Riordinare con Perec

10 Maggio 2024

Nell’ozio inquieto d’una domenica pomeriggio, meglio se estivo, decido di mettere in ordine i libri di casa. (Decisione tanto incauta quanto condivisa, su cui in tanti si sono esercitati – raccontandola). Negli scorsi mesi ho accumulato volumi e volumetti sul comodino, nel tavolino del living, sul mobile del bagno, sulle mensole dei termosifoni, nella dispensa accanto ai fornelli, nel box sotto casa, per non parlare ovviamente della scrivania e di tutto ciò che ad analogo scopo s’è prestato. Libri acquistati, ricevuti in dono o per promozione, presi in prestito dalla biblioteca pubblica o dalla casa d’un amico, ritrovati in una bancarella dell’usato… Ma soprattutto libri tirati giù dai miei scaffali, dove risiedevano per ragioni varie in comoda attesa: curiosità, studio, letture smozzate, tentativi di ricordare una trama o un’argomentazione, un concetto o un’immagine. Una biblioteca serve a questo: a poter avere lo scibile – illusoriamente tale per ciascuno – a perenne disposizione, salvo poi accorgersi che la cosa veramente importante sta in un testo che, chissà perché, non è al suo posto, o forse non lo abbiamo mai avuto, o qualcuno ce l’avrà sottratto…

All’inizio sembra facile: basta rispettare l’ordine già esistente: dividendo narrativa e saggistica, poesia e prosa, studio e intrattenimento, lingue e letterature nazionali, temi, problemi, discipline, epoche, culture. Ogni cosa al suo posto, e dentro ogni scaffale in inflessibile ordine alfabetico. Salvo poi dover ammettere che – come al solito a fine pomeriggio, quando desolatamente tutti i libri sono a terra ed è già ora di cena – queste classificazioni sono arbitrarie e, soprattutto, non reggono. Fanno più casino che altro. Parmenide scrive in versi ma è un filosofo, si sa. Ma Galileo è un narratore o uno scienziato? E Musil? La lingua inglese accomuna britannici e americani? e che ne è di Naipaul o di Nabokov? Cervantes può stare accanto a Borges (che lo voleva riscrivere, follemente, di sana pianta)? Magris lo metto fra i saggisti o tra i romanzieri? sarò costretto a separare la sua opera in zone diverse della casa? Oppure, in nome dell’Unità Ideale d’ogni Autore, devo fare epochè della separazione tra critica e narrazione? 

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Forse, per aggirare simili impicci senza soluzione, potrei cambiare radicalmente i miei parametri e scegliere per esempio di ordinare i libri per collana (ah, tutti gli Adelphi insieme, che spettacolo!; tutti i volumetti di Sellerio, i Meridiani, i PBE …); oppure per colore della copertina (ed ecco apparire, belli come un esercito schierato in battaglia, i gialli e i noir!); o anche per formato (le strenne natalizie, i libri d’arte, le raccolte di fotografia, i cataloghi delle mostre, i tascabili, i fumetti…). Cosa, quest’ultima, che, seguendo forma e misure degli scaffali, mi fa guadagnar spazio e riposare gli occhi. A proposito di arredamento, quali testi mettere nelle vetrinette, a proteggerli dalle intemperie farinose del tempo, e quali nella libreria aperta, a prender polvere favorendo gli starnuti? Vale la pena tenere l’Artusi in cucina o lascio spazio alla Garzantina di Allan Bay, assai più funzionale per il polpettone e il luccio alla polacca?

Eppure: siamo certi che, a fatica terminata, troverò in futuro quel che mi sarà capitato di cercare? Già non ricordo più dove è finito Spinoza: accanto a Deleuze o nei Paesi Bassi con Vermeer? Il libro di Adorno su Hegel sta con l’idealismo o coi francofortesi? lo Zaratustra sarà vicino al Vangelo? l’autobiografia di Feyerabend accanto al Discorso sul metodo? Sciascia a fianco di Padovani-Falcone oppure a Brancati e Consolo? Il libro sulla storia dei labirinti con Steinberg? Avrebbe un senso, ma ogni volta per motivi diversi. E poi, ammettiamolo, l’ordine serve a orientarsi, mica a sistemare l’universo. O no?

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Saltata la cena, stanco nella notte incipiente, mi domando, stremato, chi me l’ha fatto fare. Avrei potuto uscire per una passeggiata, immergermi nelle parole incrociate, guardare un film alla tv. Andare in palestra. Dormire. Ma eccomi circondano dai libri. Sono dappertutto, sui divani, sul tavolo dove pranzo, sui tappeti, perfino nell’armadietto dei detersivi. Agogno d’esser più giovane: quanto meno potrei imparare ad adoperare gli ebook, leggere i pdf, ascoltare i libri in streaming o catalogare i postcast nel disco esterno del computer. La magia odorosa della carta svanirebbe, lo so, grazie al moltiplicarsi delle cosiddette piattaforme informatiche, e con lei lo stress di tutto quest’intrinseco peso della cultura cartacea… Epperò, ricominciando, perché non distinguere i libri per ordine di arrivo in casa? Magari con gli anni me la cavo (prima dell’11 settembre, dopo il Covid, prima dei fascisti al potere…). E via dicendo.

Una sola cosa è certa: l’unico modo per ultimare il lavoro, nei prossimi giorni, rinunciando alla pizza con gli amici o dandomi malato al lavoro, è lasciare in sospeso molti di questi interrogativi tra l’esistenziale e l’enciclopedico, organizzando uno spazio neanche tanto piccolo dove piazzare i libri in stand by: quelli che proprio non so dove ficcare (il numero unico di una rivista, il testo di geografia del liceo che potrebbe ricordarmi com’era la situazione geopolitica d’allora, l’in-folio gigantesco che non posso tenere in verticale, il supplemento del giornale di domenica scorsa sulle migliori trattorie della capitale, i libri che devo restituire non so più a chi, quelli con la copertina terrificante, quelli che vorrei gettar via perché scritti da gente insopportabile ma proprio non ci riesco…). Un altro scaffale sarà dedicato ai libri da leggere prossimamente, un altro ancora a quelli lasciati a metà (senso di colpa? liberazione?), e poi quelli da recensire, quelli che devo leggere perché la persona che me li ha regalati me ne chiederà conto e ragione, quei due che parlano di giardinaggio, il manuale per il montaggio del robot-aspirapolvere, quelli che vorrei portare in ufficio, quelli che, tutto al contrario, sono le mie five stars… 

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Alzi la mano chi non ha vissuto qualcosa di analogo. Se non coi libri, poniamo, coi dischi, il guardaroba, i francobolli, le scarpe, i gioiellini, gli attrezzi per il bricolage, i rossetti e belletti, i medicinali, le cartoline da tutto il mondo, i vecchi carburatori del vespino, i vini biologici, le auto d’epoca, le foglie secche di varie forme, le stampe cinesi, le miniature medievali, i fidanzati, i generi letterari, i film iraniani, le fiabe russe… E i puntini di sospensione aumentano. Quel che a tutti, comunque, è accaduto è semplice: una volta stabiliti a monte i più sofisticati principi per metter ordine nelle proprie cose, come dire nella propria vita, alla fine della fiera c’è sempre un resto, qualcosa che sfugge alla classificazione, che trascende la tassonomia, privata o pubblica che sia, dando corpo a un luogo fisico o mentale dove collocare ciò che non si sa dove piazzare, un ornitorinco che, vagando fra cassettiere e scaffali e database d’ogni sorta, mette in discussione tutto quanto. Come sapeva bene Linneo, che, appunto, non avendo idea di dove collocare quello strano palmipede mammifero e pure oviparo, sudava freddo per la tenuta del suo sistema generale di classificazione degli esseri viventi esistenti in natura. (Il riferimento, sarà già chiaro, è al libro di Eco, lassù tra gli scaffali).

Tutto questo per dire che quel capolavoro involontario che è Pensare/classificare di Georges Perec è finalmente tornato in libreria (Quodlibet, pp. 165, € 15). Involontario perché riunisce post mortem, per la cura di Maurice Olender, una serie di testi brevi pubblicati su giornali e riviste fra il ’76 e l’82. Capolavoro perché – discettando di appartamenti e di libri, di occhiali e di sedute in analisi, di ricette di cucina e di abbigliamento – riesce a disegnare l’anello mancante che dall’infraordinario più banale porta alla metafisica più arzigogolata, dall’ordine di casa sua (mia, vostra, è lo stesso) giunge, implicitamente, fino al famigerato albero di Porfirio, riproposizione logica, si sa, dei principi basici della metafisica aristotelica, nonché apoteosi e sconfitta di ogni ordinamento prestabilito e perfetto dell’universo. 

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Secondo Perec, come sa il lettore di La vita: istruzioni per l’uso, il mondo è un puzzle: difficilissimo da realizzare, ma quand’è composto sembra ovvio, di modo che ogni singolo pezzo ha senso e valore solo nell’insieme. Così, leggiamo nel testo che dà il titolo al libro, “è talmente forte la tentazione di distribuire il mondo intero secondo un unico codice! Una legge universale reggerebbe l’insieme dei fenomeni: due emisferi, cinque continenti, maschile e femminile, animale e vegetale, singolare plurale, destra sinistra, quattro stagioni, cinque sensi, cinque vocali, sette giorni, dodici mesi, ventisei lettere”. Ma questa tentazione è destinata a rimanere tale: “purtroppo non funziona, non ha mai neppure cominciato a funzionare, non funzionerà mai”. Conclusione: “ciò non impedisce che si continuerà ancora per chissà quanto tempo a dichiarare l’appartenenza del tale o del talaltro animale a un determinata razza a seconda se ha un numero dispari delle dita o le corna ricurve”. La classificazione, in fondo, è un’utopia, tanto vale rendersene conto e accettare, da un lato, i suoi slanci ottimistici, e dall’altro, le sue disfatte. Motivo per cui, ne arguisce Perec, tutte le utopie sono deprimenti se si ostinano a non lasciar spazio al caso, a comporre tassonomie di fatto impossibili. Cosa che accade nelle migliori menti filosofiche come negli spazi domestici di chicchessia.

Eccolo dunque a ordinare con una certa ciclicità, racconta, la scrivania. Nessuno può permettersi di spolverarla tranne lui. Di modo che, quando è di buon umore, sposta tutti gli oggetti che ospita – dai portacenere al timbro per la ceralacca, dalle matite smozzate alle tazzine usate del caffè –, ripulisce la superficie di vetro e, momento fatidico, deve decidere quali e quanti di quegli oggetti rimettere sul tavolo e quali e quanti, invece, collocare altrove. Da cui un interrogativo basilare: meglio sgombra o intasata? La scrivania vergine fa tanto dirigente di ministero capace di esitare rapidissimamente le pratiche quotidiane. La scrivania colma di cose aiuta quanto meno a tener fermo il tavolo, generalmente in bilico, grazie al peso complessivo che assume una volta caricato di oggetti. Ecco dunque ulteriori domande: solo cose utili (matite, timbri, pennarelli, boccette d’inchiostro…) o anche no (cesoie, metro ripiegabile, forbicine per le unghie…)? Con un dubbio: utili in che senso? E la cosa va avanti per altre dieci pagine. 

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Replicandosi per le sedute dallo psicanalista (del quale vengono descritte con puntiglio le venature del soffitto), la biblioteca di casa (ricca di consigli per la mia prossima estate), le varie camere da letto abitate nel tempo (comprese quelle d’albergo) e così via, fra vita quotidiana e ponderazione filosofica, con la medesima dialettica fra slanci classificatori e constatazioni del loro fallimento. Alla fine, ancora una volta, ci sarà sempre una cartellina con su scritto “varie”, oppure “da ordinare” oppure ancora “urgente”, per le decine di cose che non si sa come organizzare. Non senza, a metà strada, una considerazione sulle grandi decisioni fra il politico e il commerciale: nella Grande Esposizione Universale di Parigi del 1900 (quella della Tour Eiffel), racconta Perec, gli oggetti esposti erano ripartiti in 18 gruppi: Educazione e Insegnamento, Opere d’Arte, Meccanica, Elettricità, Agricoltura, Miniere etc., riservando tuttavia il quindicesimo gruppo alle “Industrie diverse”, quelle che sfuggivano all’euforica classificazione ingegneristica. 

Ma in Perec c’è un altro gesto intellettuale – e insieme praticissimo – che accompagna quasi sempre la produzione di tassonomie: è la combinatoria, il disporre le cose classificate, a partire da una qualche regola (arbitraria e necessaria come tutte le regole), una accanto all’altra, in modo da produrre, a partire da un numero limitato di elementi, una serie pressoché infinita di casi singolari. Come nella lingua, sa bene l’enigmista-scrittore che usa rigorose contraintes per inventare storie su storie; come anche nella moda e nella cucina, le quali, senza saperlo, si comportano esattamente come i sistemi linguistici. C’è per esempio un geniale capitolo del libro dedicato al prêt-à-porter e, soprattutto, al modo di nominarlo nelle riviste di settore, dove è tutto un florilegio di giacche a girocollo, flanella di pura lana vergine, gonne in sbieco, pantaloni in acetato melange, disegni jacquard, plissés soleil, mussole stampate etc.: pochi elementi che si ripetono sempre uguali, modificando i loro accostamenti in modo da produrre quel fenomeno inesauribile che, appunto, chiamiamo moda. (E il Sistema di Barthes, dall’alto della sua polverosa postazione, approva compiaciuto).

Commuove il capitolo (purtroppo poco letto dai gourmet) sui modi di produrre le ricette di cucina e, con esse, i piatti relativi. A partire da tre soli ingredienti (sogliola, coniglio, animelle), qualche contorno (ratatouille, pomodori, lardo), qualche spezia e due sole tecniche di cottura (in casseruola, al forno), Perec crea – è il titolo del testo in questione – “81 schede-cucina a uso dei principianti”. Tutte, a ben vedere, d’ottimo gusto. A quando un ristoratore che ci si metta seriamente? 

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Così, ciò che poteva apparire come il sintomo di una sconfitta – la fluttuazione continua dei metodi di classificazione, dunque l’impossibilità di una tassonomia stabile ed esaustiva – finisce per diventare un’opportunità letteraria, là dove la scrittura incontra la memoria, dispiegandola e insieme trascendendola. È la vecchia tecnica dell’enumerazione, una delle figure retoriche (anch’esse tutte da riclassificare…) più note e creative, che dall’elenco delle navi dell’Iliade arriva quanto meno fino ai tipi di balena secondo Melville e alla catalogazione dei tori di Hemingway. “La scrittura contemporanea – ricorda Perec –, salvo qualche rara eccezione (Butor), ha dimenticato l’arte di enumerare: le liste di Rabelais, l’enumerazione linneiana dei pesci in Ventimila leghe sotto i mari, l’elenco dei geografi che hanno esplorato l’Australia nei Figli del capitano Grant…). Da qui tutta una tirata sui termini della neve presso gli esquimesi (ma quanti modi ha l’inglese per nominare lo spazio fa una casa e l’altra? almeno una trentina) o per la celebre enciclopedia cinese degli animali inventata da Borges e prontamente ripresa da Foucault (sento parecchi volumi fremere felici) che Perec riscrive di sana pianta: “animali sui quali scommettere, animali che è proibito cacciare, quelli in comproprietà, i cani per ciechi, animali impagliati, cani perduti senza collare, quelli che possono viaggiare in cabina etc.”, dove anche l’“eccetera” è parte integrante del catalogo.

In ogni enumerazione, secondo Perec, affiorano due tentazioni opposte: da un lato voler censire tutto, dall’altra dimenticare qualcosa, confermando l’idea per cui nulla al mondo è talmente unico da non poter essere inglobato in una qualche serie e, una volta lì, essere equiparato e insieme distinto da altre entità consimili. “L’enumerazione mi sembra che sia, prima di ogni pensiero (e di ogni classificazione), il segno indiscutibile di questo bisogno di nominare e riunire, senza il quale il mondo (la vita) rimarrebbe per tutti noi privo di storia”. Torniamo così al punto di partenza, dove emerge adesso, in tutto il suo ambiguo splendore, la vertigine della lista. (Ma dove sarà finito quest’altro libro di Eco?).

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TAGGED: Georges Perec

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