Pensiero in rivolta
Insieme con Alessandro Fontana, recentemente deceduto, quasi dimenticato, Mario Galzigna è tra i più affezionati allievi italiani di Michel Foucault. Le sue ultime imprese lo hanno visto tradurre e curare alcuni tra i più importanti corsi al Collège de France e, sopratutto, la nuova edizione della Storia della follia, che include una serie di inediti e fa di quest'opera oggi la migliore edizione esistente al mondo.
Rivolte del pensiero, uscito presso Bollati Boringhieri, è invece il suo libro più recente. René Magritte, Ronald Laing, Darcy Ribeiro, Antonin Artaud, Eduardo Viveiros de Castro sono tra le maggiori fonti ispiratrici del libro, come afferma lo stesso autore nel poscritto. Più che davanti a un saggio, nel senso classico di una trattazione lineare tematica e dimostrativa, immaginate di essere alle porte di una miniera, di un deposito pieno di pietre differenti, diversamente colorate, con differente malleabilità, durezza, dimensione. Oppure, se l'immagine della pietra evoca una certa durezza, in un giardino botanico (quello di Rio de Janeiro per esempio). Pietre, piante accomunate da una caratteristica fondamentale: l'essere preziose, l'essere antiche, l'essere istoriate. Non certo nel senso di avere valore economico specifico, indicato dal mercato e dagli esperti, piuttosto un valore affettivo che ti fa andare avanti e indietro nel tempo della modernità e nel tempo della tua propria vita.
Prima ancora di leggere il testo, già al titolo, poi confermato nella lettura, tendevo a renderlo attivo.
“Un pensiero in rivolta assume la fisionomia di un evento, evocando il respiro collettivo, i contesti e il tessuto di relazioni su cui agisce e dai quali è stato reso possibile.” (Galzigna, p. 40)
Queste Rivolte del pensiero sono pensiero in rivolta e da lì, tornado indietro, giungo al Camus del 1951, L'homme révolté, che aveva fatto discutere il mondo dell'esistenzialismo. La rivolta come caratteristica del soggetto, come soggettivazione e come molteplicità. Che si moltiplica, assume forme differenti, colorazioni, inquietudini, incertezze.
L'Unheimliche può connotarsi come una bambola che improvvisamente si anima.
Nell'immaginario psichiatrico uno psicotico duro, definizione che uno psichiatra un po' rozzo cerca di far passare riguardo a un paziente, si rivela all'autore come un pittore di valore. Un pensiero in rivolta ha un destino che lo mette ai margini dell'accademia, come accadde a molti di coloro che lo praticano, da Gregory Bateson a Gilles Deleuze. Il suo destino è cogliere il paradosso contenuto in ogni linearità, capovolgere il ragionamento, farlo circolare. Prendere posizione. Il sapere è prendere posizione.
Il primo capitolo si muove dentro l'esperienza di osservazione del mondo psichiatrico, l'uso pervasivo della diagnosi come strumento di catalogazione umana, di archivio della sofferenza o, come la definisce l'autore, cosalizzazione. Dove per descrivere è necessario anzitutto catalogare, trasformare un gesto storico in realtà assoluta.
Il secondo ci ricorda Ernst Jentsch, citato da Freud, che parla dell'Unheimliche come di un'incertezza intellettuale. Ciò che crea l'indecisione a proposito di qualcosa che non sappiamo se è vivo o privo di vita, dalle cere di Madame Tussauds ai moderni artisti di strada che attraggono bambini e adulti per le loro pose statuarie, che di tanto in tanto si muovono. Posture intellettuali, semi coscienti, “non riconducibili al mero orizzonte della spiegazione teoretica” (ivi, p. 62). Si tratta, per dirla con Magritte, “di cogliere la poesia e il mistero intrinseci all'immagine” (Magritte cit. in Galzigna, p. 65).
Poi arrivano le sintesi disgiuntive – ricordo un suo intervento al seminario permanente Bateson-Deleuze-Foucault, in cui sviluppò questo concetto a partire dall'Impero delle luci di Magritte – i cui riferimenti sono Ronald Laing, Darcy Ribeiro e la sua recente esperienza brasiliana tra i Guaraní.
Un testo sui libertini in cui, oltre a scrivere di qualche personaggio di Diderot (come Génistan e Rameau) si rammenta di un Sade mal inteso, più morale di coloro che credono di abbellire i libertini, che non cerca di salvarli, ma li rende terribili affinché le sue vittime li detestino: “...non conosco altri modi per riuscirvi che mostrarlo [il libertino] con tutto l'orrore che lo caratterizza” (Sade, cit. in Galzigna, p. 119).
Infine la grande passione letteraria di Galzigna: Antonin Artaud. Che significa affrontare il tema del gesto, del grido. In primo luogo una lettura doverosa e critica di Derrida, che su Artaud ha scritto assai. Poi il riferimento a René Allendy, allievo di Laforgue, dal quale fu analizzato, e seguace, via Laforgue, di Ferenczi. Con Allendy Artaud inizia un'analisi interrotta precocemente e disdegnata come intrusione. Tuttavia Artaud, come Joyce, manterrà un rapporto con la psicoanalisi che non dipende dalla cura, bensì dalla produzione artistica.
Lo stile di Mario Galzigna è quello dei grandi saggisti, costruisce concatenazioni inattese eppure significanti, uno stile adatto a creare concetti. Perché, da Deleuze in poi, il compito della filosofia non è più quello della coerenza argomentativa, del metodo step by step, ma ritorna a essere quello della concatenazione eroica bruniana. L'opera di Galzigna, non solo questo libro, ma i numerosi saggi che scrive, con particolare riferimento alla sua magistrale introduzione alla Storia della follia, è un esempio di stilistica del saggio. E, com'ebbe a dire un tempo Gilles Deleuze a proposito di Henry Miller, “Che invidia, vorrei anch'io scrivere come lui”.