Scrittura e follia di Louis Wolfson

19 Marzo 2015

«I libri veri, i libri profondi, sono forse e unicamente quelli che ci permettono di avvicinarci alla coscienza pura. (…) Ogni volta che uno di questi libri appare, così nuovo e così straordinariamente se stesso – uno di quei libri che non si leggono veramente, ma che si vivono – sembra allora che la letteratura nel suo insieme venga rimessa in dubbio. Il libro diventa in qualche modo un vendicatore implacabile e solitario che distrugge d’un tratto anni d’abitudini e di comfort letterario».

 

Il premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio presenta così uno di questi libri rari che spesso appartengono a una letteratura meno, quella «dei distrutti, dei vinti», che turba e inquieta, Le Schizo et les langues di Louis Wolfson. L’autore, nato a New York nel 1931, diagnosticato come schizofrenico, costretto dalla madre a molti ricoveri e infiniti elettroshock, è un ebreo americano che non tollera la propria lingua, «il famoso idioma inglese». Il rifiuto della madre si esprime nel rigetto della lingua materna, quel sistema lessicale usato da chi lo circonda, e dalla quale, per tutta la sua rocambolesca esistenza, Wolfson cerca di rimanere lontano. Dall’intrusione delle parole inglesi si protegge e si difende tappandosi le orecchie, distraendosi con davanti un libro straniero, aggiungendo altri suoni registrati ad altissimo volume. Negli anni sessanta cammina per le strade di New York con le cuffie e un piccolo magnetofono: è già un walkman.

 

Mentre studia le lingue straniere, tedesco, ebraico, russo, sogna di instaurare una qualche forma di comunicazione con la madre – lei, ebrea della Bielorussia, sapeva il russo nell’infanzia. Da autodidatta studia il francese, la lingua che dà forma alla sua scrittura, la lingua altra nella quale lui può essere un altro, «lo studioso di lingue schizofrenico». Il testo diventa il luogo dove può trattare come oggetto il suo soggetto, esprimere la lotta contro il nutrimento “sporco” – fatto di parole come di cibo – che la madre vorrebbe conficcargli dentro. Racconta i suoi ricoveri, gli incontri con il padre su una panchina – impone al padre emigrato dalla Lituania di parlare in yiddish, la sua lingua originaria, mentre lui gli parla in tedesco –, con i muratori francofoni nel cortile, con una prostituta, con le biblioteche e i frigoriferi.

 

Di Le schizo et les langues Jean-Bertrand Pontalis fece stampare nel 1964 una prima tranche di ottanta pagine su “Les Temps Modernes”, ma aspetterà diversi anni prima di pubblicarlo nella sua collana di psicoanalisi presso Gallimard. L’introduzione è di Gilles Deleuze che analizza il fenomenale gioco con le parole, l’amplificazione e lo smembramento dei fonemi, paragona la sua scrittura a quella del poeta schizofrenico Raymond Roussel, alle disgiunzioni operate da Beckett. Le Schizo et les langues diventa un testo di culto, che colpisce Simone De Beauvoir e Sartre, Queneau e Foucault. Per Paul Auster un atto necessario, di sopravvivenza, che cambia la nostra percezione del mondo.

 

Louis Wolfson, Cronache da un pianeta infernale (a cura di Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, manifesto libri, 2014, pp. 252, € 22,00), raccoglie contributi di studiosi del suo testo, filosofi e linguisti, letterati e cineasti, antropologi, psicoanalisti e terapeuti e il saggio La torre di Blabele di JMG Clézio. Sono letture e riletture affascinate e affascinanti: da quella di Tobie Nathan, che sottolinea la sua attualità di figura migrante – cresciuto da genitori emigrati ha voluto scegliere lui la sua lingua straniera –, e interroga le definizioni di psicotico, autistico, schizofrenico; a Giacomo Conserva che riflette sull’unicità della sua avventura umana; a Duccio Fabbri che sta preparando un documentario su di lui e lo incontra a Porto Rico dove Louis Wolfson ora risiede e dove continua la sua lotta con il mondo – ha vinto una somma stratosferica al gioco d’azzardo che il consulente finanziario di una banca sta cercando di sottrargli.

 

I due curatori si soffermano sulle connessioni con la letteratura del Novecento (Pietro Barbetta) e con la clinica (Enrico Valtellina). Cronache da un pianeta infernale è anche un invito a pubblicare finalmente in italiano Le Schizo et les langues.

 

Ristampato invece da poco il romanzo dedicato alla madre Mia madre, musicista, è morta di malattia maligna a mezzanotte, tra martedì e mercoledì, nella metà di maggio mille977, nel mortifero Memorial di Manhattan (trad. di F. Montrasi, Einaudi 2103). Qui la lingua esplode mentre la madre affronta un tumore che non recede e la scrittura tiene insieme il diario tenuto dalla madre, la stanza d’ospedale, le corse all’ippodromo e le puntate sui cavalli. Iatrogeno è il vocabolo che unisce la malattia della madre a quella del figlio, le infermiere sono il nemico sadico che attacca il corpo di lei – sempre distante sempre presente.

 

«Sembrava che la malattia avesse minato il cervello di maman, dal modo in cui pronunciava tutte le proprie parole con estrema lentezza. (Io stesso parlavo spesso con una lentezza da fare pietà, se non paura – come realizzavo ascoltando le registrazioni che avevo fatto di qualcuna delle mie conversazioni telefoniche – senza dubbio una questione di ‘epilessia sensoriale’ in qualche modo, di venti elettrochoc che mi mettevano istantaneamente K.O. [Knock-out] per una ventina di minuti (…) diciotto mesi di manicomi sparsi in cinque anni misti ad altri mesi di vagabondaggio dopo le mie quattro diverse evasioni dalle forze psichiatriche e di tutta una dose massiccia di schizofrenia paranoica cronica iatrogenica, il che non vuol dire assolutamente che mi sbagli nel raccomandare l’estinzione immediata del nostro pianeta, …). Ma la mia lentezza di parola non era granché paragonata a quella, in quel momento transitorio, di mia madre mortalmente malata».

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