La storia di Gianni Brera

7 Febbraio 2016

“Io triumphe, avventurata Italia”. Così Gianni Brera celebrava, il 13 luglio 1982, il terzo campionato del mondo vinto dalla nostra Nazionale. Era anche un trionfo personale perché fu l’apoteosi del calcio “all'italiana”, una categoria critica inventata dallo stesso Brera, meglio noto come “contropiede”, altro neologismo di conio breriano. Il giornalista aveva allora 63 anni, scriveva per «Repubblica», ed era considerato il principe dei cronisti sportivi. Sarebbe vissuto altri dieci anni, ma quello fu lo zenith di una carriera cominciata oltre quarant'anni prima e proseguita, con meno smalto, dopo il 1982.

 

Dopo di allora cambiò il calcio con l'arrivo sempre più massiccio degli stranieri, le novità (positive e negative) portate dal Milan di Berlusconi e Sacchi, ma forse lo stesso Brera pagò il dazio di una vita vissuta senza risparmio.

 

Classe 1919, figlio di un sarto povero di area pavese inurbato a Milano, dopo la maturità scientifica si laurea in Scienze Politiche a Pavia, – si veda l'ottima voce sul DBI. Un accidentato percorso di guerra si conclude con l'adesione alla Resistenza, ma con un passaggio anche nei giornali della Repubblica Sociale. Dal 1949 è un giovanissimo direttore della «Gazzetta dello Sport», fino al brusco licenziamento nel 1954. Proprio in quell’anno Mario Soldati scrive: “Nessuno, neanche all’estero, sa raccontare una partita come Gianni Brera”. Sono gli anni in cui introduce la critica nei giornali sportivi e la dota di un linguaggio dai requisiti tecnici fino ad allora ignorati. La sua grande ora arriva però negli anni Sessanta – si potrebbe dire che Brera è, se non un artefice, un cantore del boom economico – quando scrive per «Il Giorno», insieme a un’affiatatissima redazione sportiva (Mario Fossati, Gianni Clerici e tanti altri) e per il «Guerin Sportivo». Sulle colonne del «Giorno» il calcio viene personalizzato attraverso un teatrino di personaggi in cui spicca «l’abatino» Gianni Rivera o Gino Palumbo, il giornalista napoletano esponente della scuola offensivista avversa a Brera. Ognuno è battezzato con un soprannome che fa epoca: Gigi Riva è «Rombo di tuono» per citare solo il calciatore più amato dal giornalista. «L’Arcimatto», la rubrica di extravaganze sul «Guerino», insieme alla posta con i lettori, è dove probabilmente si rintraccia il miglior Brera. Qui nasce una prosa personalissima, in presa diretta sulla realtà. Come scrisse più tardi: “Urge inventare una lingua, l’italiano è liso, il dialetto è povero”. La lingua di Brera è un saporitissimo impasto di dialetto lombardo, di trascrizione del parlato, di un italiano inzuppato nel Naviglio. Umberto Eco scrive di un “Gadda spiegato al popolo”. Il Nostro ne ha male. In effetti è un’approssimazione brillante, ma errata. Una piccola mostra documentaria (Laboratorio Formentini per l’editoria, via Formentini 10, Milano) e un prezioso catalogo (Storia di Gianni Brera 1919-1992 a cura di Franco Contorbia, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 15 euro) servono a fare il punto su quello che appare oggi il miglior giornalista italiano della seconda metà del XX secolo. L’Hic et nunc di Biagi e Montanelli è scolorito, Giorgio Bocca ancora si difende, soprattutto nei libri e negli articoli degli anni Sessanta, mentre su Gianni Brera non si smette di studiare (le carte sono presso la Fondazione Mondadori) e si continua a leggerlo per i romanzi migliori (Addio bicicletta) e nelle antologie di articoli. Nella mostra sono esposte le lettere di ringraziamento di alcuni letterati dell’epoca. Se alcuni appaiono consenzienti (Chiara, Giudici e, con più moderazione, Sereni), altri sono come travolti da tanto furore stilistico (Cassola) o diminishing (Tobino, che scrive di un “tenero e popolare dialetto della domenica”). In effetti il miglior Brera, tranne forse per la biografia romanzata Coppi e il diavolo (1981, ma con due redazioni precedenti), è nelle pagine dei quotidiani, ma la qualità dei suoi esegeti (Massimo Raffaeli in primis)  e dei suoi eredi (Gianni Mura) fanno pronosticare (anche se Brera diceva che i pronostici non li sbaglia solo chi non li fa) un interesse che proseguirà nel tempo per chi cercherà tracce del costume di un ventesimo secolo che si va via via allontanando.

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