Trump / Biden, ovvero de senectute

30 Giugno 2024

Nel primo libro della Repubblica di Platone, Socrate scende al Pireo, il porto di Atene, per assistere a una festa dedicata alla dea Bendis, originaria della Tracia. Un gruppo di amici incontrati per caso lo vuole ingaggiare in una conversazione che si terrà nella casa di un anziano imprenditore di nome Cefalo. Prima di cominciare la discussione, che avrà come temi la giustizia, la virtù, l’educazione e l'ordinamento politico della città, Socrate e Cefalo si scambiano alcune battute sulla vecchiaia. Cefalo si è ritirato dagli affari, è benestante, ma è vecchio e comincia a temere la morte. Infatti, non partecipa al simposio che si tiene in casa sua perché sta andando ad offrire sacrifici agli dèi. Sparisce dalla scena e non ricompare più.

Perché questo strano inizio? Platone non è esplicito, però possiamo capire che Cefalo sia ormai fuori dal discorso politico. Non prova più desideri, né di cibo né di sesso, ed è segno che ora deve pensare a come affrontare la morte. Platone non sta dicendo che solo i giovani focosi dovrebbero fare politica; anzi, prima di entrare in politica è imperativo raggiungere la maturità. Ma l‘educazione del politico, che è lunga e difficile, deve cominciare fin dall’adolescenza, perché la politica è una passione e deve essere esercitata da chi sa provare passioni e allo stesso tempo gli è stato insegnato come controllarle.

Platone scrive la Repubblica all'incirca nel 375 a.C., a 52 anni d’età. Più di tre secoli dopo, nel 44 a.C., lo stesso anno dell’uccisione di Cesare, Cicerone scrive il De senectute. Nella finzione, anticipa i tempi di un secolo per far pronunciare l’elogio della vecchiaia al leggendario Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), l’arciconservatore del Senato romano, detto Cato censor ma anche Cato senex, visto che visse fino alla ragguardevole età di 85 anni.

Nel 44 a.C., Cicerone aveva 62 anni, spesi scrivendo, arringando e intrallazzando senza posa nel Senato. Al contrario di Platone, che non era sicuro di quanto vecchiaia e politica potessero andare d’accordo, Cicerone afferma, per bocca di Catone, che la vecchiaia non distoglie affatto l'uomo dalla vita attiva. Lo rende più debole, ma non è della forza fisica che il vecchio ha bisogno. Non gli fa più provare piaceri fisici, ma lo libera dalla schiavitù del sesso. E che la vecchiaia avvicini alla morte non è cosa che debba spaventare l'uomo virtuoso, ma anzi rassicurarlo che sta raggiungendo la sua destinazione, come una nave giunta infine in vista del porto. 

All'inizio del suo monologo, Catone si permette una battuta: la vecchiaia è quella cosa che tutti desiderano raggiungere e che una volta raggiunta la detestano. Poi, al cruciale capitolo VI, paragrafo 17, afferma con forza che non è per nulla vero che i vecchi non siano adatti alla politica; sarebbe come dire che il timoniere su una nave non sa far nulla perché, mentre i marinai sono impegnati in questo o quel dovere, lui non fa altro che star dietro al timone. Le grandi cose non si fanno con la forza o con l'agilità del corpo bensì con la saggezza, l'autorità e il prestigio; tutte virtù delle quali la vecchiaia è più ricca della gioventù.

Curiosamente, ma non troppo se pensiamo allo stato della medicina nel 44 a.C., Cicerone fa dire a Catone che le malattie non sono una conseguenza della vecchiaia, visto che anche i giovani si ammalano. Era un luogo comune dell’antichità affermare che la morte del saggio sopraggiungesse senza il dolore di una lunga malattia. Forse perché allora le malattie non erano affatto lunghe; in mancanza di cure adeguate potevano permettersi di essere più aggressive e finire prima il loro lavoro. Cicerone scrive in un'epoca in cui – così dice – i giovani sono facili ad ammalarsi gravemente. Sembra insomma che quei pochi che allora arrivavano alla vecchiaia ci arrivassero sani. Ci si poteva dunque aspettare che contribuissero ancora alla comunità, finché non arrivava anche per loro il momento di andarsene in pace.

Molti anni sono passati e molte cose sono cambiate. Quando si diventa vecchi nella nostra società? Ora che l'età media si è alzata, fino a quando è lecito esercitare attività politica? Dante poneva il termine della vita a settant'anni, ma oggi un settantenne ancora in salute viene considerato un anziano, non un vecchio. Soltanto all’età di Catone si diventa “grandi anziani”, ultima incarnazione di quello che una volta era il rispettato senex.

Però è anche più frequente che si arrivi agli ottant’anni ed oltre in uno stato di buona salute fisica ma con un grave scadimento delle facoltà intellettuali. Cresce la vita media, ma crescono anche i casi di demenza in ogni sua forma. Già Schopenhauer nel XIX secolo, senza farsi più illusioni, parlava di vecchi buttati in un angolo e delle loro misere giornate, simili a quelle di un delinquente condotto al patibolo. La vecchiaia è la fine di un ballo mascherato, scrive Schopenhauer negli Aforismi sulla saggezza della vita, pubblicati nel 1851. Infine, le maschere vengono tolte e riusciamo a vedere in viso chi sono coloro che ci hanno accompagnato nella nostra esistenza. I caratteri si sono manifestati, le azioni hanno portato i loro frutti e non è più il caso di credere in chimere. Bisogna toccare i settant'anni per capire che tutto è vanità (Schopenhauer morì nel 1860, a 72 anni).

Ma che dire invece di coloro che pur vecchi si rifiutano di “far posto al domani”? (Cito il titolo di un piccolo grande film di Leo McCarey, Make Room for Tomorrow, 1937, che servì da ispirazione per Tokyo Story di Yasujiro Ozu, 1953.) Diventano presto figure patetiche di cui non si vede l’ora che spariscano, soprattutto se tengono ancora le mani ad artiglio su qualche forma di potere, perché l'essere umano invecchia ma il potere no, è un Dorian Gray che si guarda nello specchio e ride di quel riflesso che avvizzisce al suo posto. E chi si dedica al potere scopre presto o tardi la difficoltà di liberarsi dalla sua particolare schiavitù, anche se l’ha scelta per nobili fini, anche se l’ha voluta in nome del bene pubblico.

Ingannando la morte si ingannano anche i vivi, mettendo in pericolo il loro avvenire. Negli Stati Uniti, è quello che è accaduto a Ruth Bader Ginsburg (1933-2020), la grande giudice progressista della Corte Suprema che già malata di cancro avrebbe potuto ritirarsi nel 2013, permettendo così a Barack Obama di sostituirla con chi ne potesse continuare l’opera. Al contrario, Ruth Bader Ginsburg rimase sullo scranno fino all’ultimo dei suoi giorni, così che Donald Trump la rimpiazzò con Amy Coney Barrett, la giudice conservatrice che giocò un ruolo chiave nel dichiarare l’aborto (una delle cause per cui Ruth Bader Ginsburg si era battuta) non più un diritto difeso dalla Costituzione e da rimandare dunque alla legislazione dei singoli stati. Con la sua negazione della vecchiaia, Ruth Bader Ginsburg ha fatto cadere la maschera degli Stati Uniti. Per eccellenza considerato il paese della gioventù, del vigore, della forza, della virtus romana rinata in un altro continente e tante altre formule che qui non ho bisogno di elencare, si è capito che gli Stati Uniti erano anch’essi esposti, là dove i meccanismi di ricambio del potere si inceppano, agli stessi difetti delle vecchie monarchie che solo la scomparsa fisica dei potenti riusciva a rinnovare.

Il 27 giugno 2024 si è tenuto il primo dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump. Il prossimo si terrà il 10 settembre. Chi ci sarà quel giorno dietro al podio presidenziale? Vedremo ancora Biden, vedremo la vicepresidente Kamala Harris, o qualcun altro che sarà annunciato tra il 19 e il 22 agosto durante la Convention Democratica di Chicago? Il gelo che è passato sui democratici dei cinquanta stati nel vedere il loro presidente fissare nel vuoto ad occhi spalancati e ingarbugliarsi con le parole (Biden ha sempre sofferto di balbuzie, ma qui non si trattava di un occasionale blocco della voce) si è mutato ben presto in panico. Biden ha mostrato un certo piglio solo nell’attaccare personalmente Trump e la sua raffica di falsità. Cosa giusta ma inutile, perché non è ciò che gli elettori indecisi vogliono sentire. Tutti ormai sanno chi è Trump, e se decidono di votarlo non lo fanno con lo spirito di chi si mette con un partner violento sperando che poi cambi. 

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Circola in internet uno spaventevole video che in tre minuti raccoglie tutti gli strafalcioni, le attribuzioni sbagliate e gli errori grotteschi tratti dai recenti discorsi di Trump – This 3-minute video of Trump is absolutely devastating (dailykos.com) – ma la forza fisica con la quale Trump li sputa fuori fa la differenza, e ancora di più il fatto che non gliene importa niente se quello che sta dicendo è giusto o sbagliato, così come non importa ai suoi elettori; l’unica cosa che conta è mitragliare parole. Allo stesso modo, si può vedere su CNN un discorso di Biden in North Carolina, pronunciato il giorno successivo al dibattito televisivo, in cui il presidente parla con vigore, appare molto lucido, ammette che la resa del giorno prima non è stata delle migliori, ma riafferma di saper fare il suo lavoro e di poter battere il più grande bugiardo mai vissuto sulla faccia della terra. Benissimo, ma quel discorso sarà stato visto da un milione e mezzo di persone, non dai 51,3 milioni che hanno seguito il dibattito, e non mette a tacere nulla. Se quegli occhi hanno fissato nel vuoto una volta, potrebbe accadere ancora, e in situazioni più pericolose.

Abbiamo insomma da un lato un quasi-grande anziano (81 anni) che non ha più a comando le forze che gli servono, e dall’altro un anziano (78 anni) che ignora felicemente la propria anzianità, facendo mostra di avere ancora molti desideri, anzi uno solo, quello della sopraffazione (Platone la chiamava pleonexía, il desiderio antipolitico per eccellenza, l’impulso primario alla sopravvivenza a tutti i costi). Trump vuole il potere che conferisce l'immunità, ma non solo per i vari reati di cui è accusato. Vuole l'immunità dalla vita, una certa forma di immortalità ribalda, il contrario di quella conferita dall’onore e dalla virtù. Si dice che i giovani sappiano tutto, tranne che di essere giovani, ma che fare di un vecchio che non sa nulla, nemmeno di essere vecchio?

Ma Biden invece cosa vuole? Perché non si ritira finché è in tempo? Se vincesse le elezioni, cosa sempre più improbabile ma non ancora impossibile, potrebbe trascinarsi fino al gennaio 2025 ed essere confermato (benché Trump sia già pronto a scatenare i suoi giannizzeri), ma dopo? Anche se la débacle del 27 giugno fosse solo temporanea, chi può seriamente credere che Biden possa efficacemente svolgere le mansioni di presidente fino al 2028? E dunque che cosa abbiamo, un altro caso Ruth Bader Ginsburg? Un altro grande anziano che vede la sua nave avvicinarsi al porto e vuole a tutti i costi invertire la rotta, credendo di avere a disposizione ancora un altro anno, e poi un altro e un altro ancora? Davvero l’America non è più un paese per giovani?

Cicerone riferisce che il sapiente Solone, quando il tiranno Pisistrato gli chiese su che cosa si basasse l’audacia che gli era necessaria per opporsi a lui, rispose: “Sulla vecchiaia” (“Senectute”). Che in quel contesto voleva dire: mi affido alla mia saggezza, e alla consapevolezza di non avere niente da perdere. Biden non può più usare lo stesso argomento contro il tiranno Trump. La senilità è un biglietto di sola andata, e la sua vecchiaia sarà quella di chi viene messo in un angolo. Ma vediamo la questione da un punto di vista freddamente politico. 

Il Presidente degli Stati Uniti è il Presidente dell’Occidente, e l’Occidente sta affrontando crisi interne ed esterne di gravità indiscutibile. I nemici dell’Occidente (perché ci sono, è inutile illudersi o fare le anime belle) stanno aspettando un vuoto di potere per poter colpire con più forza e più decisione. Al vertice degli Stati Uniti questo vuoto di potere non ci può e non ci deve essere. Il mondo deve affrontare il cambiamento climatico e il ruolo dell’intelligenza artificiale (temi per nulla discussi nel dibattito televisivo). Se Biden annunciasse, oggi o domani, di voler gettare la spugna, si aprirebbe una voragine dove Russia, Iran e Cina entrerebbero immediatamente, forse portandosi dietro anche l’India. Non sto parlando della Terza guerra mondiale, che è un puro fantasma, ma di conquiste di aree d’influenza cruciali per il futuro del mondo. Ma una seconda presidenza Trump non sarebbe altrettanto disastrosa? Sì, perché Trump non ha nessuna visione politica oltre alla sua ammirazione per gli uomini forti e la volontà di mettere in atto le sue vendette, ma come presidente deve comunque rispondere a una consuetudine di decision making, a una funzione di controllo che il Congresso può esercitare su di lui. Anche in caso di sconfitta di Biden, è probabile che i democratici riguadagnino posizioni chiave alla Camera dei deputati e al Senato, come è già accaduto nelle elezioni di medio termine del 2022, nelle quali molti candidati appoggiati da Trump hanno perso.

Se mai a Biden passasse per la mente di ritirarsi, dovrebbe annunciarlo subito. Il vuoto di potere sarebbe devastante, ma lo sarebbe ancora di più se il ritiro venisse annunciato a sorpresa alla Convention democratica. Un annuncio in anticipo darebbe tempo ai “grandi elettori” del Partito Democratico di lavorare con i delegati e la base, indirizzare i voti sul successore e cominciare a stornare gli ingenti fondi elettorali. La sorpresa alla Convention, al contrario, getterebbe il partito nel caos a due mesi dalle elezioni. E chi sarebbe il successore? Non è detto che debba essere Kamalas Harris, i delegati hanno libertà di voto (il nome di Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, circola spesso), ma nel 2020 gli elettori hanno scelto Biden/Harris. Qualunque altro nome sarebbe arduo da far accettare (e i giornalisti italiani che parlano di una Michelle Obama in panchina stanno delirando; se sarò smentito, vorrà dire che molti altri stavano delirando e io non lo sapevo). Certo, è assolutamente folle che i più grandi partiti americani non abbiano il potere di sfiduciare un candidato palesemente inadatto al ruolo (così come è folle che i giudici della Corte Suprema siano eletti a vita), ma questo dipende da come è nata la democrazia americana, essenzialmente una stretta di mano tra ricchi proprietari terrieri che sognavano di rifondare la repubblica romana e confidavano ognuno nell’onore dell’altro.

Da quattro anni sento ripetere che Kamala Harris è impopolare. Che è arrogante, irosa e fredda con l’elettorato, e che non ha saputo affrontare il tema dell’immigrazione al confine con il Messico. Il fatto è che non lo so, perché il vicepresidente degli Stati Uniti non ha potere, è solo una figura di rappresentanza e di emergenza. Non c’è modo di verificare se Kamala Harris abbia fatto qualcosa di buono, perché non c’è niente che il vicepresidente possa veramente fare. Molte delle accuse che si rivolgono a Kamala Harris sono le stesse che Hillary Clinton ha dovuto ascoltare. Hanno funzionato otto anni fa e possono funzionare ancora. Due cose cosa però sono certe: la prima è che scavalcare Kamala Harris spingerebbe l’elettorato nero a non andare nemmeno a votare; la seconda è che i democratici voterebbero per Kamala Harris in ogni caso, liberi dall’incubo di dover tenere in piedi un presidente sull’orlo del tracollo. Gli indipendenti e gli indecisi, beh, starebbe a lei tirarli dalla sua parte. E se non ci riuscisse, la procedura democratica sarebbe comunque salva. Poi, con Trump, accadrà quello che accadrà. E potrebbe non accadere. La disastrosa performance di Biden ha fatto dimenticare all’America che anche Trump a suo modo è debole. 

Ma siamo realisti: davvero pensiamo che Biden abbandonerà graziosamente la corsa per la Casa Bianca? Non è forse assolutamente convinto che solo lui può fermare Trump? Non è forse l’adrenalina del potere a tenerlo ancora in piedi nonostante tutto? Nella Repubblica, Platone fa dire a Socrate che l’uomo giusto entra in politica per dovere, non per piacere, e anzi non vede l’ora di tornare alla sua vita privata una volta che ha compiuto il suo mandato. Ma per coloro i quali la politica è il più grande dei piaceri, è possibile immaginare che lo vogliano cedere ad altri? Non sono pronti a far crollare l’intero edificio pur di non lasciare la presa? Spero che non sia questo il caso, ma ciò che vale per Trump può valere anche per Biden. La vera domanda che ora gli americani devono farsi non è quella che Ronald Reagan pose durante il dibattito televisivo del 28 ottobre 1980, e che gli assicurò la vittoria contro Jimmy Carter: “State meglio oggi o quattro anni fa?”. La domanda è: “Siete sicuri che fra quattro anni starete meglio di oggi?” (Indipendentemente da chi votate, s’intende.)

P.S. In un vecchio fumetto di Quino, il fratellino chiede a Mafalda: “Perché il papà sembra così triste?” E Mafalda risponde: “È andato a votare. Ha una faccia, poveretto.” “Perché? Ha paura che il suo candidato perda?” “No, ha paura che vinca. Ha una faccia, poveretto.”

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