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L'eredità di Totò tra avanspettacolo e ricerca / Totò, Leo e il Nuovo Teatro

22 Aprile 2017

«Fisicofollia… Caricatura, abissi di ridicolo, cascate d’ilarità irrefrenabili… Analogie fra l’umanità, il mondo animale, il mondo vegetale, il mondo meccanico... Scorci di cinismo rivelatore, intrecci di bisticci, di motti spiritosi, con tutta la gamma dell’imbecillità, della balordaggine, della stupidità e dell’assurdità, che spingono insensibilmente l’intelligenza fin sull’orlo della pazzia…» (Filippo Tommaso Marinetti, Il Teatro di Varietà, 1913).

 

Sembra che Totò abbia lavorato per dare corpo e voce al Manifesto di Marinetti, modulato a sua volta su quel varietà nel quale il comico napoletano, marionetta snodabile, eccentrico per eccellenza, nacque e si formò, attraversando poi tutte le forme di teatro popolare del primo Novecento: la farsa, l’avanspettacolo, la rivista, la commedia e la commedia musicale, portando sempre con sé lo spirito anarchico delle origini. Il cinema lo rapì tardi, alla fine anni '30, ma soprattutto negli ultimi due decenni di vita. E nei film mantenne spesso l’istinto del palcoscenico, quell’improvvisazione che non voleva dire inventare sul momento ma mutare ogni volta la prospettiva, fare le cose diversamente, sorprendendo e sorprendendosi, mettendo in scena il desiderio di ricreare la vita sempre di nuovo, il graffio più fruttuoso del teatro, il disgusto per la ripetizione come materia inerte, assodata, il rifiuto della piatta riproducibilità.

 

Totò in Bada che ti mangio!, 1949.

 

Questo aspetto dell’arte Totò colpì le neoavanguardie teatrali, quelle che negli anni ‘60 cercavano strade di eversione del teatro degli stabili, in cui gli attori erano ridotti al ruolo di funzionari, dei giri commerciali o delle compagnie di prosa impiegatizie. Entusiasmarono gli innovatori la sua fisicofollia e i suoi deragliamenti linguistici, ereditati, ancora, del varietà e alla lontana della commedia dell’arte, quel legame con una tradizione insieme popolare e di avanguardia, vale a dire una delle poche lingue vive che la scena italiana aveva prodotto nel novecento, dialettale, umorale, di classe e transclassista, erede delle maschere, della fame, della critica all’autorità, plebea ma anche intellettuale, capace di parlare a ricchi gagà, borghesi e affamati sottoproletari. Quel teatro che aveva abbandonato la psicologia e puntato sulla velocità, sulla precisione della gag, sulla deformazione, su quella cosa complicata da definirsi che è la realtà, continuamente da montare e smontare, da rivelare. Al teatro dei telefoni bianchi, alle commedie ungheresi, ai testi castrati da un’occhiuta censura si erano contrapposte varie forme di teatro popolare e autori che da quello partivano, incrociandosi poi con il realismo, con il futurismo, con il pirandellismo (per esempio Viviani, Petrolini o Totò, appunto), senza perdere le radici di una narrazione  che andava alle cose, in forme diverse, con la tragedia, con lo sghignazzo, con il sorriso amaro disincantato dal tarlo del pensiero.

 

Negli anni ’60 del Novecento qualcuno voleva dare nuovamente la scalata al cielo misterioso di un teatro necessario, che fosse intinto nelle cose, che parlasse, in modo non semplicemente fotografico, la lingua delle cose, la necessità di smontare convenzioni e meccanismi ingabbianti, di rovesciare, deridere, denudare, urlare. Chi legga la pubblicistica di quegli anni trova varie polemiche sulla mancanza di una lingua teatrale, la distanza delle scene dalla società, e la richiesta di creare rapporti. Ne parlava per esempio Flaiano, nel luglio del 1965, in un articolo sull’inchiesta della rivista Sipario che chiedeva agli scrittori italiani perché non si dedicassero al teatro (ora in Lo spettatore addormentato, Adelphi, 2010). Rapporti che erano più facili con il tramite dell’unica tradizione scenica di lunga durata, localizzata in ambiti concreti, quella del teatro dialettale e popolare. E le nuove avanguardie quel rapporto cercarono di crearlo per traumi: rifiutando le sale delle poltrone rosse, le grandi produzioni, ritirandosi in cantine, ibridandosi col cinema, con la letteratura, con altre arti, andando a trovarsi maestri, padri, compagni di strada eretici, eterodossi, lontani dal sistema dominante.

 

Carmelo Bene in Pinocchio, 1999.

 

Carmelo Bene riscoprì Marinetti, e Majakovskij, la provocazione del varietà, la “crudeltà” di Artaud, l’Amleto deragliato, lunare, simbolista di Laforgue. E il burattino snodato Pinocchio, che emergeva dal buio con la sua corte di cialtroni, con il suo dire spezzato, i suoi modi cubisti e tutte le implicazioni sessuali insite nel naso e nel rapporto con la fatina (varie versioni dedicò al più popolare romanzo italiano: nel 1966, nel 1981, nel 1988 e nel 1999, per la televisione). E Carmelo doveva essere il burattino in un film di Nelo Risi che non si fece, in cui Totò doveva interpretare Geppetto e Brigitte Bardot la Fata Turchina, come ci ricorda l’ultimo libro di Alberto Anile, Totalmente Totò, pubblicato dalla Cineteca di Bologna in occasione del cinquantenario della morte: un viaggio nella carriera del comico che rivisita anche tutta la prima parte della vita, con la sua lunga militanza teatrale.

 

La parlata a scatti di Bene, lo smontaggio della lingua per svellere i modi abitudinari di percezione, richiamano moltissimo il lavoro sulla parola in palcoscenico del principe de Curtis, così come certi film dell’attore salentino sembrano una raffinatissima versione di parodie del comico. Vedi per esempio la Salomè stravolta del 1972 e la Salomè di Totò, nella rivista di Galdieri Con un palmo di naso (1944), con una folle incursione di Pinocchio, quello che piace alla bambina dai capelli turchini per il naso, perché «lei si fa il conto: se tanto mi dà tanto…» (dal quadro Il paese dei balocchi della rivista Volumineide di Galdieri, 1942: battuta cancellata dalla censura, in uno spettacolo che dipingeva l’Italia mussoliniana come un guazzabuglio di profittatori, burocrati, borsaneristi, con Pantalone che paga sempre).

 

E se le influenze su Bene sono evidenti ma non esplicitate dall’artista, Totò diventa invece maschera, voce, pose ricorrenti, bandiera, in un altro dei protagonisti dell’avanguardia dell’ultima parte del novecento: Leo de Berardinis, che gli dedica perfino uno spettacolo dal titolo significativo, Totò, principe di Danimarca (1993, rintracciabile integralmente su Youtube in una versione di qualche anno dopo, diviso fra prima e seconda parte). Con la storia di un affamato Totò che prende il posto di un attore drammatico per portare un suo sgarrupato Amleto a un festival shakespeariano inglese dove pagano bene, Leo compie quel cortocircuito tra “alto” e “basso” che altre volte lo aveva portato a mescolare Schönberg o Charlie Parker e la sceneggiata napoletana, per esempio in King lacreme Lear napulitane, realizzato ai tempi del Teatro dell’ignoranza a Marigliano, ancora un lavacro in un teatro fuori dai canoni borghesi, un teatro della necessità, di presenza, di improvvisazione, di performance, dove arte e vita, desiderio di arte nuova e disprezzo della compassata, inessenziale vita borghese si fondono. (Si legga, a proposito di de Berardinis, il bellissimo libro di Gianni Manzella, La bellezza amara, La casa Usher, 2011).

 

Leo de Berardinis in Totò, principe di Danimarca, 1993.

 

Totò rimane attaccato alla figura e alle inflessioni di Leo, col cappellino e con la zimarra, già in lavori precedenti, e soprattutto in La tempesta (1986); poi in un paio di scene di quel capolavoro che è Novecento e Mille (1988 e 1989), il secolo breve dalle ombre della caverna di Platone alle Ceneri di Gramsci pasoliniane, dal Lenin di Majakovskij a Pirandello, Eliot, Charlot, Artaud, Beckett, Eduardo, passando per E levate ‘a cammesella e la gag dello scrivano in Miseria e nobiltà, con un fulminante «Vieni avanti cretino!» (questi sono i De Rege, ma è lo stesso), cui risponde un attore truccato da Einstein con la battuta: «E uguale emmeci al quadrato. Eh?». Contaminazione? Disgusto? Ricostruzione? Il Totò del varietà immaginato attraverso quello che ha seminato nei suoi film.

 

Gli spettacoli di Leo risalgono agli anni in cui era già stato riscoperto il teatro di Totò. Il merito va a Goffredo Fofi, che poco dopo la morte del comico ne interpretava la figura recuperandone la complessità. E pubblicava Quisquiglie e pinzillacchere. Il teatro di Totò. 1931-1946 (Savelli, 1976), riportando alla luce copioni, spesso massacrati dalla censura, che davano solo il disegno dello spartito, non della partitura con voci, colori, timbri, improvvisazioni, ma pure permettevano di farsi un’idea di un’arte composita, tra maschere antiche e moderne, osservazione della realtà e esplosione del varietà. Seguiva nel 1977 per Feltrinelli Totò: l’uomo e la maschera, scritto da Fofi con Franca Faldini, un viaggio più complesso nell’artista, che pure riportava una parte del suo teatro.

 

Sarà merito di uno studioso, che lungamente ha fiancheggiato il Nuovo Teatro e Leo de Berardinis in particolare, Claudio Meldolesi, fine interprete della cultura dell’attore e della prima regia italiana, scrivere di Totò come “occasione sprecata” del teatro italiano (siamo nel libro Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, edito da Bulzoni nel 1987, poco prima di Totò principe di Danimarca di Leo). Il teatro della normalizzazione sprecò l’autonomia linguistica, l’indipendenza dell’attore di Totò, il suo “teatro delle invenzioni”, non separato, però dai dibattiti culturali «sulla lingua, sulla cultura popolare, sull’ideologia; come lo fu invece il sistema teatrale». Come altri nomi trattati nel volume – Eduardo, lo storico Mario Apollonio, il giovane Strehler, Pirandello, Gadda – Totò è la diversità dell’invenzione dalla normalità teatrale; Totò, come Gadda, era «artista del pasticcio: anche lui contaminava, mettendo insieme la frase fatta e il “lembo” di vita, la battuta diretta e la posa dialettale». Totò era, «per dirla con Fofi, l’attore della diversità sociale», irriverente, sarcastico, lunare, come è stato variamente definito; «era un fatto astratto, irripetibile» (Zavattini), era burattinesco, imprevedibile, cubista, sintetico…

 

Antonio Rezza in Fratto_X, 2012.


«Totò sembrava un concentrato di tutto ciò che il teatro di allora non capiva o non tollerava. Era indifferente allo stile e indisciplinato al testo, la sua comicità mescolava effetti di ogni provenienza: naturalistica, mimica, musicale e rumorale, tragico-sociale. Recitando bassamente, dava prova di una scienza altissima. La sua maschera era poeticamente popolare e brutalmente borghese; e si era precisata anch’essa per contaminazioni: del caffè concerto con il varietà, del varietà con il teatro farsesco, e della farsa con l’avanspettacolo e la rivista. Dunque, per i critici custodi delle separatezze, Totò era una mina vagante. D’altro canto, il teatro italiano non si sarebbe potuto limitare ad accoglierlo: avrebbe dovuto considerarlo un monstrum rivelatore, rispetto a cui ridiscutere la propria identità. Ad esempio un regista non avrebbe potuto comandarlo, come allora si usava, bensì avrebbe dovuto organizzare drammaturgicamente ciò che lui andava facendo: l’arte di Totò era inconiugabile con la regia dall’alto, tipica degli anni ’40-’50. Il ritmo dell’attore, indispensabile alla sua creatività, era alternativo all’orchestrazione su cui si basava allora il lavoro registico: la regia italiana avrebbe dovuto diversificarsi, rinunciare al monolitismo» (Fra Totò e Gadda, pp.48-49).

 

Non è un caso, allora, che Totò sia diventato la bandiera di molti irregolari di genio della scena italiana più recente, o che sia stato accostato a nomi impensabili. Totò e Artaud, inalberava come vessilli di un teatro vivo, dionisiaco, il Teatro delle Albe di Marco Martinelli. E un ultimo erede dell’attore snodabile, anarchico, urticante, popolare e intellettuale sembra Antonio Rezza nei suoi spettacoli con Flavia Mastrella, con una faccia segnata come quella del principe-guitto da un naso parlante, con una scardinante energia fisica e una devastante follia vocale che sbriciola convenzioni e sicurezze della vecchia scena.

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