Antropologa, deportata, attivista politica / Ritratto di Germaine Tillion

18 Aprile 2016

Nel secolo dell’estremo, alcune figure esemplari hanno cercato di contrastare il male senza ricorrere alla violenza, ma trasformando valori morali in virtù politiche. Sono le figure su cui si sofferma Tzvetan Todorov in Resistenti (Garzanti, 2016), Gandhi e Mandela, Pasternak e Solzenicyn; e se il primo capitolo spetta a Etty Hillesum, il secondo è dedicato a Germaine Tillion, entrambe non hanno lasciato che l’odio avesse l’ultima parola di fronte alla barbarie nazista. È attraverso i libri di Todorov che in Italia abbiamo cominciato a conoscere la straordinaria voce dell’etnologa scomparsa nel 2008, varcato il secolo di vita. In Memoria del male, tentazione del bene (Garzanti, 2000), Todorov poneva Germaine Tillion accanto a Primo Levi, a Romain Gary, a Vasilij Grossman, a Margarete Buber-Neumann, a David Rousset: tutti avevano attraversato il male facendosi lucidi testimoni delle tragedie del Novecento ed insieme conservando il senso profondo della dignità degli esseri umani. Todorov aveva anche curato la prefazione di Alla ricerca del Vero e del Giusto (tradotto dalle edizioni Medusa nel 2006), raccolta di saggi che consentiva di conoscere l’intero cammino, di studi teorici e di interventi pratici, percorso da Germaine Tillion. Ed ora Medusa con Attraversare il male, la conversazione che Jean Lacouture ebbe con lei nel 1997, ci offre un modo agile di accostarsi alla studiosa francese. 

 

Nata nel 1907, Germaine Tillion segue i corsi di etnologia di Marcel Mauss che le consiglia di partire per la regione berbera, fra le montagne dell’Aurès, per fare la sua pratica etnografica. Dal ’34 svolge qui il suo lavoro sul campo, venendo ricevuta ovunque come una di famiglia, provando sempre una sensazione di sicurezza, ricorderà lei stessa. Terre povere, in cui si viveva comunque dignitosamente, dove le donne circolavano liberamente senza portare il velo. Come avrà modo di osservare quando tornerà in Algeria negli anni Cinquanta, il velo è un fenomeno che accompagna l’urbanizzazione, è il tentativo di ritrovare un’identità nel decomporsi dei modi di vita tradizionali della società magrebina. Da quelle analisi verrà L’harem e la famiglia (Medusa, 2007), studio comparativo dal quale emerge che nelle culture mediterranee le strutture familiari, senza differenza fra Occidente e mondo arabo, hanno in comune dal Neolitico la pratica di tenere chiuse in casa le donne, che si sono adattate alla situazione ottenendo in cambio la cura dei figli. Il matrimonio endogamico diffuso nel mondo contadino, dove la ragazza si sposa in genere con un cugino, è un modo per proteggere le figlie o le sorelle dai capricci del marito, perché la figlia sposata rimane sotto la protezione del padre e dei fratelli.

 

Quando torna nella Francia sconfitta il 9 giugno del ’40, Germaine Tillion accoglie subito l’invito alla resistenza del generale De Gaulle (per il quale manifesterà in più occasioni il suo apprezzamento). Non esita a collaborare ad organizzazioni che si impegnano clandestinamente nell’aiuto a quanti rischiano di finire in carcere; è in prima fila nella rete che sarà poi detta del Musée de l’Homme, dove ha accanto altri allievi di Mauss. Arrestata per il tradimento di un sacerdote cattolico, viene condotta nella sede parigina della Gestapo. Era il 13 agosto del 1942, venerdì 13, e di fronte all’aria trionfante dei poliziotti tedeschi lei si ricorda la storiella che ha sentito in Africa; un pescatore dice ad un altro: «Bisogna traversare a nuoto per andare a prendere la barca», «Se traversiamo a nuoto – risponde il secondo – il coccodrillo ci mangerà», «Dio è buono», dice il primo. «Sì, ma se Dio è buono con il coccodrillo?» risponde il secondo. Dio quel giorno stava dalla parte del coccodrillo, le viene da pensare con tristezza, ma senza paura, ed è un pensiero che le restituisce sangue freddo. Un aneddoto significativo dell’atteggiamento nei confronti dell’esistenza e del modo di pensare della Tillion; il riso, la capacità di cogliere il risvolto comico del dramma, contribuisce a prendere distanza, a guardarsi dall’esterno, come farebbe appunto lo sguardo dell’etnologo. È un atteggiamento di cui si trova traccia in un volantino di propaganda redatto nel 1941 in cui lei invita alla resistenza: “Noi pensiamo che l’allegria e il buon umore costituiscano un clima intellettuale più tonico dell’enfasi lacrimosa. Abbiamo intenzione di ridere e di scherzare e riteniamo di averne il diritto, poiché ci siamo impegnati con tutto ciò che abbiamo nell’avventura nazionale”.

 

Passa cinque mesi in cella d’isolamento, subisce continui interrogatori, ma senza fare i nomi dei compagni (alcuni dei quali saranno condannati a morte); anche la madre, per aver dato ospitalità a soldati inglesi, è condotta in carcere, dove intanto Germaine con un mozzicone di matita prende nota degli eventi su un’Imitazione di Cristo che il cappellano tedesco le ha donato. Viene deportata a Ravensbrück, a nord di Berlino, nell’ottobre del 1943, nel convoglio composto da prigioniere NN, Nacht und Nebel, cioè Notte e Nebbia dal nome del decreto emanato da Hitler il 7 dicembre 1941, in seguito all’entrata in guerra degli Stati Uniti, e ispirato ai versi de L’oro del Reno di Wagner: Alberich, indossando l’elmo magico, si trasforma in colonna di fumo e scompare cantando “Notte e Nebbia, nessuno resta”. Le due N, stampate sulla schiena della divisa carceraria, classificavano i prigionieri dei lager condannati a morte ma ancora in attesa di esecuzione. Ravensbrück era un campo di concentramento solo femminile, con prevalenza di detenute politiche, dove camere a gas e forni crematori vennero costruiti alla fine del ’44. Vi transitarono circa 125.000 donne e furono più di 80.000 a morire, spesso inviate in altri campi nei cosiddetti “trasporti neri”. Nell’infermeria del campo, vennero praticati su giovani ragazze soprannominate Kaninchen, le conigliette (da laboratorio) esperimenti “scientifici”, inoculando in ferite procurate chirurgicamente sulle gambe i germi della cancrena.

 

Germaine Tillion, appena giunta a Ravensbrück, si ammala e, grazie a deportate ceche, reduci da Auschwitz, che la assistono, viene a sapere dello sterminio e del meccanismo di sfruttamento schiavistico dei campi. Superata la sensazione di morte e l’orrore per quel mondo d’incoerenza, “più terrificante delle visioni di Dante e più assurdo del gioco dell’oca”, riprende a svolgere sul campo, nel campo-lager, la sua pratica di etnografa: s’informa, interroga, pone domande mirate alle autorità intermedie tra le SS e le deportate, alle kapò, sorveglianti dei blocchi, impiegate negli uffici, che nei campi femminili erano in genere politici e non criminali comuni. In breve tempo, comprende gli scopi e i meccanismi del Lager, e sul tema tiene, nel marzo del ’44, una sorta di conferenza alle compagne di lingua francese. “Un certo proprietario di terreni incolti di nome Himmler rendeva a un tal Himmler, capo della polizia, il servizio di liberarlo definitivamente dai suoi nemici. In cambio, l’Himmler capo della polizia forniva, a tempo indefinito, all’Himmler proprietario dei bei dividendi sotto forma di bestiame umano, per sostituire quello che lui consumava a ritmo accelerato. Che meraviglioso utilizzo di terreni incolti e paludosi per un capitalista: dove non cresce niente basta installare un campo di concentramento ed ecco una vera e propria miniera d’oro!”

 

Il passo è tratto da Ravensbrück che, apparso subito dopo la fine della guerra, ebbe una seconda edizione arricchita nel 1972 ed una terza nel 1988 (Fazi Editore, 2012). Il libro nasce dalle note che Germaine Tillion prende di nascosto: liste con i nomi dei responsabili SS del campo, ruoli e caratteri, quasi fosse davanti ad una tribù retta da codici di comportamento e relazioni gerarchiche. E fa lo stesso anche per il gruppo delle deportate cui appartiene, ne indaga le relazioni umane e i rapporti di forza; anche l’inferno in apparenza irrazionale di Ravensbrück obbedisce a regole e norme, assurde e atroci, che delineano il volto di una società stravolta. Fare uso della ragione non è solo una vocazione profonda della nostra specie, diventa anche una forza: “La nostra sopravvivenza non era prevista. Non pensavo a nessun libro ma ho subito cercato di capire il ‘loro sistema’ e l’ho smontato per le mie compagne, per proteggerle; ho preso nota dei nomi delle principali SS del campo camuffandoli in ricette da cucina”. Molte compagne preferivano negare la realtà, lasciarsi cullare dalle chimere di una liberazione imminente, non vedere il destino delle malate dei “trasporti neri”, illudendosi che fossero partite per campi di convalescenza. “Comprendere un meccanismo che vi opprime, dimostrarne razionalmente gli ingranaggi, rappresentarsi nel dettaglio una situazione apparentemente disperata, aiuta moltissimo a trovare sangue freddo, serenità e forza d’animo. Niente è più spaventoso dell’assurdo. Con questa caccia ai fantasmi sapevo di aiutare moralmente le migliori di noi”. 

 

 

 

La pratica della comprensione, mestiere dell’etnologo, accompagna la deportata, ha osservato Todorov; nell’orrore del campo, occuparsi del mondo (e degli altri) aiuta a resistere. Ma alla passione di capire si unisce una visione ironica delle cose, uno humour che ancora scintilla nello sguardo e nel sorriso del ritratto in copertina ad Attraversare il male. Primo Levi, nella Ricerca delle radici, poneva accanto alla “salvazione del conoscere” la “salvazione del riso”: e Germaine Tillion ha saputo dar voce alla dimensione salvifica dell’umorismo fin nelle atrocità del campo d’annientamento. Nel corso del mese di ottobre del 1944, vedendo le compagne perdere la speranza in una prossima liberazione, scrive un’operetta, Le Verfügbar agli inferi. Anche lei, come gran parte delle NN, era verfügbar, cioè a disposizione delle S.S, non integrata in un kommando di lavoro, ma utilizzata in genere per estenuanti lavori di terrazzamento. Grazie ad un “repertorio di astuzie, di rifugi e di complicità sufficienti per amministrare una provincia asiatica”, la Tillion, protetta dalle compagne, passa giorni a scrivere nascosta in una cassa d’imballaggio fra i beni saccheggiati dai nazisti nei territori occupati o prelevati dai deportati. L’operette revue descrive con ironia e humour nero, talora con straniante epica brechtiana, la vita delle “disponibili”, affidando la presentazione a un Naturalista che, nelle vesti di conferenziere scientifico, presenta la nuova specie animale come farebbe un entomologo con un insetto sconosciuto. La descrizione della fisiologia, della vita e dei costumi del verfügbar s’intreccia con l’esperienza personale della Tillion: i diversi periodi della vita del verfügbar, “prodotto della congiunzione di un gestapista maschio con una resistenza femmina”, si succedono a partire dallo stadio embrionale, che corrisponde all’arresto, “primo periodo detto unicellulare [cellule in francese è sia la cellula che la cella] o a carattere segreto. Il giovane embrione viene introdotto da suo padre in un’incubatrice gelata dove lo si sottopone periodicamente alla prova dell’acqua, del pugno in faccia e del nerbo di bue”. All’incarcerazione con altre detenute, periodo pluricellulare, segue il trauma dell’arrivo al campo trasposto in trauma della nascita. Una deportata malata chiede che ci si occupi meglio di lei, ma il coro delle verfügbar la mette in guardia: “Basta! Ha diritto alla carta rosa e al trasporto nero …” e lei risponde: “Per me è lo stesso … Andrò in un campo modello, con tutti gli agi, acqua, gas, elettricità”, e il coro: “Gas soprattutto …”. Il tutto è alternato a canzoni sulla musica di arie d’opera e operetta, motivi famosi negli anni ’30, da Strauss a Bizet, dall’Orfeo di Gluck ai canti scout. L’operetta circola clandestinamente, le compagne ne cantano le canzoni durante le marce, alla sera nelle baracche: “Ridevamo … ridevamo”, ricorda Tillion, un riso catartico con cui le vittime, diventate spettatrici ed attrici della propria vita, uccidono di risate la paura e la morte. 

 

In Ravensbrück confluiranno poi le indagini che Tillion compie immediatamente dopo la liberazione, interrogando le trecento compagne assistite dalla Croce rossa in Svezia. Riesce così a ricostruire la lista quasi completa dei treni partiti dalla Francia per il Lager, spesso vagone per vagone, con nomi e numeri delle vittime, e poi la lista dei testimoni che hanno visto morire le deportate, sorte toccata anche alla madre nel marzo del ’45. Vi sono i nomi dei carnefici, del gestore del campo, Suhren, del medico che compiva esperimenti sulle ragazze cavie, e i loro crimini, su tutti quelli di Kurt Heinrich Himmler, “una bestia notturna che nasconde le sue tracce, o un impiegatuccio arrivista, ottuso e meticoloso, accidentalmente investito di mezzi sproporzionati rispetto alla sua mediocrità? Se si propende per la seconda ipotesi (ed è il mio caso), c’è di che aver davvero paura, perché quel ventre è ancora più fecondo di quello della Bestia”. Il capitolo dedicato ad Himmler in Ravensbrück ha per titolo “I mostri sono uomini”, a conferma della scomoda verità ribadita da Hanna Arendt e Primo Levi: il più atroce crimine della storia è stato compiuto per lo più da gente comune, zelanti burocrati ligi al dovere, uomini “normali” asserviti ad un sistema totalitario, ed è su quest’ultimo che grava la colpa principale. 

 

Tra il 1945 e il 1954, Tillion si dedica a raccogliere documenti scritti, sparsi negli archivi dei tribunali che giudicarono i criminali nazisti o accatastati tra le scartoffie della Gestapo e dell’Abweher, per farli combaciare con le testimonianze delle ex deportate. Ben presto l’etnologa cede il posto alla storica: sente il dovere verso i compagni della resistenza e della deportazione di stabilire i fatti, e poi di capire come gli agenti del male abbiano potuto giungere a tanto. È una scelta dolorosa: “abbandonare provvisoriamente le culture africane (che amavo) per la storia della decivilizzazione dell’Europa (che mi faceva orrore)”. Documenti che saranno fondamentali nei processi contro i carnefici, a cui Tillion partecipa come delegata dell’associazione delle ex deportate, materiali per stabilire la verità e consentire alla giustizia di fare il suo corso. Gli ex deportati, che hanno attraversato il male, meritano riparazione, ma l’esperienza subita impone loro di condividerne la lezione con gli altri, e dunque “non potevamo disinteressarci della sorte di chi soffriva ciò che noi avevamo sofferto”. E così, quando David Rousset, reduce da Buchenwald, promuove una Commissione d’inchiesta sui campi sovietici e dei paesi satelliti (ma anche sulle condizioni detentive nella Spagna franchista, in Grecia, nella Cina maoista), Germaine Tillion aderisce subito. Già dal ’36, Marcel Mauss l’aveva informata degli stermini per fame avvenuti in Ucraina, e fra le sue compagne di Ravensbrück vi era Grete Buber-Neumann, che aveva conosciuto il gulag staliniano prima di finire nel lager. Tillion non nascondeva le differenze fra i due metodi: i sovietici non hanno messo scientificamente in cantiere un genocidio in nome della superiorità della razza, anche se il calcolo globale delle vittime dei due mostri ... È l’esigenza della verità ad essere determinante, al di là di qualunque considerazione ideologica o nazionale; all’amica comunista ed ex deportata che la rimprovera di fare il gioco dei conservatori, risponde: “Se trovo qualcosa di male fatto dal mio paese, con tutte le forze cercherò di impedirlo. Perché vuoi che faccia per l’Unione sovietica più di quanto farei per la Francia?”. 

 

Nell’estate del 1954, anno della rivolta algerina, è il suo ex professore Louis Massignon a chiederle di partire in missione, “per essere sicuri che la popolazione civile non venga toccata”. Subito avverte la caduta verticale del livello di vita rispetto agli anni Trenta; la crescita demografica ha indotto le famiglie ad abbandonare le campagne per cercare lavoro in città, nella miseria delle periferie. A questa condizione che chiamerà di “clochardizzazione”, Tillion cerca di rispondere promuovendo la nascita di Centri sociali; con l’aiuto del suo ex collega Jacques Soustelle, ministro dell’Algeria, cerca di salvare le famiglie dal degrado fornendo loro l’istruzione e le competenze che permettano di vivere dignitosamente in città. Lei, illuminista disillusa da quanto la civile Germania aveva potuto scatenare, continua a confidare nel valore dell’educazione dei giovani e soprattutto delle donne. Ma dal gennaio del 1957, il governo francese affida all’esercito poteri di polizia e nelle prigioni sono ora i resistenti algerini a subire torture ad opera di compatrioti francesi. La lotta di liberazione risponde alle esecuzioni capitali con attentati terroristici anche sulla popolazione civile: al posto del nemico “assolutamente intollerabile” che aveva occupato la Francia, ora Tillion si trova di fronte a “nemici complementari”, come dice il titolo di un suo libro. Non si tratta di schierarsi da una parte o dall’altra, quella del Fronte di liberazione nazionale o dell’Algeria francese, ma di trovare il modo affinché i due paesi possano intendersi, e innanzitutto di salvare vite umane. In una posizione scomoda, che dalle due parti viene considerata un tradimento, ma con l’appoggio di Camus (che ben conosceva la questione algerina), coraggiosamente Tillion accetta il compito di fare da ponte tra i “politici” dell’una e dell’altra parte. I capi militari del FLN la contattano, lei riesce a fermare gli attentati in cambio della cessazione delle esecuzioni capitali e della tortura; la tregua dura solo tre mesi, poi l’esercito francese riprende le sue pratiche violente. Ma intanto è riuscita a salvare un certo numero di vite umane, francesi e algerine, approfittando delle sue relazioni per tentare di strappare al patibolo qualche condannato.   

 

Dopo la fine della guerra d’Algeria, nel 1962, Germaine Tillion ritorna alla sua attività di insegnante e di ricercatrice all’École Pratique des Hautes Ètudes, dove viene eletta direttrice. Ma lei che ha compiuto la “traversata del male” non può abbandonare l’impegno politico e morale al tempo stesso; collabora con organismi internazionali che si dedicano alla lotta contro la miseria, s’impegna per eliminare i residui del sistema schiavistico in diversi paesi dell’Africa. Avendo provato sulla propria pelle il fastidio che possono procurare le “cimici francesi”, approfitta di un incarico temporaneo al Ministero dell’Educazione per rendere accessibile l’istruzione nelle prigioni. Si batte, schierandosi decisamente contro il mondo cattolico, a favore del controllo delle nascite, contro l’escissione femminile e i matrimoni imposti alle ragazze in tanti paesi. Ma quel che conta sempre più per lei non sono le cause in nome delle quali si lotta, perché le cause non sono eterne, “eterna (o quasi) è la povera carne sofferente dell’umanità”, che non ha bandiera. Se ha perso la fede dopo le prove della deportazione, “ha conservato le altre virtù teologali, la speranza e la carità”. Nel 2000, in un breve scritto che chiude Alla ricerca del vero e del giusto, ripreso da Goffredo Fofi nella premessa ad Attraversare il male, Tillion ricordava che il lascito fondamentale del cristianesimo è “il ruolo primario attribuito alla compassione, poiché i Vangeli la pongono al di sopra anche della giustizia”. 

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