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Locale e globale / Siamo la città appestata, e siamo Edipo
Il distanziamento sociale si impone per ragioni mediche. Tutti vogliamo la fine del Covid, sentiamo la tristezza per le morti e il lutto, il cupo senso di un flagello di cui non si capisce la natura e non si vede la fine. L’ansia ci assimila gli uni agli altri, ma non possiamo abbracciarci e piangere insieme, dobbiamo mantenere una distanza. Ci sono tante testimonianze nel passato di pesti ed epidemie devastanti, da Tucidide in poi, tuttavia, per riflettere su cosa sia la distanza imposta dal contagio, il mito aiuta più della storia e della scienza. All’inizio dell’Edipo Re, con Tebe devastata dalla peste che cerca una via d’uscita dal dolore, Edipo parla ai sudditi. Li chiama “figli, bambini”. Il coro, la città vuole capire come mai un dolore così violento, cupo e continuo sia disceso sulla loro città e il Re, ascoltando il lamento dei suoi “bambini”, si rivolge all’indovino che espone problema: il figlio e assassino del vecchio Re Laio vive tra loro; questo uomo empio, parricida, ora giace con la madre. Edipo è inorridito, promette ai suoi “bambini” di scoprire chi è costui.
Nella tragedia di Sofocle è descritto il cardine della società umana: la proibizione dell’incesto. I figli sono carne della nostra carne, ma arriva un momento in cui si deve stabilire una distanza, la società deve separare il figlio dalla madre. La città intera è in questo caso strutturata come una famiglia, affetta attraverso il proprio Re dalla troppa vicinanza. Sono tutti troppo insieme, nella peste e nell’empietà: il leader politico è troppo vicino ai cittadini, la città alla politica, il figlio alla madre.
La risposta dell’indovino è semplice: bisogna ristabilire distanza dov’è c’è stato uno sconfinamento così empio.
Naturalmente i guai di Edipo ci accompagnano per tutta la vita: una madre troppo affettuosa, troppo presente, troppo assillante, una madre che diventa fidanzata, come nei versi livornesi di Giorgio Caproni. E dall’altra parte un padre troppo nemico, un contrasto che non si è risolto e ha finito con il trasformare Edipo nella vittima inconsapevole del proprio antagonismo, fino a cedere al crimine (che diviene il suo karma). Tutto si svolge nell’inesorabile inconsapevolezza del mito, che mostra solo alcuni squarci di reale e verità perché gli umani non sono dei, sono i loro burattini. E quindi la città, i “bambini”, i figli che chiedono di venire liberati dalla maledizione provocata dall’empio Re/Padre/Figlio paiono anche loro sonnambuli, the sleepwalkers (usando il bel titolo di Christopher Clark sulla generazione che finì nella prima guerra mondiale). Nonni, bisnonni e tutti gli antenati che scivolarono in guerre terribili, terrorismi, che accettarono tiranni e si sciolsero nell’irragionevolezza di un destino che oggi a noi pare assurdo, ma a loro deve essere apparso ineluttabile.
Sono gli elementi decisivi nella crisi non solo sanitaria di Tebe e nella nostra: il legame tra la società e le sue élites, cosa si chiede ai politici, cosa siamo noi e cosa vogliamo e da chi. Leader oppressivi, leader paterni, leader non sufficientemente protettivi. Sono così numerose e diverse le prospettive intorno alla pandemia che ha investito il pianeta che siamo innanzi tutti diventati bambini, facili prede della tentazione di essere salvati: dalla scienza, dalla politica, dalla religione, da chiunque sventoli una soluzione.
Nel chiedere aiuto viene istintivo ritrarsi, ristabilire distanza sociale, ma anche regredire nell’essere infantile che ha bisogno di essere guidato, individualmente e collettivamente. Ci consegniamo come i pazienti al medico, ci dica lui cosa si può fare. Come figli indeboliti che non sanno chi sposare o che lavoro fare, magari dopo una delusione sentimentale o professionale, che chiedono alla famiglia di origine di salvarli: decidano loro cos’è meglio per loro.
La ribellione e l’irritazione verso i genitori, così utile per imparare a stabilire dei confini, crolla e si è preda della propria debolezza. Così nelle pesti, nelle pandemie, quando non sappiamo davvero come uscirne e tendiamo a sottrarci dall’interagire gli uni con gli altri e interporre una distanza sociale: che brutto termine! E cosa significa davvero? Distanza tra le classi? I generi? Le generazioni? All’interno delle stesse famiglie e magari persino delle coppie? E qual è il contrario di distanza sociale? Vicinanza? Solidarietà? O promiscuità? Persino pensare a fondo cosa stia accadendo ha un sapore sacrilego, quasi spulciassimo le decisioni degli Dei. Così su Giorgio Agamben e le domande che ha posto si è scatenata una furia che sembra l’incarnazione di quello che lui ci ha descritto attraverso l’homo sacer. Si deve escludere, espellere, mondare.
Quando ero adolescente, una cinquantina d’anni fa, non solo l’omosessualità ma tutta la sessualità era proibita. Fare l’amore era considerato un peccato dalla Chiesa cattolica ma in generale, e lo vediamo nei film e nei romanzi di quell’epoca, il sesso era sempre una trasgressione, comunque, ovunque e per tutti. Lo era moralmente, perché indicava un cedere al piacere e quindi a una debolezza, come la ghiottoneria, e lo era socialmente, come ci viene descritto nei personaggi di Gassman, Sordi, Tognazzi che fanno la parodia del maschio di quegli anni e ci appaiono maschi deboli, infantili, che devono essere accontentati da amanti in fondo piuttosto materne (come dicono i versi di De Andre nella Città vecchia: cinquemila lire per sentirti dire ciccio bello e bamboccione!). Il pappagallo, il latin lover, versioni caricaturali e negative del maschio seduttore. Le donne sono ritratte in modo o asessuato (madri come Ave Ninchi o Lina Volonghi), o intensamente sessuato, come Marilyn Monroe o Rita Hayworth, o anche come Carla Gravina e Gina Lollobrigida, vittime, cameriere e domestiche per lo più venete o meridionali.
Con gli anni ’60, la diffusione di contraccettivi, la depenalizzazione dell’aborto, la diffusione dei divorzi, la sessualità ha iniziato a presentarsi come fatto gioioso: dalle immagini di Woodstock al fate l’amore non fate la guerra, una visione positiva del toccarsi e del fare l’amore si è diffusa in tutto il mondo e presto attraverso le generazioni. Da epoche che apparivano remote è riemerso uno spirito libertino, il trionfo di Bacco e Arianna del nostro Rinascimento, così come ci è apparsa la vivacità erotica e sentimentale di Shakespeare, condannata tra i puritani che lui attacca in Measure for Measure. Gli avventurieri settecenteschi ci sono riapparsi vicini, Diderot, Rousseau, Casanova o Da Ponte, e abbiamo sorriso delle pruderie vittoriane. Forse oggi siamo di fronte a un ennesimo rimbalzo, cominciato anche prima della pandemia. Non toccarsi, non fare l’amore, distanziarci. La distanza sociale, appunto, che inizia con una diversa rappresentazione della sessualità.
Non è solo l’erotismo a trasformarsi nella distanza, ma tutta la vita sociale a cominciare dal lavoro remoto. Questa è una grande novità: non sappiamo se e quanto funzionerà, ma è globale. Se c’è la tecnologia, non la si potrà disinventare. Non solo la produzione dei beni, il traffico mercantile e la comunicazione sono globali; noi stessi, nei consumi, nei contatti umani e professionali, siamo inseriti in flussi di informazioni globali che implicano e al tempo stesso aboliscono la distanza.
L’umanità del resto non è sempre stata legata agli uffici. La prima città ad avere una significativa espansione del terziario è stata Londra, nella seconda metà del ‘700, quando le attività commerciali della East India Company iniziarono a richiedere un settore assicurativo consistente. Per quanto anche Venezia o le città del mondo antico avessero notevoli attività finanziarie, nessuna aveva così decisamente contrapposto lo sviluppo finanziario ai cicli delle stagioni.
Chi vive in campagna sa bene che i cicli delle stagioni, che alternano mesi generosi di frutta e raccolti ad altri mesi più freddi, non sono capitalisti. Non offrono l’affidabilità di un salario che arrivi ogni mese, i pomodori non possono essere messi in banca e non si possono accumulare frutti e raccolti. Al contrario, i cicli stagionali oppongono periodi in cui ci sono molti pomodori, frutta e verdure a periodi in cui c’è poco che viene dalla terra, si deve attraversare l’inverno, tenersi caldi. Le stagioni portano maggiore o minore vicinanza tra gli umani di una comunità: ci sono sere passate a raccontare intorno a un fuoco e stagioni caratterizzate dai viaggi (i veneziani che partivano per le imprese commerciali con la festa dell’Ascensione, la Sensa) o comunque dallo stare all’aperto.
Nella città invece le otto ore estive sono simili alle otto ore invernali, i cicli non si alternano allo stesso modo, il valore è legato negli uffici alle ore lavorate e forse questo genere di relazioni professionali sta già cambiando. Ma quali distanze e quali prossimità sono legati a questi mutamenti? Ogni individuo, i governi e mai quanto oggi l’umanità intera, è alla ricerca di forme attraverso cui governare i diversissimi interessi che interagiscono in queste metamorfosi rapidissime. Dobbiamo guardarci dal chiedere troppe regole, perché le regole si portano dietro i regolatori e da queste figure a creare una nuova classe che ci amministri il passo è brevissimo. Così come è pericoloso chiedere la sospensione delle regole, perché di questi stati di eccezione si sono sempre avvantaggiati i regimi dittatoriali.
Certo, un nuovo contratto sociale che agevoli il lavoro remoto porterà un grande risparmio di energia, denaro, inquinamento. I milioni di persone in tutto il mondo che si spostano dalle periferie nel centro per andare davanti a un computer potranno utilmente farlo da casa propria. Anche molte delle riunioni a cui partecipiamo si possono svolgere proficuamente online. Eppure, quanti ragazzi dai paesi di tutto il mondo sono riusciti a lasciare il paese d’origine e ad andare in città, all’università, a sentire l’attrazione del mondo che una volta era riservata alle élites?
E se al contrario, il lavoro invadesse ogni segmento della vita di ognuno, tra lezioni, aggiornamenti, servizi, tempo libero, se non fosse più possibile fare una passeggiata in un bosco perché quel tempo non è mediato da Apple o Microsoft?
Non c’è naturalmente nessuno che governi queste trasformazioni, interessi di diverso tipo si intrecciano. Risparmi economici sul ridotto pendolarismo si scontrano con la ridotta attività economica delle città, l’occasione di rivitalizzare borghi che solo un paio di anni fa offrivano case a 1 euro si scontrano con la minaccia di una crisi immobiliare globale, perché è nelle città che sia i risparmiatori che i criminali di tutto il mondo tentano di mettere al sicuro la ricchezza accumulata. Il mondo va attraversato, con occhi aperti, intelligenza ma anche cuore.
Ma soprattutto i fenomeni che abbiamo di fronte sono di una natura infinitamente più grande di quello per cui si possano attrezzare i governi nazionali. La pandemia trasforma completamente la nostra idea di cosa sia locale. Da un lato siamo consapevoli che persino una scuola o la famiglia possono essere un focolaio, dall’altro è difficile immaginare di chiudere frontiere. I sovranismi sono stati, da questo punto di vista, una sorta di neo anacronistico. Una vacanza di intenzioni inadeguate alle trasformazioni che viviamo. Non ci sono flussi economici, non c’è scienza, non c’è malattia o conoscenza che si possa chiudere in un paese. Ci possono essere catastrofi, questo sì, di solito provocate dai nazionalismi.
Quello che non dobbiamo dimenticare, guardando Edipo che ci promette di trovare l’assassino di Laio, è che siamo noi stessi vittime e agenti della tragedia. Siamo noi a chiedere di scoprire di chi è la colpa, regole e distanziamento sociale, siamo noi che cerchiamo la ragione del male rivolgendoci a Tiresia. Siamo la città appestata, e siamo Edipo.