Teatro delle Albe: l’abisso, il paradiso
Esiste un luogo, in un punto imprecisato dentro di noi, in cui si aprono squarci profondi che conducono verso il fondo ruvido del niente e poi verso lo strapiombo che gli si scopre ancora dietro, dove si muove in trasparenza una bellezza intensa che abbaglia o acceca, disperata battaglia per la poesia, che ci immaginiamo dal nulla e che ritroviamo, ogni volta per miracolo, addensata sul fondo di certi scrittori, filosofi, pittori, come costante umana degli uomini sensibili: nelle rime dei poeti, appunto.
Il Teatro delle Albe riesce, sorprendentemente, a stillare gocce di questo abisso da una ferita che apre sulla pelle delle circostanze visibili, strappando al reale il visionario, all’immagine l’immaginazione, al sintagma la terza dimensione, al politico il politttttttico. Come fanno i bambini, ma con la consapevolezza della propria collocazione nel limbo di quella irriducibile relazione tra l’esteriorità delle cose in cui si annida il senso del vivente e la gola della psiche che custodisce la variabile impazzita.
Così, nel bellissimo dittico Il giocatore / Canzone dei luoghi comuni che ha inaugurato la stagione del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A.Belli”, appositamente commissionato dall’Istituzione lirica umbra, Marco Martinelli, sulla musica di Cristian Carrara e con la direzione del maestro Flavio Emilio Scogna, esplora il tema del gioco nella sua deriva infernale e nel suo rovescio paradisiaco; e di nuovo accoglie la fenomenologia dell’accadimento senza mortificare il respiro del mondo nella bidimensione del dato di cronaca.
Il giocatore non ci ricorda che ci sono 120.000 punti gioco in Italia, non accusa la pubblicità e la legalizzazione di eccitazione della domanda d’azzardo; attraverso uno specchio che pende inclinato dal soffitto verso il pavimento ci colloca sull’orlo di una fossa, spettatori del soliloquio di un giocatore d’azzardo romagnolo che ripercorre le tappe della propria caduta verso il fondo, in un abisso che ha sempre fame e lo trascina via via più in basso.
Dalle corse dei cavalli alla slot machine, dalla maledizione di quella terra che coltiva col suo trattore New Holland rosso fiammante, di quei soldi che puzzano di galline e letame, alla perdita di tutto, soldi, terra e trattore; dalle menzogne ai vecchi genitori analfabeti alla ricerca incessante di denaro da estorcere, all’imbuto delle finanziarie, al cappio degli strozzini. Su quell’orlo della fossa, spettatori dall’alto, sappiamo già tutto, modalità, epilogo, e giudizio. Il buio ci addita l’inferno, i due cantanti nell’ombra demoni avvoltoi intorno a un cadavere, la musica anticipa ogni successiva caduta della Via Crucis e intanto suggerisce il lirismo che compiace la nostra bugiarda compassione.
Ma le parole scritte da Martinelli nel respiro regolarmente in affanno di Alessandro Argnani, nel loro raggelante ritmo innaturale colgono di sorpresa la nostra confortevole onniscienza. Perché la slot non è più una macchinetta infernale da cui solo il “cretinetti” di turno si lascia abbindolare. La slot è l’Amica, l’unica di fronte alla quale è possibile uscire da se stessi, dalla prigione del respirare nostro malgrado, dalla tragedia del semplicemente esistere e ritrovarsi collocati in carne, ossa e sensibilità da qualche parte con addosso una immagine che dice (e che è ) quello che siamo.
Perché “oltre alla macchinetta non c’è niente, solo lei fa luce e tutto attorno è buio” e nel niente è incluso anche il tu che puoi lasciare fuori la porta del bar. Allora fuori tutto: nello sfogliare la margherita si butta via un pezzo dopo l’altro per escludere uno per uno tutti i segni visibili e invisibili, i frammenti di cielo e le zolle di terra, prosa e poesia, carne e sensibilità. Dopo niente giudizi, niente processi, niente critiche arriva il niente amici, il niente famiglia, il niente barba e niente vestiti, fino al niente notte, niente luna, niente sole, niente orizzonte, niente stelle, niente desideri e niente futuro. Niente di niente, fino all’essere niente lui stesso, che nel buttare via la forma finisce per buttar via pure la sostanza e si ritrova morto davvero, coperto da un telo verde, del quale ci sembra di sentire la stessa scivolosa indifferenza di quello del tavolo da gioco.
Il problema, allora, non è più il mondo, ma cosa siamo noi rispetto al mondo, come decidiamo di giocarci la vita. Se lasciarci travolgere dal niente o giocarci la partita come fanno i bambini della Non-Scuola delle Albe, per il piacere del sudare insieme, per il piacere di “cercare l’oro del mondo”.
La seconda anta del dittico è una visione, un distillato di visionarietà, un inno alla vita alle piante e agli animali, al “luogo comune”, in cui cioè, letteralmente, si sta in comune, si gioca insieme, ci si divide il pane; è l’incavo rovesciato della fossa, luminoso, è il contrario del niente, dove le nomenclature grevi della morte e del basso sono capovolte in isotopie barocche, verticali, della levità e del bucolico, dove gli alberelli del cimitero del giocatore diventano alberelli di un bosco abitato da bambini salterelli che ancora provano a catturare le stelle, dove la terra odiata, che a forza di sudore ha sputato soldi che puzzano di galline e di stalla, è la terra incontaminata che rappresenta l’arte della condivisione e dell’ascoltarsi che conoscevano i nostri nonni, ed Ermanna Montanari, divertitissima con la sua bacchetta d’ulivo azzurra e il suo cappotto verde smeraldo da cappellaio matto, in alto su un piedistallo, dirige la canzone dei luoghi comuni.
Rime, sintassi e parole fiabesche si intrecciano al mélange musicale quasi pop, che assorbe ninne nanne serene e filastrocche giocose per accompagnare un sogno che si conclude nel silenzio e a luci accese, quando i bambini scendono in platea, per guardarci in faccia da vicino.
Riusciamo a immaginare il dittico anche nella rispettiva autonomia dei due atti. Eppure proprio questa struttura suggerisce un pensiero prezioso. Ad attraversare entrambe le stanze dell’immaginario delle Albe c’è qualcuno: quegli altri, quelli fuori, in alto, al lato, (in platea?), i “cerebralrazioruminanti”, i commessi della vita, quelli che stanno sempre sulla soglia del niente, che non sprofondano ma neppure saltellano. Una cosa è certa: non sarà mai loro, l’oro del mondo.
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