Narrare / Robert Morris: prima di morire

25 Dicembre 2019

Robert Morris è sicuramente uno dei grandi artisti degli ultimi sessant’anni. Scomparso l’anno scorso, il 28 novembre, era talmente esasperato dalle continue domande sul minimalismo con cui era stato identificato e sul perché aveva poi deviato da quella strada che ha scritto una lettera aperta di “indisponibilità” ai critici e giornalisti.

Ricordo ancora quando vidi per la prima volta a metà degli anni ottanta in una mostra a New York le sue opere con teschi e ossa in bassorilievo, tutti neri, con enormi cornici. Erano in mostra insieme a dei Richard Serra e dei Bruce Nauman, così discordanti dai lavori degli altri due. Mi fecero un grande effetto. Erano gli anni del successo dirompente della Transavanguardia e della New Image, Picture Generation, Neo-Geo, e la sua opera davvero apparve come una sterzata sorprendente. Era noto come minimalista della prima ora, quello delle L-beams uguali ma disposte in tre modi diversi nella mostra alla Green Gallery del 1964, poi dell’Antiform, certo anti, ma pur sempre nella scia di riflessione sulla form, quindi come dire post-minimalista.

 

Poi si cominciò a parlare dei suoi lavori precedenti il 1964, quelli con Simone Forti, minimalisti ma con una forte implicazione del corpo, e quelli pre-concettuali, scatolette con varie cose dentro. Georges Didi-Huberman rese famose Column e Box for Standing, del 1961: dei parallelepipedi in effetti, ma contenenti un uomo, all’occasione l’artista, che faceva cadere la prima e stava nella seconda come in una bara verticale aperta. Anche i feltri “cadevano” e insomma le forme minimali rivelavano un’ossessione che non era per niente minimalista, quella dell’entropia, per usare un termine scientifico adatto all’Antiform, quella della morte, per usarne un altro esistenziale.

 

Personalmente inseguii le tracce di un’opera che mi colpì di nuovo in modo particolare, anche perché pochissimo ricordata. La vidi nella mostra parigina L’art conceptuel: une perspective, nel 1989. Si tratta di Dichiarazione di ritrattazione estetica, del 1963. Davvero singolare, consiste in un’opera in piombo come ne faceva in quell’anno ma accompagnata da un atto notarile in cui l’artista dichiarava che quella non era più da considerarsi un’opera d’arte. Tornava dunque, o diveniva, un oggetto tra oggetti: l’opposto di un readymade! Un caso unico, che io sappia: caduta, entropia dell’opera e dell’arte stessa. Sua morte? Sì, ma al tempo stesso restituzione alla realtà, e forse altro ancora.

Così le ultime opere di Morris, ora esposte alla Galleria Nazionale di Roma nella mostra intitolata Monumentum. È una grande installazione, pensata dall’artista prima che morisse, che raggruppa le opere dei suoi ultimi anni. Sono soprattutto delle figure umane in varie situazioni, la cui particolarità comune è la sparizione del corpo, restando solo i tessuti vuoti che li avvolgevano, ora irrigiditi o fusi in altro materiale. 

 

Sono disposti in composizioni diverse, da Keep it to yourself (2014-15), esplicita e significativa indicazione: “Tientelo per te”, a Dunce I e II, che stigmatizzano l’ignoranza, che fanno parte della serie intitolata Moltingsexoskeletonsshrounds, dove è questione di sesso, esoscheletri e di muta e mutazione; a Criss-Cross (2016), incrocio di corpi che, è stato notato, sostituisce con corpi i segni dell’allover dell’Action Painting; a Out of the past (2016), vera e propria danza di fantasmi, e a Dark passage (2017-18), l’ultima opera, quella prima dell’“oscuro passaggio”.

 

Photo Anton Giulio Onofri
 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.


Il tema è certamente ed esplicitamente quello della morte, un tema difficile, se non propriamente impossibile (di fronte alla quale siamo tutti dei “somari”). Lo è da tanto tempo nell’opera d Morris, fin dall’inizio nel senso che abbiamo accennato sopra, ma ora in particolare in quello “monumentale”, come giustamente dice il titolo dell’allestimento romano. Ha dichiarato che il momento topico è stata la visita al monumento funebre a Alessandro VII del Bernini alla fine degli anni ’70, con quello scheletro nero sotto un enorme panneggio di marmo. Ma la morte è stata per i decenni seguenti il tema centrale di una riflessione sulla violenza e i mali del mondo, di fronte ai quali Morris non sentiva di poter fare un’arte che non li affrontasse. Come sintesi del suo pensiero al riguardo si veda una delle pochissime interviste e interventi scritti che è stato possibile strappare alla sua indisponibilità, che sono nel catalogo del suo intervento a Reggio Emilia, nei chiostri di San Pietro, Less than (Gli Ori, 2005).

 

Sono passati più di dieci anni da quel “monumento”: un corpo cavo e senza la parte superiore, testa e braccia, piegato sotto il peso dell’anfora di Pandora, sotto l’enigmatico sguardo interrogativo dei cavalli che scandiscono un lato del chiostro e hanno scatenato, a detta dell’artista, l’idea stessa dell’opera; i “mali”, quanto ad essi, si manifestano sotto forma di rumori molesti emessi da altoparlanti al calar del giorno, di ogni giorno.

Da allora la morte è diventata però anche un problema personale. Passati gli ottant’anni il pensiero dell’imminenza della propria morte diventa pressante. L’ultimo ciclo forse segna proprio questa riflessione. Le opere più vecchie inscenano ancora situazioni che rimandano alla riflessione sui mali del mondo, con riferimenti a Mantegna, a Goya, a Abu Graib (almeno mi pare nei cappelli a punta dei personaggi) e così via. Le due più recenti per me sono quelle che chiamerei opere “ultime”, cioè realizzate con la consapevolezza che siano le ultime, propriamente prima di morire. Una riflessione dunque sulla morte individuale.

 

Photo Anton Giulio Onofri
 © Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.


Giustamente Cincinelli incentra il suo testo in catalogo sulla tecnica del calco e sulla nozione di “impronta”, che cortocircuita il qui e ora con il là e allora, il risultato con il processo, la fine con l’origine, il non più con il non ancora, l’apparizione con la sparizione. Federico Ferrari da parte sua rileva il titolo dell’ultima serie, Boustrophedon, e lo commenta come pensiero bustrofedico della morte, “movimento ritmico, di andata e ritorno, attraverso cui la vita riconosce il proprio doppio e il proprio sempre nuovo senso o non-senso”, ma per lui la sparizione-rimozione del corpo, del corpo morto, è la “prova inconfutabile del non mantenimento della promessa”: scomparso il corpo, appare la pura angoscia, la “tragicità della mancanza di appigli”.

 

Azzardo un’ulteriore interpretazione. Con “opera ultima” vorrei riferirmi al fatto che l’artista, pur essendo concentrato sul pensiero della morte imminente, comunque non rinunci a realizzare ancora un’opera, ancora una, forse quella decisiva, quella in cui riuscirà a mettere finalmente davvero in gioco tutto. Penso sempre a questo proposito a un testo, bellissimo, che dice come meglio non si potrebbe questo pensiero, cioè Così sia di André Gide, il quale, giunto appunto alla soglia della fine, scrive: sto per morire, ma voglio tentare ancora una volta di dire quello che non ho detto fin qui. Ancora una, ancora un’ultima, perché ultima porta sempre l’articolo indeterminativo.

 

Non si tratta qui del rinvio della morte, secondo il paradigma di Sherazade. Qui non si tratta di narrazione. Ma il rimando alla scrittura non è arbitrario, visto che il titolo stesso del ciclo di Morris la chiama in causa. Ebbene, la scrittura bustrofedica è quella delle tavolette antiche che procede in un senso fino al margine scrittorio e prosegue a ritroso nella direzione opposta, secondo un procedimento "a nastro", senza "andare a capo". È insomma evidentemente una metafora dell’idea di morte che Morris propone, un “passaggio oscuro” ma un “passaggio”, non una fine: il rapporto tra vita e morte ha forse un andamento bustrofedico, i fantasmi sospesi di Out of the past e i penitenti di Dark passage sono lì a suggerircelo, senza direzione e in tutte le direzioni. È come se Morris si sia guardato già dal dopo, abbia inteso cioè che ogni monumento è sempre postumo. In fondo, anzi, ogni opera è sempre postuma, come alla fine ci ha insegnato Duchamp.

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