Superbatteri all’attacco
Se non è vera è ben inventata. Pare fosse stato addirittura Claude Bernard, il fisiologo francese vissuto nel XIX secolo, padre della medicina sperimentale, che alla domanda di un cronista dell’epoca, “Come definirebbe la malattia?”, avesse risposto liquidatorio, “Il contrario della salute”; al che, non domo e certo non soddisfatto, il cronista avrebbe replicato, “E come definirebbe allora la salute?”, meritandosi, dopo un momento di riflessione, la più definitiva delle repliche: “Una condizione che non promette nulla di buono!”.
È con analoga inquietudine che si può chiudere la lettura di I superbatteri. Una minaccia da combattere, edito da Raffaello Cortina e scritto a quattro mani dalla giornalista Paola Arosio e da Fabrizio Pregliasco, professore di Igiene all’Università degli Studi di Milano, uno dei volti divenuti involontariamente familiari nei due lunghi anni in compagnia del Covid-19, ma ben noto, e certamente prima del Febbraio 2020, per le sue ricerche e la competenza indiscussa, a tutti coloro che si interessano di sindromi influenzali. Giunti a pagina 239, infatti, nel capitolo delle conclusioni, dove si riassumono tutte le necessarie azioni da mettere in pratica così da ridurre il rischio di malattie infettive e i rischi della resistenza agli antibiotici – raccomandazioni suddivise per competenza: alle istituzioni internazionali, a quelle nazionali, alle aziende farmaceutiche, ai medici, agli allevatori (ci arriviamo), ai cittadini tutti – ci si trova a domandarsi come mai ancora godiamo (sperabilmente) di buona salute, circondati come siamo tutti da un’infinità di agenti patogeni. E se non bastasse, segue un’ancora più inquietante appendice, ulteriori venti pagine dedicate ai rischi derivanti dai “superfunghi” come Candida auris, responsabile di una mortalità per il genere umano vicina al 40%, uno dei circa 1,5 milioni di specie diverse di funghi, per lo più innocue ma che nei casi “canaglia”, invece, riescono a infettare circa 300 milioni di persone al mondo, provocando 1,6 milioni di morti l’anno: più del doppio delle donne che muoiono di cancro al seno, per offrire un parametro di riflessione. Nel 2012 l’OMS ha incluso 19 di questi creature nella categoria dei “patogeni a priorità critica”, e anche perché capaci di farsi beffe di disinfettanti e detergenti, usati massicciamennte, ad esempio nel 2015, per decontaminare un centro specializzato in cardiologia del Royal Brompton Hospital di Londra, sostanze efficaci contro tutti i microbi, nello specifico un trattamento a base di perossido di idrogeno in forma aerosol per un’intera settimana, eppure sconfitto dall’indifferente Candida auris, che “se ne stava pigramente adagiato sul materasso o avvinghiato ai bordi del comodino”. E che dire di Cryphonectria parasitica, un fungo silenzioso e micidiale che attacca i castagni sui monti Appalachi? In cinquant’anni ne ha fatti fuori 4 miliardi (avete letto bene): boschi ridotti a paesaggi di morte e ombre. E, almeno per una volta, senza responsabilità di homo sapiens. Terribile la lotta per la sopravvivenza del più adatto.
Ci ricorda, semmai ne avessimo bisogno, che nessun cataclisma di origine e responsabilità antropica, riuscirà mai a far sparire la vita sulla Terra: per ogni grammo del chilo e mezzo di “microbiota” che ognuno di noi ospita sulla pelle, nella bocca, nel naso, nella gola e massimamente nell’intestino, per ogni grammo – ripetiamo – è possibile trovare 60 miliardi di batteri per un totale di 500 specie. Un bel colpo alla hybris.
Se cercate una lettura da “bed side table”, dimenticate I superbatteri, difficilmente concilierebbe un sereno riposo, ma se volete – e dovremmo tutti – capire qualcosa di ciò che può minacciare le nostre esistenze, così come è accaduto con Covid-19, il libro di Paola Arosio e Fabrizio Pregliasco non può mancare tra i vostri scaffali. Dieci capitoli più una conclusione e un’appendice, dalle quali siamo partiti, viaggiando nel tempo e ai quattro angoli del nostro pianeta, che la minaccia è globale, ben prima che qualcuno inventasse il concetto e il termine, oggi così abusati. E si parte, come nei migliori testi di divulgazione di stampo anglosassone (ma di questo dirò meglio in chiusura) da alcune “cronache di ordinarie infezioni”. Casi specifici quanto emblematici. Quello del batterio New Delhi – la provenienza consegue dal primo avvistamento – che nel 2021 in Toscana è stato isolato in 415 pazienti, risultando letale per una novantina di loro (un più che allarmante 21%); il Citrobacter, detto anche “il killer delle culle”, isolato per la prima volta nel 1932 e sostanzialmente indifferente a qualsiasi trattamento farmacologico: a Verona, nel reparto neonatale del locale ospedale, il più grande punto nascita di tutto il Veneto, tra il 2018 e il 2022 deve essersi nascosto nelle tubature dell’acqua, fuoriuscendo da uno dei rubinetti, e segnando (orribilmente, come se non bastasse) la sorte di almeno 96 neonati; si fa conoscenza anche di Mycobacterium chimaera, altro scomodissimo ospite, un microorganismo lontano parente del germe della tubercolosi che ha fatto parecchi morti nelle sale di cardiochirurgia tra Veneto ed Emilia Romagna. Ma ci sono storie della Sicilia, da Catania e casi anche extra-ospedalieri (dove i pazienti sono, evidentemente, più a rischio), e patogeni come Niesseria gonorrhoeae, da cui l’omonima malattia, a proprio agio tra i fluidi corporei e molto più contagioso dell’Hiv, il virus dell’Aids: una donna che ha rapporti non protetti con un uomo sieropositivo ha una possibilità su mille di essere infettata da Hiv, con la gonorrea 660.
Lo sapevamo che, ogni anno, negli ultimi anni, sono 87 milioni le persone infettate? “Per chi si occupa di salute pubblica, la sensazione è quella di aver avvistato l’iceberg a bordo del Titanic. Per questo gli esperti raccomandano la massima allerta nei confronti di una malattia purtroppo ancora oggi stigmatizzata, che rischia di diventare un naufragio perfetto”. E via di questo passo. Quella contro i batteri che resistono ai farmaci, sostiene l’OMS e sottolineano gli autori, è la battaglia del presente e del futuro: 700mila decessi all’anno, più vittime dell’Aids e della malaria, che in assenza di interventi, nel 2050 diventeranno 10milioni, superando perfino i decessi per cancro. Se poi si aggiungono i costi – circa 100 trilioni di dollari sempre al 2050 – per malattie prolungate, ricoveri ospedalieri, necessità di ritardare terapie e interventi chirurgici, i costi economici… inquietante, appunto.
Attualità ma anche storia. Arosio e Pregliasco ricostruiscono l’alba della ricerca batteriologica, a partire dalla conferenza del 24 Marzo 1882 a Berlino, quando Robert Koch comunicò all’assemblea stipata nella sede della Società di Fisiologia, di essere riuscito a isolare il batterio che provocava la tubercolosi (e che poi prenderà il nome di Mycobacterium tubercolosis), il male del secolo e di tantissima letteratura e musica: “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta…”: immortali – solo loro – i versi di Leopardi. Si continua con il colera, la salmonella, la sifilide, le caratteristiche di Clostridium botulinum (oggi ben noto anche in positivo, come agente di chirurgia estetica), di Helicobacter pylori, dello Streptococcus pneumoniae. E si arriva alla scoperta degli antibiotici, si fa la conoscenza di personaggi – veri e propri eroi del progresso delle conoscenze, di cui poco o nulla si dice nei manuali di storia per le giovani generazioni – come Paul Erlich. Alexander Fleming, il nostro Vincenzo Tiberio, più avanti di Max Delbruck, di Salvator Luria (uno dei tre Nobel italiani per la Medicina, insieme a Dulbecco e Rita Levi Montalcini, tutti allievi a Torino di Giuseppe Levi, straordinario maestro nonché padre di Natalia Ginzburg) e di Anne Miller, la prima paziente al mondo guarita grazie alla penicillina. In quale manuale di storia – ci piace ribadire il concetto – si legge che nel 1943 la produzione di penicillina divenne progetto strategico, per il Dipartimento della Guerra statunitense, secondo solo al Progetto Manhattan?
Storia e storie di donne e di uomini, di pazienti, di ricerche, di sperimentazioni, di aziende, di straordinari successi, e poi anche di nuove minacce, la più grave delle quali è senza dubbio l’antibiotico-resistenza. È la legge dell’evoluzione, bellezza, e non ci possiamo fare nulla. O quasi. Per il recensore, la parte più interessante è, infatti, la ricostruzione di come, a partire dal rifiuto di Fleming di brevettare la penicillina (altri uomini, altri tempi), la conseguente discesa dei prezzi – dai 20 dollari a dose del 1943, ai venticinque centesimi già solo nel 1951 – le strategie di marketing delle aziende che promuovevano “il miracoloso farmaco” e poi i diversi antibiotici scoperti per ogni uso, fino a considerarli come “caramelle” ma, più e sopra ogni altra considerazione, “… il loro [degli antibiotici] utilizzo scriteriato negli animali da allevamento, nelle stalle, nelle fattorie, nei pollai”, tutto questo rappresenta, oggi, e già da un po’, una vera minaccia, con la resistenza dei batteri a circa l’80-90% degli antibiotici più comuni. Per non privare il lettore (e in qualche modo dispiacere gli autori e anche l’editore) del piacere di leggere le pagine originali, accenneremo solo al ruolo che ha svolto l’intuizione di un biologo di nome Thomas Jukes, colui che aveva creato l’antibiotico Aureomicina, quando, nel suo laboratorio presso l’azienda Lederdele, si accorse che un gruppo di pulcini ai quali aveva aggiunto nel mangime la sostanza da lui sintetizzata, pesava il doppio rispetto al gruppo di controllo a cui aveva aggiunto solo alcuni integratori (lievito di birra, cereali, olio di fegato di merluzzo), e tre volte tanto a confronto con i pulcini che avevano avuto solo il tradizionale mangime. Dai pulcini ai maialini che triplicavano il loro tasso di crescita il passo fu brevissimo, e negli anni ’50 è cominciata l’era degli antibiotici a bassa dose nell’allevamento del bestiame. Se oggi, nel mondo, vengono macellati 26 miliardi di polli, 71 milioni al giorno, 824 al secondo, ci crederemmo…? È anche una conseguenza della scoperta degli antibiotici! Leggere per capire cosa accade, anche in Cina, anche con le verdure, anche nell’acquacoltura. Risultato, non il solo, ma quello che ci deve preoccupare di più? L’antibiotico-resistenza e lo sviluppo dei Superbatteri, quelli del titolo, la minaccia che gli autori ci invitano a combattere.
E siccome tutto si tiene, secondo il rapporto Bracing for Superbags, pubblicato nel febbraio di quest’anno dall’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, “il riscaldamento del pianeta contribuisce alla diffusione dei batteri […] temperature più elevate aumentano la probabilità di errori durante la replicazione del Dna, incrementando il tasso di mutazioni dei batteri, tra le quali sono presenti anche quelle che li rendono capaci di resistere ai farmaci”. E già nel 2018 una ricerca pubblicata su Nature Climate Change aveva collegato il clima più mite all’emergere dei supergermi. Poi Covid-19 ci ha distratto, ma il tema è chiarissimo: non si dà salute umana senza salute animale. Che la si chiami “One medicine”, “Salute circolare” (di cui ha scritto anche Papa Francesco in Laudato si’), la sfida è facile da definire: c’è un solo pianeta, una sola salute.
E ci sono le resistenze di sempre (non quelle agli antibiotici). Oggi come ieri non si fa fatica a ritrovare qualche nostrano campione del regresso nella fisionomia del ginecologo di Filadelfia, Charles Meigs, che a metà circa dell’800 ridicolizzava le ipotesi di Oliver Wendell Holmes come “il sogno frizzante di un medico giovane e inesperto che era semplicemente sfortunato quando si trattava di curare in modo adeguato le sue pazienti”. Reo, il giovane Holmes, di aver sostenuto che i responsabili della trasmissione della febbre puerperale fossero i medici con le mani non lavate. Pochi anni dopo, fu quello che dimostrò Ignaz Philipp Semmelweis al Maternity Hospital di Vienna. Ma Semmelweis non fu solo ridicolizzato, fu a tal punto osteggiato dai suoi colleghi – “È ridicolo e indecoroso doversi lavare le mani – si bisbigliava nei corridoi – Le puerpere vengono chiamate a lasciare questo mondo dal buon Dio e non certo per colpa dei medici” – da soffrire di deliri e allucinazioni, fino a essere rinchiuso in un istituto per malati mentali, dove sarebbe morto nel 1865, molto probabilmente in seguito a infezioni provocate dalle percosse delle guardie. È mai possibile che il mondo produca periodicamente di queste storie? Del resto, se non si studiano a scuola!
Si parla di moltissime altre cose, in questo libro, di vaccini, ovviamente, e anche dei “batteri buoni” quelli che ci fanno gustare la birra o lo yogurt, il lettore vi troverà i “probiotici” e anche i “prebiotici”. Forse troppo. Mi spiego. Accennavo, all’inizio, al modello di divulgazione anglosassone. Come sottolinea David Quammen in un’intervista che ci ha rilasciato di recente (qui), “Quando si scrive di scienza si scrive di alcune persone che la scienza la fanno per altre persone che sono interessate a leggere della loro attività, del perché lo fanno, di chi sono: il nostro pubblico è la gente comune e la scienza è un’impresa umana, fatta da persone […] La scienza è fatta di storie, di tante storie che accadono nella “Storia”. Ed è in questo modo che Arosio e Pregliasco ci introducono attraverso i vari capitoli e, dentro a questi, alle moltissime storie che raccontano, ricordando i periodi, gli ambienti, le strade, le facce, i monumenti. Ma forse, a opinabile giudizio del recensore, con minore convinzione di quella che sarebbe stata necessaria, abbozzando i profili e i caratteri quando si poteva andare più in dettaglio, raccontando con un respiro più largo. Per dire dello Spillover di Quammen, a suo modo un prototipo, nelle oltre 500 pagine dell’edizione economica italiana, vi si leggono sostanzialmente una decina di casi; nel recente Senza tregua, solo quello di Sars-CoV-2: le storie, le patologie, i farmaci, i batteri, e anche i virus e i funghi protagonisti di I Superbatteri di Arosio e Pregliasco, invece, si fa fatica a contarli. Leggendo con occhio da editor, si poteva preferire o una scelta molto più contenuta, facendo emblema del tema cinque o sei vicende tra quelle meno conosciute (di Koch e Semmelweis, per dire, non è certo la prima volta che si legge) oppure – e meglio per la curiosità del recensore – tentare una foliazione più robusta, una serie di ritratti con grana molto più fine, capace di restituire il paesaggio di un’avventura di conoscenza il cui fascino non può sfuggire al profano. Un rammarico marginale, e personalissimo, che nulla toglie al valore di una pubblicazione da raccomandare con sicura convinzione.