Star Wars. I love you Carrie

16 Dicembre 2015

C’è una parte di noi che al solo pensiero di Star Wars inorridisce. Viscidi gasteropodi che trafficano loscamente atteggiandosi da navigati padrini, scimmioni pelosi ma scaltrissimi, assurdi comandanti che non si tolgono la loro assurda armatura nemmeno per andare a dormire, creaturine ridicolmente attrezzate da madre natura che decidono le sorti dell’universo, viaggi interstellari compiuti senza mai pensare alla benzina: insopportabili. Questo baraccone di freaks risulta, infatti, tutt’altro che simpatico perché, come da cliché del genere fantasy, agisce in un sistema perfetto, in cui ogni elemento è dentro un ordine che lo comprende, senza sfaccettature. O buoni o cattivi, tanto che, quand’anche uno dei personaggi volesse provare a evolvere, il suo destino sarebbe comunque segnato: o di qua o di là, ancora una volta senza sfaccettature. È ciò che più volte accade, nella saga, finanche al cattivo dei cattivi, il detestabile Darth Fenner, il quale, non a caso, prima di diventare così odioso, pare sia stato buonissimo. Di più: come nelle telenovelas peggiori, si ritrova a essere pure il padre del suo acerrimo nemico, difensore del bene, Luke. Morale semplice: il bene e il male, come lo yin e lo yang, sono facce della stessa medaglia e va da sé che ognuno dei lati di questa medaglia somiglia – lo si sostiene apertamente in un passaggio della serie prequel – maledettamente all’altro, in tutto. Soggetti e antisoggetti risultano, quindi, perfettamente speculari, banalmente speculari.

 

Ma c’è di più, il sistema di Star Wars è iperdefinito, costruisce un mondo possibile perfetto, grazie a un’ansia classificatoria quasi delirante che, da una parte, lo rende compiutamente intellegibile, dall’altra, però, lo banalizza, costituendolo come complicatissima replica di se stesso. Va da sé che una così complessa – e in fondo inutile – architettura (pianeti, galassie, forme di vita inventate e puntualmente battezzate) richieda l’impegno e la dedizione del devoto per essere davvero compresa e penetrata. Del resto, i devoti non mancano. Schiere di sgranocchiatori di orride patatine al formaggio, dalla barba a cespugli, preferibilmente vestiti di nero (mise casual dark), seguono ossessivamente ogni sviluppo della serie, rappresentandosi come veri e propri adepti in attesa dell’ennesima rivelazione messianica, novelli eremiti urbani in perenne ricerca della Forza. Essi vivono la loro vita come un inevitabile succedersi di profezie, presagi, segni da interpretare, in una indifferenza, tanto compassata quando radicale, alle futilità che noi comuni mortali potremmo riconoscere nelle piccolezze della vita quotidiana. I fan di Star Wars, con la loro testa fra le nuvole, con la loro espressione pensierosa e lievemente accigliata ci fanno la predica, reclamando ben altri problemi, ben altre questioni all’ordine del giorno dei terrestri. Dal loro universo puro, letteralmente siderale, guardano alla terra, alla Repubblica che pure a parole vorrebbero difendere, come un inevitabile luogo di corruzione, da annientare per il suo bene, per ricominciare da capo una volta per tutte e come si deve. È per questo che ogni buon amante delle piccole cose della vita, ogni sospiratore da attimo fuggente, ogni amante indeciso e problematico, non può che trovarsi a disagio di fronte all’enormità di Star Wars e della fandom che a questo genere di film uno sarebbe tentato di associare.

 

Se non fosse per Carrie/Leia. La cui sola presenza rappresenta un’intollerabile invasione di campo dell’imperfezione terrestre nell’algido universo degli schieramenti spaziali in armi.

Iniziamo col dire che Leia non ha davvero la mise della principessa. È molto bella, d’accordo. Ma è sguaiata. Nonostante la sua veste bianca e la sua assurda capigliatura, appare per quel che è, un’americanotta che non ha nulla di nobile, con la sua espressione carnosa, per niente eterea. L’algida Natalie Portman ai nostri amici sgranocchiatori sarebbe sicuramente sembrata più adatta al ruolo. Ma è proprio la sua incongruenza a costituire un’ancora di salvezza per ogni scettico degno di questo nome. Proviamo a mostrarlo. Da che mondo è mondo le principesse delle fiabe sono “oggetti di valore”, fondamentalmente non hanno un vero ruolo. Vivono, nel loro regno, felici fintanto che non vengano prelevate da un Cattivo. Il tempo della fiaba non è altro che quello che serve al re per organizzarne il recupero, incaricando un eroe della missione, a prescindere da quello che ne pensi la medesima principessa da salvare. Manco a dirlo, come ricompensa, per l’eroe che la salverà, giungeranno le più classiche nozze ad aprirgli le porte del regno e della realizzazione. Qui le cose stanno al contrario.

La principessa Leia è donna d’azione. La vediamo non solo cospirare a capo di un manipolo di resistenti ma soprattutto sparare. E il modo in cui spara Leia è molto particolare. Spara, senza la sicumera dei militari. Al contrario, la sua espressione tradisce l’aria furbetta del ragazzino di periferia che tira i botti sui passanti della piazza allo stesso tempo intimorito e divertito di vedere l’effetto che fa. Il suo modo di essere è frutto di una certa ironica spavalderia che serve a smitizzare, desacralizzare quanto basta ogni eccesso di assoluto, con il risultato di insidiare il dominio degli sgranocchiatori di patatine al formaggio in attesa dell’ennesimo presagio. A Carrie tocca ricordarci che pur sempre di spettacolo si tratta, dando vita al versante fracassone, squinternato, adorabile della prima trilogia. “Qualcuno può togliermi dai piedi questo grosso tappeto ambulante?” è – non c’è che dire – un modo perfetto per togliere un po’ di alone mistico al buon Chewbecca.

 

D’altra parte, Leia è una donna in un mondo popolato da uomini in cui prova a barcamenarsi con alterne fortune. Succede, così, che si ritrovi, prevedibilmente indecisa fra due modelli di partner: il bravo ragazzo (Luke Skywalker) e il fanfarone (Ian Solo). “Fantastica la ragazza, eh! Non so se ucciderla o innamorarmi di lei!”, annuncia, a un certo punto, il suo riottoso spasimante. Toccherà, così, proprio a Carrie, figlia della svolazzante Debbie Reynolds di Singing in the Rain, di farsi ambasciatrice, nell’austerità stellare dei film, del virus della commedia romantica hollywoodiana più genuina, trasformando le vicende militaresche della saga in dissacranti e sofisticati flirt. Nel bel mezzo dell’attraversamento di un campo di asteroidi arriva, così, la battuta: “non farlo per far colpo su di me”, a smorzare la solennità della ennesima spericolata impresa del comandante Ian Solo.

 

Dopo il famoso bacio di Carrie a Luke, scoprire, nell’episodio successivo della serie, che la scusa “potresti essere mio fratello” con cui ogni pupa degna di questo nome normalmente molla lo sciacquino di turno, avrebbe potuto rivelarsi, una volta tanto, calzante e azzeccata, costituisce un ironico contrappasso alle sue vicende amorose. Un altro scambio di battute: Leia: “Lasciami, ti prego!”; Ian: “Non ti eccitare”; Leia: “Comandante, il suo braccio non è sufficiente per farmi eccitare!”; Ian: “Scusa tesoro, non c’è tempo per fare qualcos’altro”. Non si tratta, di certo, di un eloquio tanto principesco né di conversazione da verginelle, ma si capisce che i due effervescenti litiganti si innamoreranno perdutamente. È la stessa Carrie, in un altro film, Harry ti presento Sally, a ricordarlo alla sua migliore amica insofferente verso le premure del suo petulante corteggiatore: a partire da La signora scompare di Hitchcock, annus domini 1938, va a finire sempre così. Ecco, allora, un buon motivo per cui gente come noi potrebbe opportunamente mettere mano alla serie, superando ogni comprensibile riluttanza. C’è Carrie. La Carrie di Woody Allen in Hannah e le sue Sorelle, la Carrie di Nora Ephron in Harry ti presento Sally e This is my life. C’è Carrie, la moglie con kalashnikov di John Belushi dei Blues Brothers, versione terrestrissima e hype della spaziale Leia. C’è Carrie, che con la sua vita da alcolizzata e drogata, ci riscatta dalle farneticazioni fantasy lucasiane, ricordandoci che pur sempre di fiction si tratta. C’è Carrie che, nei suoi spettacoli teatrali, torna puntualmente a ridere di se stessa, conciata come uno pollo in bikini durante la prigionia del lumacone Jabba the Hutt o ironizzando sul suo vestito bianco (perché nello spazio non si portano le mutandine!) e sulla sua stupidissima capigliatura. C’è Carrie, a rivendicare per se stessa e per tutte le donne il diritto di invecchiare e di ingrassare, come ha recentemente fatto nel suo fragoroso tour promozionale in vista del lancio del nuovo film.

 

Ecco perché quelli fra noi poco interessati a scimmioni e omini verdi, spade laser e lumaconi, possono provare a ricredersi, scommettendo sul fatto che Guerre Stellari possa essere un film anche per loro. Dopo tanti anni, è un buon segno ritrovare al cinema Carrie, alla ricerca dell’ironia perduta. La stessa Carrie che ci ha mostrato quanto gli anni ‘80 non fossero poi così male, iniziando lei per prima e, per giunta in territorio nemico, a ridere di se stessa.

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