Paolo Rosa, l’arte fuori di sé

4 Settembre 2013

I ricordi sono tracce visive, immagini viste in trasparenza attraverso la lente del tempo, un cannocchiale ribaltato, focalizzato dietro l’occhio nella profondità della nostra mente. La loro persistenza e vividezza non dipendono dalle condizioni fisiche e ottiche dello spessore del vetro, ma dal contenuto psichico o meglio dal significato affettivo che esse serbano per il soggetto che le richiama alla memoria, la cui importanza può assottigliare lo spessore di queste lenti al punto da eliminare qualsiasi del tutto le distorsioni e la riduzione della visibilità che ogni rifrazione comporta. Ci sono momenti della nostra esistenza, spesso quelli particolarmente segnati da eventi dolorosi, che ci costringono a risvegliare, strappandole dall’oscurità dell’oblio in cui erano sepolte, alcune immagini-ricordo, la cui chiarezza e vitalità sorprende ogni nostra aspettativa. È come se, dalle profondità dell’indistinto mare della memoria, queste parvenze inverassero delle presenze che si potrebbero persino sfiorare e afferrare, la cui percezione non è meno realistica della sensazione di sentirsi toccati dalla loro scomparsa. Nei ricordi, così come nei sogni, sono le immagini a guardarci: ciò che ricordiamo ci riguarda da sempre, vive in uno stato di perenne latenza visiva; uno stato che per certi versi oggi potremmo definire di presenza virtuale, di qualcosa che assume la presenza di ciò che non è, o che non è più com’era.

 

 

Ho conosciuto Paolo Rosa nel lontano 1976, al Liceo Artistico di Brera dove avevamo iniziato a insegnare con l’entusiasmo e la convinzione di riuscire a contribuire al cambiamento della didattica nelle sue metodologie oltre che nei contenuti. Insieme ad altri colleghi avviammo un gruppo di sperimentazione didattica basata sulle nuove tecnologie di allora, in particolare il videotape. Da allora ho sempre seguito con attenzione e interesse il lavoro di Paolo, dal Laboratorio di Comunicazione Militante, incentrato a svelare i meccanismi attraverso i quali la comunicazione massmediatica persegue il consenso, al famoso Studio Azzurro, fondato nel 1982 assieme a Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi, gruppo di ricerca e sperimentazione sull’uso delle nuove tecnologie nell’espressione artistica. L’avvento delle nuove tecnologie digitali ha comportato la comparsa di un una nuova forma di produzione e comunicazione visiva sintetizzata nell’ossimoro realtà virtuale, intendendo con questa locuzione non una realtà in potenza, così come l’etimo di virtuale indicherebbe, bensì come il prodotto digitale di un calcolatore elettronico che presenta le caratteristiche di un’immagine con cui è possibile interagire fino ad avere la sensazione di entrarvi, ovvero di fare l’esperienza di una vera e propria immersione nell’immagine con il nostro corpo. L’utilizzo di queste tecnologie nell’espressione artistica ha consentito di sperimentare nuove modalità di fruizione dell’opera d’arte, del tutto differenti dalla contemplazione a distanza di uno spettatore distaccato e passivo a cui ci avevano abituato le forme d’arte del passato.

 

Il concetto chiave, e per molti versi rivoluzionario, attorno a cui si concentra la ricerca di Studio Azzurro è proprio l’interattività, la proposizione di un nuovo modo di fruizione nel quale il fruitore non è un semplice spettatore ma interattore che partecipa attivamente al completamento dell’opera. L’interattività nell’arte ha imposto una completa ridefinizione non soltanto delle modalità di fruizione, ma anche dello statuto dell’opera d’arte in quanto tale, dei suoi meccanismi di produzione e, inevitabilmente, anche del ruolo dell’artista. L’autore dell’opera non è più il solo e unico produttore, ma svolge più un ruolo di progettista, di propositore, predisponendo i dispositivi che verranno attivati in differenti momenti e con svariate e imprevedibili modalità di interazione da una moltitudine di soggetti. L’opera, pertanto, non costituisce più un prodotto finito, distaccato e intangibile in tutti i sensi, sia in quello sensibile come in quello intellegibile (di un ente assoluto chiuso in se stesso): si offre, anzi, come la possibilità di fare un’esperienza percettiva aperta alla partecipazione di altri soggetti diversi dal suo autore. L’opera non si colloca più davanti allo sguardo dello spettatore che, frontalmente ad essa e a debita distanza, da rispettare con obbligo inderogabile, ne contempla le qualità estetiche, ma si dispiega in uno spazio-ambiente in cui lo spettatore è immerso, trasformando il suo punto di vista in un punto di vita (come lo ha definito felicemente il teorico De Kerchove).

 

L’introduzione dell’interattività nella pratica artistica costituisce un elemento di rottura che non ha precedenti storici, sottolinea Paolo Rosa nel suo ultimo libro L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-teconologica, scritto insieme ad Andrea Balzola, e che può essere considerato il manifesto della sua poetica. In questo testo Paolo Rosa teorizza che il fruitore dell’opera d’arte non deve più essere considerato come un soggetto che fruisce passivamente e soltanto visivamente l’opera d’arte finita, bensì deve costituire un interattore che con tutto il suo corpo entra a far parte dell’opera, agisce al suo interno azionando dispositivi che, a seconda del punto che occupa nello spazio-ambiente in quel momento e della durata della sua interazione, completerà la stessa opera conferendole una particolare forma narrativa piuttosto che un’altra del tutto differente. Il ruolo del fruitore è quello di un vero e proprio coautore che, benché subentri in seconda battuta, svolge una funzione essenziale quanto quella del progettista iniziale; anzi, la peculiarità dell’interattività, che la ricerca artistica mette in primo piano, precisa Paolo Rosa, è proprio la “capacità di ribaltare i ruoli tra fruitore e produttore, facendoli talvolta coincidere”. L’opera, progettata da autori consapevoli di rinunciare alla loro autorialità, viene predisposta in modo da favorire gli imprevedibili sviluppi di un processo che può assumere forme materiali o immateriali differenti da quelle iniziali.

 

Il fatto che un soggetto-plurimo interagisca in qualità di coautore, assumendosi il compito di completare l’opera di cui è anche fruitore, nel medesimo tempo comporta il costituirsi di un’esperienza estetica del tutto differente dalla contemplazione di un quadro o di una scultura, che permangono finiti e chiusi in tutte le loro parti, così come sono state ultimati dai loro autori e tali continuano a rimanere anche quando nessuno li contempla, diversamente da un’opera interattiva che se non attivata da alcun interattore non può realizzarsi compiutamente. Ciò che emerge in modo rilevante è che, in questo genere di espressione artistica anche il giudizio estetico subisce una radicale ridefinizione, dal momento che l’opera, mutando in continuazione e assumendo forme differenti, che variano significativamente in relazione alla qualità, alla varietà e all’intensità fisica, psichica ed emotiva del coinvolgimento dell’interattore, si costituisce come un’esperienza individuale, non riscontrabile oggettivamente da altri al di fuori della sfera del vissuto percettivo del soggetto-interattore. In termini comunicativi si viene a determinare che il destinatario del messaggio, ad un tempo sia ricevente che emittente, determina una ubiquità comunicativa che destruttura tutto il processo di codificazione e di interpretazione del contenuto trasmesso. Per molti versi, poi, ripensando alla mitologia dell’opera totale possiamo, non senza fondamento, considerare le installazioni interattive come uno dei tentativi più riusciti, in tal senso, non foss’altro perché sollecitano percezioni polisensoriali e sinestesiche, dal tatto alla vista, dall’udito alla cinestesia, ma essenzialmente perché l’opera, completandosi soltanto con la partecipazione attiva e produttiva dell’interattore costituisce un’esperienza completa in cui tutti i componenti-attori oltre a partecipare e svolgere ognuno un ruolo essenziale e di pari importanza sono anche intercambiabili tra loro.

 

Le problematiche dell’interattività nella ricerca artistica rappresentano la fase più suggestiva e creativa del percorso artistico di Paolo Rosa, intrapresa con la videoinstallazione Tavoli, perché queste mani mi toccano? presentata alla Triennale di Milano nel 1995, con la quale ha inizio anche la collaborazione di S. Roveda. L’opera che, a mio avviso, ne contiene già tutti i presupposti, è Il giardino delle cose, presentata sempre alla XVIII Triennale di Milano nel 1992, di straordinaria potenzialità evocativa, nell’offrire ad ogni soggetto l’opportunità di trasformare la sua percezione tattile in una generazione di immagini fantasmatiche: proiezioni di riprese con pellicole sensibili alle radiazioni dell’infrarosso di mani che accarezzano al buio dei vasi posati su un lungo tavolo. Queste immagini visualizzano i movimenti delle dita delle mani che ciascun soggetto, in un ambiente completamente oscurato, esercita lungo i bordi di un vaso cercando di esplorare e percepire con il tatto la forma. Su degli schermi compaiono leggere e fluttuanti impressioni in negativo, i cui morbidi toni ed evanescenti contorni di quel bagliore sono però sufficienti a dare forma visibile al candore di quelle carezze, ai delicati sfioramenti delle dita che lambendo la superficie del vaso rievocano una originaria e arcaica poiésis: la bellezza e la sensibilità dei movimenti delle mani degli antichi vasai nell’atto della foggiatura al tornio. Immagini portate alla luce dalle mani che le strappano dall’oscurità, che rimangono visibili, appaiono vive, fino a quando continuano le carezze, per poi sparire nel buio della nostra memoria.

 

Studio Azzurro Biennale di Venezia 2013

 

La carezza, qui, oltre a esplicitarsi come un autentico gesto poietico, denso di espressività, comunica, con tutta la sua immediata potenza simbolica, la volontà di farsi cura di ciò che non si vuole perdere, di trasmette calore e protezione a ciò che si considera importante e vitale. Immagini, dunque, visualizzate dal calore del flusso sanguigno che scorre nelle mani trasmesso alla superficie del vaso per contatto; immagini che nascono dall’interno, vaghe e baluginanti, della stessa natura e sostanza dei ricordi, apparenze fantasmatiche che con la loro labile esistenza invocano il mantenimento del contatto che preserva le cose, che si cura dell’uomo, che tiene unito l’uomo al mondo, senza il quale tutto svanirebbe irreversibilmente. Ecco, la ragione per la quale ho scelto quest’opera risiede nel fatto che mi piace credere che accarezzando i nostri ricordi forse riusciamo a mantenere vive le immagini di colui che non vogliamo accettarne la scomparsa. “Con la punta delle dita si riconosce un oggetto e lo si accarezza, lo si scalda per restituirlo alla luce, con l’affetto e la cura lo si restituisce al suo e al nostro tempo, quello della nascita e della morte, ma soprattutto della vita” (Paolo Rosa).

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