Philibert. La Maison de la Radio

25 Novembre 2013

Finalmente qualcuno torna a fare film sulla radio, che di per sé è un ossimoro, perché per fare un film su un medium invisibile ci vuole, come minimo, tanta fede. Bisogna crederci, insomma.
Il film alla fine lo ha fatto Nicholas Philibert, che in Italia ricordiamo soprattutto per Essere e Avere, la storia di un maestro elementare in una scuola di montagna e dei suoi alunni. Philibert in Francia, dove il documentario è ancora un genere popolare, è molto conosciuto e apprezzato e il suo nome ha contribuito molto alla diffusione di questo film, che apparentemente è un prodotto molto francese, difficile da esportare.

 

 

La maison de la radio (60 giorni di riprese distribuite nell'arco di 6 mesi) è un documentario di 103 minuti che racconta 24 ore nella vita delle persone che lavorano dentro l'edificio che ospita i canali radiofonici del servizio pubblico francese, la casa, appunto, della radio, un edificio circolare progettato da Henry Bernard e inaugurato da de Gaulle nel 1963.

 

 

Ieri sera l'ho visto in dvd, perché andarlo a vedere al cinema è un'impresa da carbonari. Il film, presentato a Berlino, sta girando faticosamente nelle sale italiane, ma sta facendo parlare molto di sé, perché è un film che non parla solo all'orgoglio dei francesi né soltanto agli appassionati di radio.

 

La Maison de la radio non è soltanto un film sul lavoro quotidiano dei 4500 dipendenti di Radio France, molto francese nei riferimenti culturali e pieno di microfoni e tastiere di computer. Provo qui a sintetizzare allora le possibili letture, dalla più universale alla più particolare, che ho trovato dentro questo film:

 

La maison de la radio è un film sul lavoro.

 

Questa lettura me l'ha suggerita un post su Facebook di un amico, Andrea Lawendel, appassionato blogger di radio, che dopo aver visto il film ha scritto: “la passione per questo film è costituita dall'evidente fascino, del profondo rispetto nutrito nei confronti del lavoro dei 4.500 dipendenti di Radio France, della loro passione, coinvolgimento in un mestiere sentito autenticamente come proprio. Il racconto imbastito da Philibert ci emoziona come molti altri film sul lavoro, la creazione artigianale, l'espressione della perizia, della competenza, della professionalità degli individui. La radio è il mestiere più bello del mondo ma tutti i mestieri ben raccontati esercitano una forte attrattiva. Lo spettacolo del lavoro dell'uomo vale, spesso supera persino lo stupore che possiamo provare davanti a un paesaggio naturale”.

 

 

Ed è davvero così: quello che mostra questo film è l'intangibile capitale umano che sta dietro un'azienda, non solo pubblica, non solo di comunicazione. I tanto bistrattati dipendenti pubblici, in particolare. La camera si sofferma sulle riunioni di redazione, il lavoro d'ufficio, le interazioni tra registi, tecnici, attori e musicisti, il duro lavoro di chi deve mettere insieme diverse serie di parole al microfono. Ognuno di loro è ritratto durante l'azione del proprio lavoro, errori compresi. Ci insegna David Gauntlett che c'è molta più felicità nel fare le cose e condividerle, piuttosto che nello starsene seduti ad ascoltare.

 

E questo film lo dimostra: le persone ritratte sembrano felici di fare quello che fanno, di cantare, recitare, dirigere, montare, telefonare, parlare, leggere, muovere cursori, e sono felici perché hanno la possibilità di fare, produrre, dare forma a qualcosa che gli appartiene, che è anche loro. Il lavoro, non solo quello radiofonico, è una delle maggiori fonti di identità dell'uomo e poterlo far bene, con le condizioni giuste, è fonte di soddisfazione e felicità. Al contrario, alienazione e precarizzazione trasformano il lavoro nella principale fonte di insoddisfazione e infelicità.

 

 

In particolare, questo è un film sui lavoratori della radio: essi sono artigiani dell'immateriale, in quanto producono qualcosa di invisibile, intangibile. Sostanzialmente producono aria piena di informazioni. Ma sanno che quell'aria non va dispersa, arriva nelle case e nelle automobili. Il loro sforzo si traduce in servizio per qualcun altro.

 

 

Sono dei maker, degli artigiani che cooperano per un fine comune. Ora, raccontato così sembra un quadro idilliaco e idealizzato. Ma il film non idealizza il loro lavoro. Sicuramente ne enfatizza certi aspetti, quelli migliori e più romantici (tipo parlare da soli al microfono di notte o fare la radiocronaca del tour de France da una moto in corsa lungo le strade di provincia gremite di spettatori), ma restituisce un'immagine molto vicina alla realtà della vita quotidiana dentro Radio France.

 

La Maison de la radio è un film sulla parola e sulla voce.

 

La radio prende molto da vicino il suono della parola e fa sentire nella loro materialità, nella loro sensualità, il respiro, l’increspato, la polpa delle labbra, tutta una presenza del muso umano (che la voce, la scrittura, siano fresche, morbide, lubrificate, finemente granulose e vibranti come il muso di un animale), perché riesce a trascinare lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dello speaker dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce. (Roland Barthes, 1973)

 

Per tutti e 103 i minuti del film la protagonista assoluta è la parola e la sua trasformazione in segnale elettrico. Il film inizia con la sovrapposizione di voci di diversi speaker radiofonici – giornalisti, conduttori, attori, registi – e prosegue con lo svelamento delle persone che stanno dietro quelle voci. Il film ci dice che questo lavoro – fare la radio – è fondato sull'interazione tra persone attraverso la parola. La radio è la messa al lavoro della parola e della voce (Roland Barthes forse direbbe che la radio è la parole, ovvero la messa in pratica della langue). La colonna sonora del film è costituita interamente dalla parole e dai suoi diversi codici: la parola recitata dell'attore di radio, il gergo del regista e del tecnico del mixer, la parola dei redattori negli uffici, il gergo delle riunioni di redazione, la parola cantata, la parola ritmata del conduttore davanti al microfono, la parola lenta e ponderata degli ospiti in studio, la parola rapida e chirurgica dei cronisti sportivi. Il film è un inno alla parola, al saperla usare, a dire le cose giuste al momento giusto. Se chiudessimo gli occhi e ascoltassimo il film come fosse una radio, in fondo non perderemmo molto.

 

La Maison de la radio è un film sulla radio

 

Come film sulla radio però, è un po' noioso. O almeno, è un po' noioso per chi la radio la conosce dall'interno perché la fa tutti i giorni e non si stupisce né commuove per quello che vede accadere dentro gli studi o nei corridoi. Dopo un po', tutte queste immagini di persone al microfono, mani sul mixer e mani sulla tastiera di un computer, annoiano. Le tecnologie, le dinamiche relazionali, i processi produttivi mostrati dal film mi hanno ricordato molto quello che ho visto quando lavoravo in corso Sempione 27, la sede milanese di radio Rai. Addirittura quando vedevo un tecnico al mixer pensavo, sorridendo: “Questo assomiglia proprio a Y” e ripensavo con nostalgia al mese passato barricato in studio in compagnia di un tecnico a montare l'ultimo sceneggiato andato in onda su Radio2 nel 2009.

 

 

È noioso, dicevo, perché fa sì vedere cosa accade dentro questo medium invisibile, ma senza quasi mai uscire dalla fortezza. E' un film claustrofobico, quasi interamente girato dentro il fortino dell'imponente edificio circolare della Maison. Come se la radio fossero soltanto i produttori e non gli ascoltatori. Solo in tre brevi occasioni la camera esce dal fortino, per mostrare il cronista del tour de France in moto, il cronista allo stadio e un field recorder alle prese con una registrazione ambientale in un bosco, oltre a qualche immagine dall'alto di Parigi con la Maison e la torre Eiffel sullo sfondo. Mai la camera entra nelle case, nelle automobili, dove la parola viene ricevuta, non solo prodotta. Questo è un grande limite del film. Forse Philibert voleva concentrarsi sul “lavoro” radiofonico, su chi fa la radio, ma la radio si fa sempre in due: tu che la fai e io che l'ascolto.

 

La Maison de la radio è un film sul servizio pubblico.

 

Infine, questo film ci dice qualcosa del servizio pubblico, non solo di quello francese. Molte sono le analogie con il lavoro che accade tutti i giorni dentro gli studi della Rai. Certo, possiamo immaginare che in Rai ci siano più sprechi, più inefficienze e più persone “parcheggiate” che a Radio France (ma entrambi i servizi pubblici, quello francese e italiano, non brillano per i propri conti economici), ma molte delle persone e delle scene che ho visto in questo film le ho già viste in Rai. Se avessimo un Philibert italiano, sarebbe assolutamente in grado di fare un film altrettanto bello su Via Asiago 10 o Corso Sempione 27, mostrando la passione con cui ogni giorno, nonostante la precarizzazione, centinaia di persone macinano l'informazione e l'intrattenimento trasformandole in programmi di successo come Caterpillar, Il Ruggito del Coniglio, Fahrenheit, Tutta la città ne parla, Radio3 Mondo, Prima Pagina, Baobab, Mu, Moby Dick ecc...

 

 

Questo film anzi, è un enorme spot nei confronti del servizio pubblico, perché ci dice che, al di là delle difficoltà economiche (e in Italia anche di audience), dietro la più grande industria culturale nazionale c'è un capitale umano appassionato e competente, che ogni giorno va a lavoro, come tutti, e cerca di fare quello che sa fare e che ha imparato a fare.

 

 

Certo, il film è uno spot perché mostra solo quelli che “fanno” e non quelli che “non fanno” o “non vogliono fare” o “non sanno fare”. È un film sul fare le cose bene, con perizia e amore. È come dovrebbe essere il servizio pubblico: un lavoro fatto bene, con perizia e amore e onestà, per un pubblico che ti paga per questo. Conosco alcune persone in Rai che fanno proprio questo. Non so se siano la maggioranza, credo di no. Eppure è cosi semplice, in apparenza, definire il servizio pubblico. Basterebbe far vedere questo film a tutti i dirigenti di azienda, in particolare a tutti i direttori Rai. E poi decidere, una volta per tutte, che per fare bene questo lavoro, bisogna essere indipendenti dalla politica e nominati per meriti radiofonici, non per meriti politici. Sono un ingenuo, lo so.

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