Sandro Campani. La terra nera

16 Luglio 2013

Con La terra nera Sandro Campani ci porta nel cronotopo che gli è ideale e in cui erano ambientate anche le sue due precedenti prove narrative, il romanzo È dolcissimo non appartenerti più (Playground 2005) e la raccolta di racconti Nel paese del Magnano (Pequod 2010, vincitore del premio A. Loria): siamo nell’appennino emiliano, quel lembo a sud fra le province di Reggio Emilia e Modena che nel passaggio dagli anni ’80 a oggi si è progressivamente spopolato, lasciando nei giovani che ancora lo abitano,  e perlopiù fanno la spola con la città e la pianura, spaesamento e disadattamento. Sentimenti che non portano a nessun vagheggiare nostalgico, anzi nella medietà attentamente descrittiva che è la cifra stilistica propria a Campani, quel mondo fatto di oggetti e luoghi non più usati, non più funzionali – perché i mestieri sono cambiati, perché tecnologia e benessere hanno imposto altri modelli – assume un interesse tutto nuovo, come se da un punto di vista straniato fosse possibile capirlo meglio, capirne le ragioni intime e ribaltarle sul presente, illuminandolo.

 

Tale infatti è la ricerca esistenziale della voce narrante, Corrado, che a ritroso e per flash-back ripercorre da un lato gli ultimi mesi della propria vita impegnati a restaurare e ad abitare insieme a due fratelli un rudere impervio avuto in eredità dal padre, dall’altro le stagioni della propria famiglia, i suoi assetti e le sue dinamiche psicologiche, i luoghi comuni che segnano l’inerzia a conoscere veramente l’altro e in definitiva se stessi, fino a quando non ci si ritrova in un’inspiegabile disgrazia.

 

Corrado ha viaggiato, lavorando per una ditta di piastrelle si è spostato da un capo all’altro del mondo, abituandosi alla relatività delle cose, e alla durata effimera dei rapporti. Quando lo riporta a casa la morte del padre, personaggio losco e umanissimo al tempo stesso, raccoglitore di cianfrusaglie un po’ disonesto un po’ trasognato, scopre che fra le tante cose inutili e ingombranti accumulate dal padre, c’è anche un pezzo di terra, lontana dal paese e incastonata fra i monti. Su quella terra sorge un rudere, forse i resti di un’antica casa-torre medievale, una delle tante che punteggiavano la cresta appenninica, e facevano un tempo da spartiacque militare fra Emilia e Toscana.

 

  

 

Insieme ai fratelli, Mario un ex tossico più o meno nullafacente che vive della gloria di un passato in cui era circondato da donne e divertimento, e Adelmo, il più giovane, timido e studioso, Corrado decide di restaurare quelle macerie e farne una casa dove vivere insieme a loro. L’impresa si rivela fin da subito una sfida alle proprie radici, al senso da dare al lavoro e alla propria presenza sulla terra, perché non solo quell’appezzamento è l’eredità di un genitore che così di malavoglia ha esercitato l’autorevolezza del padre, lasciando un vuoto simbolico impossibile da riempire, ma è anche il luogo in cui emergono le contraddizioni dei tre fratelli, che conoscono le rocce, la varietà di piante e di animali del bosco, ma non riescono a organizzare la vita lassù senza auto fuoristrada, un nevrotico andirivieni con la città e la progressiva consapevolezza che quel luogo non è condivisibile, ad esempio, con una fidanzata.

 

A catalizzare i conflitti latenti fra i tre fratelli, le gelosie, i non detti che giacciono fra loro da anni e, come in tutte le famiglie, hanno assunto l’aspetto ingannevole di abitudini e dati di carattere, subentra una donna affascinante e remota, Anna, una straniera di origine canadese che, però, tutti chiamano ‘la tedesca’ perché vive con uno svizzero con il quale gestisce un piccolo laboratorio artigianale, dove aggiustano vecchi arnesi e mobili. Accompagnata dal fraintendimento e dallo sradicamento insiti nel suo soprannome, ‘la tedesca’, fuggita giovanissima dalla propria famiglia, e poi anche dallo svizzero con cui vive, si fa ospitare nella casa appena inaugurata e porta scompiglio fra i tre fratelli non solo perché ne accende in modo diverso il desiderio e la curiosità, ma anche perché è una specie di positivo capovolto del padre: ripara gli oggetti cui nessuno darebbe più valore, fa rivivere mobili antichi o semplicemente vecchi, rimasugli di un mondo che per cultura e geografia non le appartiene e al quale sotterraneamente chiede identità. L’epilogo di questo esperimento di vita a quattro, durato poco meno di un’estate, e la sua rivisitazione nel ricordo meritano di essere letti e non svelati, per mantenere intatta la loro valenza simbolica e di intreccio, tanto a fondo scavano nella natura dei rapporti famigliari e delle mistificazioni con le quali crediamo di tutelare la nostra buona coscienza. Ma va sottolineato che se i dialoghi e il parlato, ibrido di dialetto, con cui Campani ricostruisce le coscienze opache dei suoi personaggi, il loro essere immersi in perdite e compromessi quotidiani, mai assurgono al tono della tragedia, nel finale si compie un salto dal sapore quasi biblico. A conflagrare insieme alla storia dei tre fratelli è la terra, il paesaggio e lo spazio tutto in cui si muovono: una frana insieme all’esondazione di un fiume e la costruzione di una superstrada Lucca-Modena, che sventra valli e monti, cancellano quel mondo.

 

Ancora una volta, come accade con una certa ricorrenza nella narrativa italiana degli ultimi anni, lo spazio è protagonista non meno dei personaggi, e ciò è sintomatico di come nel tessuto materiale dei luoghi si riflettano i cambiamenti antropologici e culturali in atto, poiché là dove il paesaggio non è più un dato acquisito e fissato ma un terreno scivoloso e imprevedibile, un’unità di misura impazzita, il racconto non può che cercare di registrare questi smottamenti, descrivendoli, prima che la prossima mutazione ci sorprenda tutti cambiati e diversi.

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