Nuove esperienze / Opera lirica: fenomenologia dello streaming
La normalizzazione del 7 dicembre alla Scala è la più recente tappa della lunga marcia dell’opera nel mondo flagellato dal Covid. L’inaugurazione della stagione milanese – da molto tempo un assai gonfiato rituale istituzionale e politico, economico e mondano, mediatico e solo marginalmente culturale – questa volta è stata inevitabilmente giocata in difesa. Operazione riuscita, se non altro nell’obiettivo di limitare i danni ai dati di ascolto: poco più di due milioni e mezzo gli spettatori davanti ai televisori, meno dei quasi tre milioni dell’anno scorso, però non troppo meno. Ma resta il fatto che questa volta l’evento era stato disinnescato fin dal momento in cui un importante focolaio fra le masse artistiche aveva costretto a rinunciare ad allestire – pubblico o non pubblico – l’opera di Sant’Ambrogio, che doveva essere Lucia di Lammermoor di Donizetti.
Il tentativo di salvare il salvabile è stato una corsa in salita: né più né meno quella a cui sono state e sono costrette molte Fondazioni lirico-sinfoniche, fermo restando che altrove, in qualche caso, a fare opera ci si è riusciti. Alla fine, per la prima volta da decenni, forse dalla fine della guerra, la primazia scaligera – con buona pace delle strategie comunicative, largamente velleitarie oltre che abitualmente approssimative – è apparsa un totem malinconicamente scolorito. E lo show lungo tre ore che è passato come sempre sulla principale rete Rai non ha potuto che accodarsi a una schiera già folta nonostante la sua recente costituzione, la Compagnia dello Streaming. Anche la Scala è dunque arrivata, buona ultima, all’ardua sfida del presente: trovare il modo di fare pervenire al pubblico il teatro per musica rinunciando alle storiche modalità correlate agli spazi di tradizione. L’unico elemento potenzialmente propulsivo, dal punto di vista culturale e musicale, di questa fase critica dello spettacolo dal vivo.
A margine, ma la questione è centrale, si può sperare che il non-evento scaligero serva a disinnescare una volta per tutte la narrazione secondo la quale i teatri sono luoghi al sicuro dal virus. Se già era indimostrabile, come solo pochi avevano chiarito, la favola bella diffusa dall’Agis (la Confindustria dello spettacolo) secondo cui durante l’estate su 350 mila spettatori in tutta Italia c’era stato un unico contagiato, ora è inoppugnabile che i teatri musicali siano molto pericolosi per chi ci lavora. Lo dice il numero dei contagiati fra i dipendenti e il fatto che oltre a scardinare tutti i programmi della Scala, una Fondazione importante come l’Arena (a Verona e Milano operano – vedi caso – le istituzioni che insieme raccolgono una quota largamente maggioritaria in Italia degli incassi da biglietteria) si trovi in questo momento paralizzata e impossibilitata a proseguire con i progetti che pure aveva messo a punto. Nel frattempo, vari altri teatri procedono a singhiozzo fra tamponi e quarantene.
Nella fenomenologia dello streaming, nata appena un paio di mesi fa e già ricca di elementi di riflessione (e di qualche buon risultato), lo show scaligero si pone al confine fra innovazione e tradizione. Resta encomiabile lo sforzo di trasformare il genere musicale meno dotato di appeal drammaturgico-musicale, il lungo concerto di “pezzi celebri” di autori vari (prediletto solo dai vociomani duri e puri), in un prodotto in qualche modo “scenico”. Ma per farlo – data l’elefantiasi di un programma che allineava 24 cantanti e si muoveva lungo una trentina di pezzi, sia pure fortunatamente “assemblati” in una dozzina di opere – è stato necessario da un lato rinunciare a qualsiasi ipotesi di simultaneità fra l’evento e la sua visione da remoto e dall’altro procedere con un sofisticato e serrato lavoro di montaggio. Alla fine, l’impressione è stata quella di una lunghissima sequenza di spot della lirica. Un monumentale “Carosello” dell’opera, un mosaico di scene trattate come videoclip anche accattivanti – il regista Davide Livermore sa il fatto suo, i suoi collaboratori di videografica e il suo costumista, altrettanto – per i quali è stato sfruttato abilmente il magazzino scenografie della Scala, a volte facendo coincidere le destinazioni originali e quelle di questi frammenti, a volte decisamente no. Un lavoro più apprezzabile, semmai, laddove prevalgono le originali invenzioni visive virtuali.
In tutto questo, la sala del Piermarini è rimasta quasi sempre uno sfondo inerte e a stento visibile, a parte qualche inquadratura dell’orchestra piazzata su una pedana sopra la platea, mentre i siparietti recitati (fra gli attori convocati, salvabili solo Massimo Popolizio e Laura Marinoni) sono apparsi spesso sconcertanti anche per la scelta dei testi.
Non è mancato il taglio politico: nelle azzardate (storicamente, drammaturgicamente, musicalmente) tesi di Michela Murgia sul ruolo degli ultimi e delle donne nell’opera; e nell’orazione conclusiva dello stesso Livermore, che del resto non ha nascosto nelle interviste la sua intenzione di confezionare uno show “militante” sulla centralità della musica, dell’opera, della cultura nella vita italiana. Affermare questo concetto è sicuramente doveroso, mostrare di credere che sia un dato acquisito un po’ meno, se è vero quello che certifica l’Istat, e cioè che un italiano su tre non sa proprio che farsene, mai, della cultura e delle sue articolate manifestazioni.
In ogni caso, le analogie indicate da Livermore fra il suo show dantescamente intitolato “A riveder le stelle” e il leggendario concerto di riapertura della Scala ricostruita a tempo di record subito dopo la guerra – Toscanini sul podio l’11 maggio 1946 – ci sembrano francamente evanescenti. E comunque, purtroppo per noi, premature: dall’epidemia non siamo per nulla fuori. Prendiamo dunque l’accostamento come un auspicio, l’ennesimo. A Milano non sono stati i primi e non saranno gli ultimi a formularlo.
Altrove, dacché le restrizioni scattate alla fine di ottobre hanno svuotato i teatri non solo in Italia, la sfida dello streaming ha generato un benefico effetto di stimolo alla creatività in rapporto, come si diceva, alle modalità di comunicazione di un linguaggio scenico inevitabilmente molto diverso da quello abituale. Strettamente legato, va da sé, alle disponibilità economiche e alla volontà di investire in questa sfida. Per le Fondazioni lirico-sinfoniche italiane, situazione ottimale, se si può azzardare il termine data la situazione. È ormai chiaro, in effetti, che la “protezione” dei sovvenzionamenti pubblici nei confronti di queste istituzioni, in accoppiata con la drastica riduzione dei costi (grazie anche al vasto utilizzo della cassa integrazione per i dipendenti, in quest’ambito FIS – Fondo di Integrazione Salariale) ha generato una situazione gestionale spesso positiva, in generale comunque stabile. Che neanche la drastica riduzione degli incassi da biglietteria finora è riuscita ad incrinare, come testimonia la seconda relazione semestrale del commissario straordinario sui piani di risanamento delle Fondazioni lirico-sinfoniche, nei quali sono impegnate nove istituzioni su quattordici (Scala e Santa Cecilia, Venezia e Cagliari sono fuori dal gruppo, Torino è stata commissariata solo da qualche mese). La riposta a questa finora favorevole per quanto incerta congiuntura è arrivata in ordine sparso e diseguale: da molte iniziative a quasi nessuna, con diversi livelli di qualità e di creatività sulle nuove tecnologie.
I risultati più brillanti si sono avuti, non solo in Italia, laddove è stata accettato il confronto fra linguaggi dalle temperature molto diverse. Lo scarto fra mezzi “caldi” e mezzi “freddi” nei casi migliori è diventato quasi un dispositivo drammaturgico e comunque ha finito per generare una nuova tipologia di fruizione dell’opera. Nella quale anche uno dei fondamenti in positivo di questo tipo di proposte, la simultaneità, finisce per non essere più così indispensabile. È il caso dell’esemplare Barbiere di Siviglia portato in scena, e proposto non “live”, all’Opera di Roma da Mario Martone: la regia operistica più dichiaratamente cinematografica di questi tempi, ma anche la più squisitamente teatrale e quella a più forte connotazione metateatrale. Qui la drammaturgia nasce dal lavoro sullo spazio e sugli attori-cantanti, la commedia brilla e fiammeggia senza bisogno di alcun elemento scenico aggiuntivo, oltre il dispositivo (da Martone chiamato “installazione”) che distende sulla sala e sul palcoscenico una sorta di grande ragnatela di cavi, nella quale tutti i personaggi rischiano di rimanere invischiati, ma la cui caduta alla fine sancirà l’avvenuta “liberazione” di Rosina. La metateatralità deriva dall’incessante rovesciamento/superamento delle funzioni sceniche. Essa non riguarda solo il continuo passare dei protagonisti dal palcoscenico alla platea, l’utilizzo dei palchi per il coro, la definizione di originali prospettive grazie allo sfruttamento degli ingressi in sala come anomalo punto di vista. È determinata anche dalla vicinanza fra i personaggi e i tecnici. Macchinisti, rumoristi, sarte: tutti affaccendati intorno ai cantanti o comunque presenti nello spazio della rappresentazione. Il mondo del “fuori scena” che guadagna per una volta le luci della ribalta.
Rilevante anche la contaminazione fra “live” e video preconfezionati, così com’è stata delineata alla Bayerische Staatsoper di Monaco dalla regista slovena Mateja Koležnik, molto attiva nell’ambito della prosa assai meno in quello operistico. Il verdiano Falstaff è stato in larga parte offerto nella ripresa di un’esecuzione dal vivo. E tuttavia, alla conclusione dell’opera la rappresentazione tradizionale è cessata. Lo spettatore in remoto è stato trasportato improvvisamente – grazie a uno schermo suddiviso in inquadrature multiple, che compare al centro della scena – dentro il recente passato delle prove dell’opera. E intanto i suoi protagonisti reali (tecnici, figuranti, cantanti, alla fine lo stesso direttore) comparivano intorno a quello schermo, affollando il palcoscenico e offrendo per la prima volta il segno del tempo presente: tutti con la mascherina, quello è un assembramento. L’orchestra era ferma, zitti i cantanti: quello che si ascoltava (e che si vedeva per via mediatica) era la prova del Finale. Lo scarto, effettivamente straniante, si potrebbe definire un “colpo di teatro” ai tempi del Covid.
Di soluzioni del genere non se ne sono viste dal Teatro del Maggio di Firenze, in occasione della rappresentazione di Otello con la regia di Valerio Binasco, il direttore artistico dello Stabile di Torino a sua volta solo raramente impegnato nell’opera. Al di là del coraggio nel procedere con la messa in scena nonostante le difficoltà, e al di là pure dell’eccellenza musicale garantita da un direttore come Zubin Mehta e da cantanti di vaglia (ma anche a Monaco – direttore Michele Mariotti – e a Roma – Daniele Gatti – e naturalmente a Milano, grazie a Riccardo Chailly, la qualità musicale era garantita), non si è mai avuta la sensazione che Binasco abbia lavorato tenendo conto di una fruizione forzatamente a distanza. E la rappresentazione non ha mai abbandonato i confini del palcoscenico. La sicurezza di chi era in scena è stata invece fra i pensieri dominanti del regista, (distanziamenti, coro in mascherina e così via), ma si tratta di un altro discorso, per quanto fondamentale. Una “regia televisiva” di inopinata piattezza e genericità e la mancanza del “live” (anche questo come quello di Milano era prodotto preconfezionato) hanno fatto il resto, rendendo la proposta inerte rispetto alla sfida drammaturgica del momento, per quanto artisticamente rilevante.
La simultaneità dell’evento e la perspicua sottigliezza dell’interpretazione registica sono stati invece fondamentali nel regalare notevole interesse all’inaugurazione del Donizetti Opera Festival a Bergamo. Anche in questo caso, lo spazio complessivo del teatro appena restaurato ha giocato un ruolo determinante nell’allestimento di ricci/forte, recentemente nominati alla direzione della Biennale Teatro per i prossimi quattro anni. Non è stato solo merito della pur interessante “installazione scenica” che in Marino Faliero occupava tutto lo spazio della platea, a delineare una visione quasi distopica della Venezia medievale in cui si svolge la vicenda, ma di uno spettacolo “integrale” che sottolineava la novità delle anomale collocazioni dei protagonisti nello spazio e allo stesso tempo rinserrava i rapporti fra scena e musica e chiariva la drammaturgia musicale di Donizetti.
Qualcosa del genere si era potuto osservare anche nello streaming in diretta assoluta per il Falstaff dall’Opera di Malmö in Svezia. In questo caso, si trattava di un ibrido: il teatro non era del tutto vuoto, essendo consentita la partecipazione di 50 spettatori. A maggior ragione singolare la riuscita dello spettacolo della regista olandese Lotte de Beer, la cui attualizzazione della vicenda non ha tolto nulla a Verdi e ha aggiunto un discorso sulla tecnologia (il protagonista tiene un talk-show televisivo, le comari di Windsor dialogano in meeting Zoom) che valeva per chi assisteva in loco ma specialmente per chi assisteva da remoto e si trovava immerso in un complesso gioco di soluzioni virtuali. Un modo intelligente di additare una possibile nuova frontiera nella regia operistica: per i tempi di Covid, ma anche per quelli che seguiranno.
L’ultima fotografia, di Jonas Persson, ritrae un momento del Falstaff dell’Opera di Malmö