Festival delle Colline Torinesi / Tre vertigini sull’assenza

21 Giugno 2018

È un dramma del vuoto, Roberto Zucco, l’ultimo testo scritto da Bernard-Marie Koltès ormai moribondo per l’infezione da Hiv, rappresentato la prima volta nel 1990. Una pièce dei tempi nuovi, dell’atto gratuito, della voglia di affermazione esistenziale, quando la vita riserva poco, e si risolve in uno spreco, in una corsa contro la morte e verso di essa, propria e degli altri.

Koltès scrisse i suoi testi lirici e disperati, pieni delle urla di dolore del mondo, quello dei più poveri ed emarginati, strapiantati nelle metropoli occidentali, negli anni ’80, un po’ sbrigativamente definiti post-moderni, neo-spettacolari, superficiali. Le sue opere rievocano il mistero della grande tragedia, quella classica, con squarci poetici che entrano nei desideri e nelle paure dei nostri giorni.

 

Roberto Zucco, ph. Andrea Macchia. 


Roberto Zucco si ispira alla vicenda di un giovane veneto, Roberto Succo, che seminò morte intorno a sé; è la storia assurda di un serial killer di provincia, una vicenda di assoluto spaesamento, di rifiuto di qualsiasi valore costituito. Un eroe, a suo modo, negativo (ma come tutti gli eroi negativi fascinoso); autore di un grido, difficilmente interpretabile, per chi ha categorie pronte a incasellare tutto. Koltès aggredì quella oscura corsa verso il buio o in direzione di una strana luce mistica con il suo stile, crudo, iperrealistico e allo stesso tempo assolutamente lirico, in cerca di verità profonda, oltre la cronaca, oltre l’apparenza. 

 

Compito arduo è mettere in scena una tale pièce per una “classe” di attori appena diplomati, come sono quelli giovani e bravi della scuola del Teatro Stabile di Torino che lo hanno attraversato durante il Festival delle Colline Torinesi. Sono stati guidati dalla regia di un’attrice che in scena non si risparmia, non risparmia di esibire il corpo, il dolore, l’indignazione, le viscere perfino, sempre con una bella dose di ironia intinta in un gioco continuo tra lingua e dialetto: Licia Lanera, esuberante, debordante, come un corpo politico che cerca una ragione per essere nel mondo e non può che starci attraverso il disagio, l’estremizzazione, la rottura che chiede ascolto e perfino tenerezza.

Oggi forse solo una scuola può affrontare l’impresa produttiva di allestire un tale testo, con 18 attori e un numero ancora maggiore di personaggi. Lo spettacolo è stato rappresentato in una rassegna dedicata quest’anno alle migrazioni e alle strade delle persone che si muovono tra i mondi diversi. Il Festival delle Colline Torinesi, diretto da Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti, si bilancia tra importanti spettacoli internazionali come Empire di Milo Rau e produzioni nostrane, incentrate per lo più sulla ricerca drammaturgica e registica.

 

Questo Roberto Zucco inizia in modo naturalistico, per poi virare subito verso la caratterizzazione estrema di certi personaggi, il padre della ragazzina sedotta da Zucco come una maschera, una macchietta senza parola, per sprofondare nel grottesco della “Piccola Chicago” delle puttane, nude, nel pube o nel seno, per schizzare verso una lotta di tutti contro tutti, con spruzzi di sangue, mentre l’eroe diabolico attraversa situazioni, mondi, cercando di succhiarne spiriti vitali, proiettato verso una folle corsa, alla Icaro, verso un sole oscuro, verso il continente mentale dei rinoceronti che finiscono per invadere la scena, animali mostruosi e favolosi come l’ansia del protagonista.

Il viaggio del “criminale” innamorato dell’aria, della luce, della lontana mitica Africa, sprofondato all’inizio in una scura prigione, mitica figura di ribelle, di non incasellabile, che evade miracolosamente, e porta il contagio della sua assurda, estremistica voglia di vivere, alla ragazzina che seduce, alla famiglia di lei, a una signora borghese, alle puttane, in uno spreco continuo di vita, diventa parabola giocata tra l’estremismo fisico, il grottesco, il caricaturale, il paradossale, in un Koltès portato dalle parti del suo contemporaneo Copi, il disegnatore, l’umorista surreale, l’autore di teatro, morto in quegli stessi anni di Aids, che metteva in scena checche debordanti da ogni limite della vita.

 

Licia Lanera quello fa, tra le cupe drammatiche luci di Vincent Longuemare: deborda dai limiti, con qualche eccesso per mancanza di controllo, con qualche verismo di troppo, con certe ripetizioni, ma soprattutto con una forza insinuante che cresce fino a diventare incontenibile e a rendere assolutamente folgorante la fuga verso un assoluto incomprensibile, una vita totale e inconcepibile, di Zucco. 

Bravi tutti i giovani attori, sospesi tra la caratterizzazione e lo spreco vitale. Li ricordiamo in schiera: Nicholas Andreoli, Noemi Apuzzo, Federica Dordei, Anna Gamba, Alfonso Genova, Jozef Gjura, Noemi Grasso, Riccardo Livermore, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Riccardo Micheletti, Giulia Odetto, Benedetta Parisi, Pierpaolo Prezioso, Valentina Spalletta Tavella, Andrea Triaca, spesso alle prese con parti en travesti o con svisate tra il caricaturale e l’estremo, come la puttana barbuta di Elvira Scorza. Zucco era Riccardo Niceforo, giovane come gli altri, con la capacità degli attori debuttanti di alternare momenti di intensità estrema ad altri di discreto smarrimento.

 

Causa di beatificazione, ph. Andrea Macchia.


Altri due spettacoli abbiamo visto, della sezione italiana del festival. Causa di beatificazione mette insieme vari testi di Massimo Sgorbani, con il filo rosso di maternità difficili, negate, violate, in situazioni di conflitto come il Kosovo o la Palestina. Michele Di Mauro ha curato adattamento e regia, non risparmiandosi nulla, creando uno spettacolo a volte ripetitivo, prevedibile, sovrabbondante, illuminato dai video di Giulio Maria Cavallini, in scena come muto interlocutore della protagonista di un triplo monologo. Eppure lo spettacolo colpisce, in un trascorrere tra vite di donne che possono somigliare a quella di Madama Butterfly, una prostituta kossovara che aspetta il ritorno del casco blu che l’ha ingravidata e poi, desolatamente, il figlio lo abbandona, e Suor Angelica, una religiosa violata, o che ha desiderato dare il suo corpo, con l’intercalare di una donna kamikaze palestinese, dal ventre sterile, che offre se stessa in olocausto per il bene di altri figli. Spicca la presenza dell’interprete, Matilde Vigna, già ammirata come algida feroce Clitemnestra in Santa Estasi di Latella, qui distesa in una notevole molteplicità di toni, umori, trasformazioni. La giovane attrice torreggia, capace di attraversare il dolore e il desiderio, di frammentarsi, spezzarsi e moltiplicarsi. Sicuramente di lei sentiremo sicuramente parlare molto. Lo spettacolo, con molte cose affastellate, con qualche lungaggine, pure conquista, rapisce in vari moneti, disegna un quadro del dolore dell’essere donna, esposta, fragile, senza patria, nei conflitti di oggi. Aspettiamo di rivederlo durante la stagione prossima, magari asciugato.

 

Oh no Simone Weil, ph. Andrea Macchia.


Colpisce al cuore, invece, Oh no Simone Weil di e con Milena Costanzo, un viaggio in cerca della grazia (o della Grazia) che si apre con immagini acide, pop, di alberi secchi su sfondi di colori accesi e si chiude su fotografie di paesaggi urbani, pizzerie, motel, distributori di benzina, sale giochi senza presenze umane, in luci e atmosfere alla Ghirri (le immagini, bellissime, sono di Paola Codeluppi), luoghi di passaggio, di smarrimento, di annullamento e abbruttimento in cerca di una ragione del vivere. Il monologo, frammentato da salti continui nelle opere e nel pensiero della filosofa e teologa francese, è la ricerca di un altro mondo vista l’inabilità di questo. È basato principalmente sui pensieri di L’ombra e la grazia, il testo che raccoglie gli ultimi pensieri di Simone Weil. L’attrice arriva con zaino e fazzoletto da esploratrice, in una ricerca di umanità, di senso, che col procedere del tempo si fa via via più densa, più incarnata nelle parole e nelle esperienze della filosofa in cerca di una via mistica all’unione con dio, con il tutto sentito come assente, in una fuga continua da ogni prevedibile certezza (e da ogni facile teatralità), con la sicurezza di essere alla rovescia, separati, divisi per sempre, abbandonati in un deserto troppo pieno. Parole scavate, incise, meravigliose inquiete domande all’azione impossibile o solo probabile, prima della sequenza di devastanti vuote immagini conclusive. Verso il silenzio delle cose più seduttive, simulacri vuoti dell’invasione di un presente inessenziale. 

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