Pensiero debole

5 Settembre 2011

A rileggere dopo quasi trent’anni Il pensiero debole si ha una strana sensazione di euforia, quell’euforia che, per nulla paradossalmente, si prova ogni qualvolta si colgono le ragioni della vaga nostalgia con cui per troppo tempo abbiamo convissuto. A quel tempo, i saggi del fortunato volume curato da Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo (Feltrinelli 1983) volutamente emanavano un alone di tristezza rinunciataria, e i termini in essi più ricorrenti  – “crisi”, “negatività”, “declino”, “disincanto”, “abbandono, “oblio”, “tragico”, “morte” – quasi conducevano tale sentimento verso una sorta di insopprimibile angoscia. Oggi si coglie meglio di ieri che le cose non erano messe poi così male, mentre adesso ce la passiamo terribilmente (verrebbe da dire irrimediabilmente) peggio. Tutto si giocava dentro una cornice di problemi e di concetti che allora appariva naturale – Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Foucault, Deleuze, Derrida, Rorty – e che poi, per farla fuori, è stata perfidamente ribattezzata ‘filosofia continentale’. Tutto aveva perciò un senso, un preciso valore, un’unica direzione: la messa in discussione delle certezze bimillenarie della filosofia occidentale, irrimediabilmente metafisica perché convinta dell’esistenza di qualcosa come un essere dato e immutabile, cui farebbero riferimento – per costituirne la verità assoluta – un pensiero e un linguaggio ben adeguati a esso. Ma quella cornice era strategicamente perdente, suicida forse proprio a causa dell’autodichiarazione d’intrinseca debolezza, di modo che il campo lasciato vuoto dai ‘debolisti’ è stato ben presto occupato, per contrappasso, dalla filosofia sedicente analitica. Da cui, appunto, l’oggi.

 

Ma disegniamo innanzitutto il contesto teorico mainstream a cavallo fra anni settanta e ottanta. Il post-strutturalismo e il decostruzionismo di marca francese avevano permeato di sé università, riviste e convegni nell’intero rampante mondo anglosassone, risucchiando al suo interno fenomenologia ed esistenzialismo, strutturalismo e psicanalisi in un’unica miscela dai confini sfrangiati e dall’articolazione interna molto fluttuante (se ne veda la caricatura ne Il professore va al congresso di David Lodge). Barthes, Lacan, Deleuze, Foucault, Derrida erano nomi sulla bocca di tutti, marchi di fedeltà a un pensiero al tempo stesso euforico e decostruttivo, secondo il principio – tanto evidente quanto mal compreso – per cui (ri)costruire sistemi è il miglior modo per svelarne l’arbitrarietà, l’artificiosità, la relatività, indirettamente tenendo aperta la possibilità di rimuoverli, o quanto meno di cambiarli. La botta finale l’aveva data Lyotard con la nozione di postmoderno [si veda la voce dedicata in questo dossier], mostrando come la realtà profonda della modernità stia nella sua dissoluzione, l’inevitabile compimento del progetto moderno (progresso, razionalità, logica, pianificazione…) sia il suo disfacimento. In questo, non c’era alcuna sensazione di crisi, sentimento di disfatta, nostalgico rimpianto d’un passato perduto: la nozione nietzschiana di “gaia scienza” emergeva in tutta la sua più intima significazione.

 

In Italia, agli inizi degli anni ottanta, le cose andavano diversamente. Da una parte nelle accademie e nei vari luoghi della cultura dove s’annidavano i benpensanti restava forte la tradizione storicista, se pur rivista da un cauto marxismo très à la mode. Dall’altra i pensatori di grido si facevano portatori ora di un pensiero negativo (Cacciari, Rella, Perniola…) ora di una crisi della ragione (Gargani, Ginzburg, Badaloni…), di modo che del grande movimento di pensiero d’oltralpe, e del suo intrinseco entusiasmo si vedeva per così dire il bicchiere mezzo vuoto, il lato oscuro e incerto, il traballare delle certezze idealistiche e totalizzanti. E così, più che alla Francia lo sguardo era rivolto alla cultura di lingua tedesca, all’Austria di fine Ottocento e alla Germania husserliana, heideggeriana e gadameriana.

Il pensiero debole è la prosecuzione di tutto ciò. Da un alto esso indica la ferma volontà di uscire da quel provincialismo in cui il crocianesimo aveva relegato la filosofia, e in generale la cultura, italiana; e dunque la necessità della fondazione di una prospettiva intellettuale che non fosse semplice chiosa dei grandi pensatori francesi o tedeschi. Dall’altro, così facendo il pensiero debole ribadisce d’essere, prima d’ogni altra cosa, esercizio intellettuale all’erta sul mondo, analisi critica del reale. Con qualche visione teorica? A leggere il volume, ma anche il fascicolo di aut-aut dedicato al medesimo tema (n. 201, 1984) e altri successivi, si capisce bene che non si tratta di una soltanto (ed è questo, verrebbe da dire, un suo punto di forza) ma una serie plurima e non concorrenziale di declinazioni concettuali: Vattimo e Ferraris propongono una koiné ermeneutica che superi l’idea ricoeuriana di una ‘scuola del sospetto’; Eco dimostra l’impossibilità di una logica aristotelica con categorie universali articolate nella medesima, necessaria classificazione; Rovatti argomenta un’etica della distanza, un saper gestire la prossemica della conoscenza, ossia i rapporti fra soggetto e oggetto; Carchia versa un elogio dell’apparenza; e poi ancora Agamben, Perniola, Dal Lago, Crespi, Comolli e molti altri. Non c’è stato pensatore, all’epoca, che non abbia detto la sua su questa specie di cattivo brand filosofico che è stato il “pensiero debole”, attivando un dibattito molto acceso che ha ravvivato, nel bene come nel male, la filosofia italiana lungo tutti gli anni Ottanta, costituendo grazie a ciò la sua stessa identità nazionale.

 

Si ragionava intorno a un certo numero di problemi di un certo rilievo. Dal lato del soggetto, era la rinuncia a ogni pratica della razionalità come esercizio totalizzante e assoluto, in nome di una relatività dei saperi e di un dialogismo sempre aperto all’ascolto dell’alterità intellettuale e culturale. Il soggetto, ermeneuticamente, è sempre situato. Dal lato dell’oggetto, era la messa in discussione di una realtà esterna data, in nome di una nuova ontologia su basi temporali e discorsive, mai empiriche. La realtà, scrive Rovatti, è sempre una costruzione simbolica. Da qui l’idea di un orizzonte retorico della verità (la verità è il consolidamento di antiche metafore, diceva Nietzsche), se non di un suo uso strategico nei rapporti di dominio. Accanto alla terminologia disforica sopra ricordata (crisi, declino etc.) ecco tutta una serie di concetti che trasudano ottimismo: alleggerimento, molteplicità, differenza, alterità… Quel che resta problematico, anche qui seguendo la lezione nietzschiana, è la concezione ingenua dell’oltrepassamento come semplice passaggio temporale o causale da un’epoca alla successiva. Anzi, potremmo dire che il pensiero debole, in questo vicino al postmoderno di Lyotard, è la negazione di ogni idea di oltrepassamento e di rivoluzione, a tutto vantaggio di un prospettivismo che problematizza la storia, la politica, l’etica, la conoscenza. Chi dice che da questo momento in poi tutto è cambiato, che niente sarà più come prima, che viviamo finalmente nel migliore dei mondi possibili lo fa certamente, consapevolmente o meno, per un secondo fine.

 

Resta il problema del brand, o quanto meno del suo nome, che se pure non si configura come un’esplicita dichiarazione di impotenza, ci si avvicina parecchio. E lascia troppo spazio vuoto a chi, di lì a poco, sarà in grado di approfittarne ed occuparlo, ostentando muscoli filosofici di tutt’altro stampo. Ignorando la problematicità insita nel concetto di debolezza, si tornerà a parlare di verità, realtà, razionalità, ontologia, scienza, natura. Come se nulla fosse successo, ecco di nuovo il positivismo. Occorreva una maggiore attenzione alla gestione della comunicazione e alla costruzione di una buona identità di marca: ma su questo la cultura italiana ha ancora molta strada da fare. Per non parlare della politica.

 

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