Alfabeto Pasolini / Pasolini: la letteratura non basta

11 Maggio 2022

La critica per me è sempre stata una forma di autobiografia. Non posso immaginare di scrivere su un autore che, in un modo o in un altro, non abbia incrociato il mio cammino e che non mi abbia lasciato tracce profonde. Tutto ciò che di buono può uscire dalla forma della mia critica dipende ogni volta dal trauma conoscitivo dei miei incontri reali o immaginari.

 

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1973. Con mio padre a Cervignano del Friuli, a casa di Giuseppe Zigaina (1924- 2015), pittore e amico di infanzia del poeta.

Avevo dieci anni. Mio padre scriveva poesie. Anch’io. Avevo iniziato a nove anni. Il modello, allora l’unico, lo avevo a portata di mano. 

Quando ci penso mi sembra incredibile, ma a quell’epoca già leggevo Pasolini e Pavese. Erano i due poeti italiani della nostra adolescenza (certo, c’erano anche Rimbaud, «i poeti maledetti», García Lorca e Pablo Neruda). Il primo, due anni dopo, a 53 anni, sarebbe stato assassinato a Ostia, vicino a Roma, vicino al mare. Il secondo si era suicidato nel 1950, a 40 anni, solo e dopo l’ennesimo disastro amoroso, in una stanza dell’hotel Roma a Torino, vicino alla stazione dei treni. Alla mia epoca gli adolescenti volevano sempre morire assassinati o suicidi dopo un disastro amoroso, vicino al mare o vicino a una stazione dei treni. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi… Oggi no, oggi gli adolescenti vogliono vivere, hanno paura dell’amore, ma oggi è anche impensabile che a dieci o undici anni leggano Pavese e Pasolini. 

 

Non sono in grado di ricordare quello che il pittore, il poeta e mio padre si dissero. Non molto, credo. Il pittore era concentrato a mostrare le sue opere: disegni e incisioni. «Tecnica mista», spiegava. Che cosa voleva dire? Mio padre era un giovanotto di trent’anni alla scoperta dell’arte. Aveva già una moglie e due figli, ma si entusiasmava per ogni opera. Il poeta, amico del pittore fin dal tempo della Seconda guerra mondiale e del periodo trascorso (1943-1950) nel paese di sua madre (Casarsa della Delizia) e delle sue prime poesie in dialetto friulano, si era già installato nel silenzio di colui per il quale l’arte non è più sufficiente. A quell’altezza della sua vita ne aveva già sperimentato ogni forma: la poesia, il romanzo, il saggio, il teatro, il cinema, il pamphlet, la pittura e, in quegli ultimi due anni, stava mettendo tutto insieme in Petrolio (pubblicato postumo nel 1992), opera inclassificabile e incompiuta… «Tecnica mista»?

 

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«E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere, ma nel vivere», scriveva. 

Il rapporto tra vita e letteratura: il più antico del mondo, o meglio il più antico da quando esiste la letteratura. Ma mi chiedo: che cosa significa per uno scrittore che deve «impegnarsi nel vivere»? Quel che fin dai tempi di Baudelaire e soprattutto delle avanguardie dell’inizio del XX secolo ha sempre significato: far morire la letteratura per andare incontro alla vita. Come se l’esperienza della vita fosse più intensa di quella della letteratura! Chi lo ha detto? E se invece la torsione, sebbene impercettibile, sebbene millimetrica, che la letteratura fa della nostra realtà rendesse l’opera d’arte più reale della stessa realtà? La morte della letteratura significa che desideriamo entrare dalla porta principale nella realtà, che non desideriamo più creare un confine tra l’arte e la realtà, che il desiderio di realtà ha vinto sul piacere di dare forma a un’altra realtà. Non è forse quello che stiamo assistendo da almeno trent’anni?

 

Voglio dire, alla trasformazione dello scrittore in giornalista, dell’espressione in informazione? Si rendeva conto di tutto ciò il poeta? Credo di sì, ma la sua vorace, famelica, disperata fame sessuale lo portava ad abbracciare quello che, secondo lui, la letteratura non poteva accogliere, ovvero i corpi, soprattutto i corpi dei paria che lui stesso abbracciava ogni notte e grazie ai quali, a volte, avveniva il miracolo di Cristo: la transustanziazione del corpo in spirito. Ancora di più: la letteratura non era in grado di accogliere «la passione e il caos», cioè quel residuo di umanità con cui quei paria accettavano i nuovi valori della «società dei consumi». Ma non credo che il poeta si rendesse conto di un’altra cosa: che tutta la società moderna, e soprattutto la tanto odiata società neocapitalista, «clerico-fascista, falsamente democratica, consumista», quel che faceva e che continuava a fare era, per dirlo con le parole di Ricardo Piglia, che aveva letto con lucidità Pavese e Pasolini, «cercare di uccidere la letteratura».

 

Come può una società neocapitalista e consumista accettare un’attività così asociale, così poco redditizia, così solitaria e così poco controllabile dal potere? Che cosa produce alla fine la letteratura? Opere, cioè oggetti il cui prezzo è incalcolabile in termini di tempo, di durata, di costi. E questa incalcolabilità è contraria alla logica della razionalità capitalista e perciò «la morte della letteratura è qualcosa a cui la nostra società aspira». 

Pochi anni fa ho comprato un disegno a «tecnica mista» di Zigaina, il pittore e amico di Pasolini. Lo avevo cercato per molto tempo. Alla fine l’ho trovato. Si chiama «Metamorfosi». È del 1973, naturalmente. 

 

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Ricordo che il poeta non mi era sembrato molto alto. Anzi. Almeno vicino a mio padre, un uomo di un metro e novanta. Era magro, ossuto, ma aveva i muscoli tesi, allenati. Portava un paio di occhiali neri che a volte si toglieva, li posava sopra il tavolo, chiudeva gli occhi e si passava le dita di una mano ai lati del naso, come per rilassarsi. Aveva una voce da bambino. Questo me lo ricordo bene. Un po’ come quella di Fellini. Di questo me ne resi conto alcuni anni più tardi. E una certa timidezza, o pudore, o umiltà o ancora meglio, un senso di inadeguatezza nei confronti degli altri, di qualsiasi altro che non fosse se stesso. O tutto questo insieme. E che cosa emanava questo suo atteggiamento? Allora non potevo saperlo e oggi non desidero saperlo. 

 

Forse aveva già perso ogni speranza, una parola che negli ultimi anni aveva cancellato dal suo vocabolario. Chi è un uomo senza speranza? Allora non potevo saperlo e oggi continuo a non saperlo. Probabilmente aveva perduto da molto tempo la più grande illusione che un poeta può custodire: che la cosa più importante è essere compresi dopo. Ma per lui non c’era più nessun dopo. Il dopo non aveva il volto dei giovani delle borgate di Roma perché quei giovani si erano trasformati fisicamente, «antropologicamente» in nemici della povertà… E, apparentemente, non c’era altro rimedio che ritornare alla povertà. Andarsene in India, nello Yemen, in Algeria, a Tunisi. Lì c’era ancora la felicità. La felicità? Beh, quello che della felicità restava, una volta condannati tutti i figli e i nipoti dell’Occidente considerati ormai «mostri», «criminali», «barbari», «maschere di una integrazione» per i quali non si poteva provare nessuna pietà. 

 

Mio padre, nato negli anni quaranta, era un figlio putativo del poeta. Io, venuto al mondo neocapitalista negli anni sessanta, uno dei suoi nipoti. Entrambi non avevamo nessuna speranza. Non sapevamo che il tempo del conflitto tra generazioni stava finendo e che perciò i figli (e naturalmente i nipoti) non si sarebbero mai più liberati dalle colpe dei padri; che i figli e i nipoti avrebbero indossato gli stessi pantaloni a zampa di elefante e le stesse scarpe da ginnastica Nike; che «la storia della borghesia e la storia del popolo si erano unite» e che era «la prima volta che avveniva nella storia dell’uomo».

 

 

Non sapevamo che «la civiltà dei consumi» o dello «sviluppo» – che il poeta distingueva dal vero «progresso» – avrebbe fatto scomparire ogni opposizione: la Destra e la Sinistra, il Fascismo e il Comunismo, la Borghesia e il Popolo, la Vecchiaia e la Gioventù, la Cultura e la Subcultura, la Rivoluzione e la Restaurazione, la Trasgressione e la Permissività, la Comunicazione e l’Espressione, la Colpa e l’Innocenza, la Religione e la Laicità, la Tecnica e il Sapere Umanista, il  Presente e il Passato, Dio e il Diavolo… Non sapevamo nulla di tutto questo. Non sapevamo che stavamo vivendo l’inizio di quella che solo dieci anni dopo, nel 1983, Milan Kundera, avrebbe chiamato l’epoca dei «paradossi terminali». Un’epoca che non è terminata, e che, forse, non terminerà mai. 

 

Non so quel che sapeva allora mio padre, un esempio di seminarista che si convertì in  marxista e che, alla fine, da uomo sensibile e ottimo pedagogo, non ha voluto partecipare all’orda paradossale degli intellettuali di sinistra ansiosi di salire sul carro, o meglio, sul carillon di questa nostra democrazia liberale che non si può migliorare ma solo prolungare fino all’eternità. Ha preferito, en attendant Godot, dedicarsi a Lucrezio. 

Quanto a me, a sedici anni, nel 1979, compresi in maniera tanto improvvisa quanto assoluta di appartenere all’ultima generazione storica del XX secolo e che nell’epoca dei «paradossi terminali» ci sarebbero stati solo uomini «post-storici». In altre parole, mi stavo preparando a vivere, a differenza del poeta, una forma minore, molto meno tragica, di apocalisse. 

 

*

 

Mi ricordo che mio padre mi disse qualcosa come: «Forse il poeta si sente uno sradicato nel suo stesso paese». Il poeta, infatti, non lo riconosceva più il suo paese: «Il fascismo non è stato sostanzialmente in grado neppure di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…». A tutta la sua generazione capitò la stessa cosa. Ma quasi nessuno si indignava. Il vero scandalo era il poeta! Soprattutto agli occhi degli intellettuali di sinistra, i suoi vecchi e nuovi compagni. Che ti succede, Pier Paolo, è il progresso! Il buon marxista non si è mai scontrato con il progresso e la tecnica. E chi è contro il progresso è contro la vita e si trasforma ipso facto in un reazionario. A parte il fatto che quello che gli altri chiamavano «progresso», lui lo chiamava «sviluppo» e viceversa.

 

Era chiaro che non si capivano. O meglio: lui viveva già in modo cosciente e tragico nell’epoca dei «paradossi terminali», dove le parole, come tutto il resto, non hanno frontiere, dove porre un limite al senso di una parola è la massima forma di arroganza. Mentre gli altri, i vecchi e i nuovi compagni di sinistra, prendevano il cammino pieno di delizie dell’infinita interpretazione, dell’«opera aperta». In altri termini, del caos. Ma ancora una volta il poeta e i suoi vecchi e nuovi compagni non si capivano. Il caos di Pasolini non aveva nulla a che vedere con il caos dell’eterna semiosi. Per Pasolini, soprattutto per l’ultimo Pasolini, quello degli Scritti corsari e delle Lettere luterane – il solo che a mio avviso sopravvive –, la letteratura non era sufficiente perché avvertiva, in maniera sempre più acuta, di fronte a quella che chiamava «mutazione antropologica» – qualcosa per lui di irreversibile, che «ciò che si vive esistenzialmente è sempre enormemente più avanzato di ciò che si vive coscientemente». Questo è stato il poeta negli ultimi anni di vita per molta gente: un reazionario perduto nel caos, un nostalgico di un cosmo greco e cristiano in un mondo moderno che aveva dimenticato tanto l’ubris quanto la caritas. Per questo motivo, forse, poteva sradicare tutto ciò che non riconosceva ed essere così radicale di fronte a ciò che gli altri riconoscevano tanto facilmente. Però restava un mite.

 

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Quel che ricordo ancora di quell’incontro è che il poeta non rideva mai. Perché quella mancanza di humor? La serietà dell’infanzia vinceva su tutto il resto. Forse non aveva mai smesso di essere un buon alunno. E un buon professore. Scrupoloso come un alunno e chiaro e schematico come un professore. Soprattutto un professore italiano.

Tra il 1972 e l’anno della sua morte Pasolini aveva tenuto una rubrica di recensioni nel settimanale “Tempo”, che poi furono raccolte e pubblicate postume con il titolo di Descrizioni di descrizioni nel 1979. Quando, molti anni dopo il mio incontro le lessi per la prima volta, la mia attenzione fu richiamata dai pochissimi autori stranieri trattati. Soprattutto dai suoi giudizi su Gombrowicz, Canetti e Céline. In particolare la sua lettura del Diario di Gombrowicz mi colpì. Compresi che il poeta era ontologicamente impossibilitato a entrare nel mondo dell’irriverenza, della leggerezza, dell’irresponsabilità, dell’immaturità, della forma che lotta contro se stessa dell’autore di Ferdydurke.

 

Per Pasolini Gombrowicz, questo «tardo romantico», «ingenuo e morboso», «pieno di lacune enormi (Freud e Marx)» e di un «anticomunismo tanto banale quanto volgare», descrive nel suo  Diario «una figura dello scrittore come uomo sbagliato, non solo poco colto, ma anche poco intelligente; una specie di sgraziato buffone senza corte che crede sia difficile capire la verità  e soprattutto che sia obbligatorio dirla, che l’inopportunità possa essere programmata, che la sgradevolezza sia un elemento del genio, e che ghignare sia un segno di superiorità».

Che cos’è un uomo senza speranza? Mi ero domandato. Forse un uomo troppo radicato nella sua provincia. Forse un uomo che non sa ridere. O forse un uomo moderno che sa ridere solo come un uomo arcaico che scopre per la prima volta il divino, o come un uomo antico, come ridevano i tragici greci, Aristofane, Plauto, Marziale, o, al limite, Boccaccio e Chaucer. 

 

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Mio padre, al ritorno, mi disse che il poeta aveva un lato oscuro, ma, naturalmente, non capii che cosa volesse dire. Forse il suo fascino veniva giustamente da quell’innocenza infantile che nascondeva qualcosa di terribile. Qual era questo terribile segreto? La sua omosessualità, ovvero l’omosessualità di un figlio di madre devota che non poteva ripudiare il sacrificio di Cristo? Il fatto che non poteva più vivere secondo il Vangelo di San Matteo? Il fatto che non sopportava che la gente non potesse andare per strada nuda o vestita di stracci? Il bambino desiderava la purezza, desiderava restare immacolato, desiderava l’autenticità, desiderava la nudità e il mondo del capitalismo, meglio del neocapitalismo, se la rideva di tutto questo. E lui non riusciva a riderne. Con la serietà dei bambini e il coraggio degli adolescenti che non hanno nulla da perdere – né la vita né tanto meno la morte – desiderava cambiare il mondo, o ritornare a un mondo in cui le lucciole illuminavano la notte e i volti degli uomini e delle donne svelavano le loro anime. Desiderava ritornare a un tempo in cui la fisiognomica era una scienza esatta. Per questo motivo, forse, abbandonò la letteratura per il cinema. Totò, Orson Welles, Maria Callas, Ninetto Davoli e tutti gli altri amici e adolescenti pieni di vita non erano attori, ma loro stessi. 

Ma neppure questa si può prendere come la sua estrema verità. 

 

Alla fine, nel 1975, l’eretico, il luterano, l’apostata Pasolini abiurò i film che compongono la “Trilogia della vita” (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte), nei quali «l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali». Neppure i corpi degli “innocenti” e i loro organi sessuali conservavano una particola, un’ostia di sacralità. Il progresso – o meglio «lo sviluppo» – e la liberalizzazione sessuale si erano trasformati in una «vasta nonché falsa tolleranza». Molto di più di questo: l’ultima Thule della realtà, cioè i corpi degli adolescenti di Napoli, del Medio Oriente, delle borgate romane, dell’Africa erano stati violati da questa «falsa tolleranza», frutto del «potere consumista» (la televisione, la scuola dell’obbligo, la pubblicità). Questo potere tollerava il consumo dei corpi dei giovani e lo faceva con tale leggerezza e tale cinismo da non produrre in loro nessuna felicità. Al contrario: trasformava i loro corpi, prima erotici, in pornografici e le loro anime, prima greche e cristiane, in blasfeme. Al poeta luterano non restava altro che rispondere alla blasfemia con la blasfemia, alla colonizzazione dei corpi ad opera della «falsa tolleranza» del potere del «nuovo fascismo», con Salò o le 120 giornate di Sodoma, ovvero con l’escrementizia e intollerabile meccanica dei corpi spogliati da ogni loro potere umano. 

 

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