Rumore bianco da DeLillo a Baumbach

26 Gennaio 2023

Si dice che i grandi autori finiscono per scrivere sempre lo stesso libro: sembra vero, riprendendo in mano Rumore bianco di Don DeLillo (1985), ora che è uscito su Netflix il film omonimo di Noah Baumbach, che ha inaugurato l'ultima Biennale Cinema a Venezia (2022). Confrontandolo con Il silenzio (2021), il racconto lungo dello scrittore americano, si ritrovano la critica al capitalismo, la fissazione per le catastrofi, la mercificazione generalizzata, anche dei sentimenti, con la conseguente messa in crisi delle relazioni. E i grandi registi fanno sempre lo stesso film: sembra che sia così, ripensando a Marriage Story di Baumbach (2019), legato a Rumore bianco anche dalla presenza del protagonista di tutti e due, Adam Driver.

L'impressione è che a Baumbach interessino più che altro i rapporti umani e che le distopie su un presente catastrofico che intrigano DeLillo non siano che lo scenario adatto a raccontare la corruzione dei nuclei familiari, attaccati dall'ansia per la precarietà della vita e dalla onnipresente paura della morte. Scorrendo la biografia del regista non si può non soffermarsi sul suo primo matrimonio fallito: chi abbia vissuto una separazione e un divorzio, con un figlio di mezzo, li ritroverà dissezionati, con la precisione comune a tutte le storie finite, in Marriage story; e salta agli occhi che la protagonista di Rumore bianco sia l'attuale compagna di Baumbach, Greta Gerwig, in una sorta di contaminazione tra fiction e realtà.

Baumbach fa già parte della ristretta cerchia dei cineasti contemporanei più interessanti, quelli che mischiano all'invenzione l'autobiografia e le ossessioni personali, l'Almodovar di Dolor y gloria, il Woody Allen di tutti i suoi lavori, lo Spielberg di The Fabelmans, i manipolatori del proprio io, che maneggiano nel tentativo di interpretare il mondo, per mettersi alla fine dietro alla macchina da presa come antidoto al limite estremo della morte, che incombe nei loro film come nei classici di Bergman, Buñuel, Kubrick.

Rumore bianco di Noah Baumbach è un grande film, prima di tutto perché non ha alcuna soggezione nei confronti del romanzo da cui trae origine e riesce perciò a restituirlo nelle sue verità più profonde; poi perché lo tradisce, come ogni film dovrebbe fare con un'opera letteraria. La prima parte del libro di Don DeLillo si sofferma sulla vita di famiglia di Jack Gladney, docente universitario di storia hitleriana in una piccola città.

Nella seconda parte, la collisione di un tir che trasporta materiale infiammabile con un treno merci, darà origine a una nube tossica che costringerà la comunità che vive nella stessa zona di Jack e dei suoi a un esodo di massa. Esposto per pochi minuti ai fumi velenosi sprigionati dalla nube, Jack viene messo di fronte a una sua probabile contaminazione, che potrebbe condurlo alla morte. Il "rumore bianco" del titolo allude alla colonna sonora che accompagna vite invase dal consumismo, dove manca lo spazio per il silenzio, come se un brusio o un fischio continuo togliesse il sonoro alle conversazioni e precipitasse qualunque forma di scambio in una negazione del linguaggio logico e intelligibile: la scena di apertura del film di Baumbach rifà magistralmente il sovrapporsi di voci del romanzo, dove ognuno sembra parlare a sé stesso.

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DeLillo è affascinato dai sistemi che schiacciano l'uomo contemporaneo, preda di destini che sfuggono al suo controllo (il disastro ecologico in Rumore bianco, il black out digitale in Il silenzio), Baumbach pare invece ipnotizzato dalle persone con il talento di far sembrare i loro squilibri sistemici, quelle che esagerano la realtà, trasformando piccoli o grandi problemi personali in fastidiose catastrofi da condividere. I Gladney sono una famiglia troppo intelligente e quindi disarmonica con il mondo là fuori, pieno di merci, di farmaci misteriosi, di inserzioni pubblicitarie sui giornali che cercano volontari per sconfiggere la paura della morte, di disastri improvvisi, di scelte etiche che non portano a niente, poiché il destino di ognuno è segnato dalla nascita.

La collisione del camion e del treno, centrale nel romanzo, serve a Baumbach per mettere a fuoco il presente della famiglia Gladney, fatto di complotti, insicurezze, paranoie, tra figli di precedenti matrimoni di lui e di lei, ancora alla ricerca di un modo di integrarsi e di convivere. Nel film la storia indugia sulla madre, Babette, sui tentativi di scoprire cosa diavolo sia il Dylar, il farmaco che ingoia di nascosto e che dovrebbe aiutarla ad affrontare una quotidianità dominata dal senso di vuoto e dalla paura di morire ("Voglio morire prima di te", dice al marito. "No, voglio morire prima io" risponde lui).

La catastrofe della nube per Baumbach non è altro che la metafora del disastro personale, del senso di smarrimento e del tormento di individualità reticenti, in lotta con l'imperativo molto americano di "dirsi tutto" ma perennemente inadempienti (Jack reclama, in un dialogo con la figlia di lei, il diritto di avere spazi segreti di privacy). Questa incomunicabilità, questa alienazione trova la rappresentazione più crudele nel supermarket, il luogo che ammansisce di tanto in tanto i protagonisti della storia con la promessa che comprare basterà a sedare il loro io inquieto.

Il supermercato del film di Baumbach è una ordinatissima esposizione di Campbell Soup e di confezioni Brillo di Warhol, frequentato da umani che rifanno le sculture iperrealiste di Duane Hanson, è una infilata colorata di merci nello sfavillio delle luci: negli anni ottanta, quando fu pubblicato Rumore bianco, era il luogo dell'adesione senza complessi a uno stile di vita dove consumare coincideva con l'essere felici. I titoli di coda scorrono su un irresistibile omaggio al musical, si riempiono i carrelli danzando. Il film è – molto più del libro – il ritratto, tratteggiato con ironia, di una famiglia media americana, garbatamente presa in giro per quel tanto di provinciale che ammorba il campus universitario che la accoglie.

La realtà diventa schizofrenica con la nube tossica e il film vira di volta in volta in commedia sofisticata, in satira accademica, in film post-apocalittico: un miscuglio di generi (la pubblicità lo presenta così: "commedia, drammatico, giallo, horror") che Baumbach si è divertito a shakerare, per nulla preoccupato di aggiornare il messaggio politico e anticonsumista di DeLillo, facendo il verso alle sit-com televisive, quelle con gli applausi finti in sottofondo ma inserendo qui meditazioni perturbanti sulla morte, che gelano le risate. 

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