Petronio 2.0

27 Novembre 2014

Cos’è un classico? È un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire (Calvino). Cos’è un classico? È un contemporaneo del futuro (Pontiggia). E allora non ci si può stupire che sia uscito in questi giorni per Mondadori un romanzo che si rifà scopertamente al Satyricon di Petronio. Così scopertamente da riprenderne pari pari il titolo, con l’aggiunta però di un significativo 2.0.

 

Se l’autore del testo, Gian Mario Villalta, invita il lettore a questo gioco – che è quello, piuttosto serio, di misurare l’attualità dell’opera petroniana, cioè di vedere in che misura un’opera di duemila anni fa si presta ad essere usata come guida per il presente – accettiamo l’invito e stiamo al gioco.

 

Il Satyricon di Petronio è un romanzo (ci si passi l’anacronismo) di scholastici. Questa parola può valere sia per studenti, sia per studiosi sia, pure, per semplici frequentatori abituali di scuole di retorica. Il mondo che si squaderna nell’opera petroniana, mondo di proverbiale decadenza e depravazione, viene visto attraverso gli occhi degli scholastici, attraverso la loro mente, imbevuta di cultura o, meglio, di luoghi comuni culturali. Uno scholasticus in particolare, a nome Encolpio, funge da voce narrante.

 

Il Satyricon 2.0 di Villalta è un romanzo (senza anacronismo) di universitari. C’ è un vecchio marpione di ordinario con la sua corte di giovani ed ex-giovani a vario titolo precari. Uno di loro, Giuseppe, è la voce narrante.

Se nell’opera antica Encolpio e il suo amico-rivale Ascilto si disputano le grazie del ragazzetto Gitone, nell’opera appena edita Giuseppe e il suo amico-rivale Giorgio combattono per la studentessa Lucia. Almeno fino ad un certo punto. Ma non vogliamo rivelare troppo.

 

Ben presto l’intera vicenda di tale gruppetto di accademici di un’accademia periferica, del Nordest, finisce per ruotare attorno a un misterioso vassoio d’oro, trafugato in circostanze rocambolesche a certi loschi cinesi tenutari di un bordello.

Il vassoio è il tipico oggetto Mac Guffin, secondo la definizione di Hitchcock: in sé è abbastanza irrilevante, ma serve a movimentare la trama.

Una funzione analoga aveva, nel Satyricon originale, un pallium, un mantello rubato. Ma ciò che qui era solo uno spunto isolato, nell’opera moderna diventa centrale.

Il vassoio d’oro, e il giro di farabutti che esso implica, porta i nostri eroi a spasso per l’Italia: Bologna, Roma, la Sardegna.

 

A Bologna c’è l’incontro con un vecchio pervertito, presunto zio di Lucia.

A Roma c’è, tra le altre disavventure e avventure, una cena in una trattoria tipica di Campo de’ fiori. Se il banchetto di Trimalcione, cuore del Satyricon e suo frammento più esteso, era in qualche modo anche la parodia del Simposio platonico, questa cena di intellettuali velleitari, alle prese con gricia ed amatriciana, rappresenta una sorta di parodia della parodia, con tutto il suo vano sfoggio di “cultura”, riassunta nell’esibizione continua di titoli di collane editoriali, fiorenti od estinte, da parte di una commensale particolarmente melensa. Tra i personaggi della cena un paio paiono fortemente “ a chiave”, e sono il giovanilistico editore Moffi e il celebre critico Pafi.

È però nel soggiorno in Sardegna che compare il vero emulo di Trimalcione, nella persona dell’imprenditore Sandro Gazzo, che festeggia il suo sessantesimo compleanno con gigantismi di pacchianeria megalomane tali da far letteralmente impallidire quelli del suo antecedente latino.

 

Il narratore Giuseppe registra quello che vede. Trasforma la sua impotenza in racconto. E quando scriviamo “impotenza” non usiamo solo una metafora, perché, così come Encolpio passava di defaillance in defaillance con etere, schiave o matrone, al punto da considerarsi perseguitato dal dio Priàpo in persona, anche Giuseppe colleziona uno scacco dopo l’altro e va in bianco con i tipi di donna più diversi, fino al risolversi finale della crisi e ad un trionfo erotico che però non avrà, sembra, seguito.

 

E questa impotenza, allora, rientra nella metafora o, almeno, assume anche una forte valenza metaforica. Giuseppe, così come Giorgio e come il professore marpione Michele, sono intellettuali davvero impotenti a modificare anche solo in parte una realtà che, di loro, della loro cultura, e delle loro teorie non sa che farsene. Resta solo la gioia del racconto che, comunque, non è poco.

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