ed esistenziale – raggiunta, da Omar, a soli 38 anni. L’obiettivo è ambizioso: ritrovare una procedura formale astratta – estetica ma anche etica – che possa rendere conto delle dinamiche culturali del nostro tempo. E lo sguardo è a tutto campo: da film di largo consumo come La cosa di Carpenter o Zelig di Allen alle strutture dissipative di Prigogine, da serial televisivi come Dallas o Il tenente Colombo ai frattali di Mandelbrot, dalla teoria delle catastrofi di Thom alla semiotica di Greimas e Lotman, passando per i bronzi di Riace, Guerre stellari, Michael Jackson o i videogame. L’idea è quella di dialogare con La condizione postmoderna di Lyotard. Il modello di ricerca è quello dell’Opera aperta di Eco, non a caso fra i suoi principali maestri. Lo spirito neobarocco che caratterizza il nostro tempo è, per Calabrese, il regno dell’informe o, meglio della forma che cambia in continuazione, la quale – come appunto lo Zelig di Woody Allen – si adatta ogni volta a ogni nuova situazione assumendone le sembianze. È il dominio dell’instabilità programmatica, dell’indeterminatezza sistematica, del caos creativo che sta alla base di ogni forma di vita, della mutevolezza assunta a valore. Il libro provoca accesi dibattiti, rimbrotti, perplessità, entusiasmi: oggi è pura evidenza.
Quanto al ricordo personale, eccolo: eravamo in uno degli annuali convegni di luglio a Urbino, due anni fa. Improvvisamente, senza apparente ragione, uscendo dalla mensa universitaria Omar si lancia in una tirata lunghissima sul gioco del biliardo, del quale era segreto appassionato (come del resto lo era del poker e della chitarra, del bridge e della contraddanza siciliana). Per più di un’ora, blocca me e le tre o quattro persone che passavano di lì per raccontarci di partite epiche e fumose sale gioco, tornei all’ultima sponda e stecche da professionista, calcoli complicatissimi per andare in buca, tecniche esoteriche e modelli matematici. Tutti restiamo silenziosi ad ascoltarlo, imbarazzati nel non sapergli stare dietro. Poi, all’improvviso, mi prende a braccetto, mi porta al bar più vicino e mi sussurra sorridendo: “del resto, cos’altro ci resta?”.